Essere una donna italiana afrodiscendente per me vuol dire avere a che fare con il sessismo (come ogni altra donna), il razzismo sistemico e gli stereotipi di matrice coloniale che tendono a ipersessualizzare e feticizzare corpi come il mio. Si tratta di pregiudizi (consci e inconsci) che hanno visto la luce negli anni del colonialismo italiano, alla fine del XIX secolo. Quando l’Italia invase Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia, sterminò migliaia di civili, violò molte donne, impose uno stato di Apartheid, impedì ai bambini neri di proseguire gli studi ed esibì molte di queste persone all’interno di zoo umani. Per convincere i soldati a partecipare alla campagna militare, il governo si servì di illustratori come Enrico De Seta, che rappresentò le donne nere come pacchi postali, nelle vesti di schiave in pose ammiccanti o di guerriere «selvagge» ed esotiche.
Quella deumanizzazione contaminò non solo l’immaginario del mondo adulto, ma anche quello del mondo infantile. Il primo personaggio a fumetti in Italia fece la sua apparizione nel 1908 sul Corriere dei Piccoli. Si chiamava Bilbolbul ed era un fumetto in black face: Bilbolbul era un bambino che sembrava uscito da un secchio con lucido da scarpe, le labbra esageratamente rosse e gonfie. Perché, se le donne nere venivano ipersessualizzate, gli uomini venivano ridicolizzati e infantilizzati.
Durante gli anni del fascismo, invece, ci fu un cambio di rotta. I corpi neri, che rappresentavano una minaccia per la «razza» italiana, ritenuta ariana e superiore, furono demonizzati. In linea con leggi come quella contro la mescolanza etnica (1937), le leggi razziali (1938) e la legge contro il meticciato (1940). Quest’ultima, in particolare, spogliava della cittadinanza i figli nati da relazioni fra italiani e donne del Corno d’Africa (20.000 solo in Eritrea). Non è un caso che molti dei migranti che oggi cercano di raggiungere le nostre spiagge da quell’area del mondo siano in realtà discendenti dei coloni che abbandonarono le loro madri. Hanno diritto alla cittadinanza italiana, ma la burocrazia italiana ha reso loro impossibile riconoscerla anche dopo la fine del fascismo. Le ragioni stesse che li spingono a lasciare la loro terra sono conseguenza diretta degli stravolgimenti geo-politici causati dalla presenza italiana in Africa, ieri come oggi — ENI, che è il secondo produttore di gas e petrolio nel continente africano, è responsabile dei disastri ambientali che spinge questa gente a trasferirsi altrove. Ma l’Italia è off limits, come ci ricorda il Memorandum Italia-Libia.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, coloro che vissero gli anni del colonialismo imbevuti di quelle immagini e ideologie, divennero pubblicitari, fotografi, registi…
Gli stereotipi razzisti si diffusero a macchia d'olio anche in ambito cinematografico: si pensi a pellicole come La ragazza dalla pelle di luna (1972) o Il corpo (1974) di Luigi Scattini. Nelle pubblicità, quei cliché si materializzarono sotto forma di derrière sinuosi (Morositas, 1987) o corpi nudi ricoperti di panna montata (Coppa Malù, Parmalat). In anni più recenti, i nostri schermi si sono riempiti di ballerini neri nudi che celebravano l’effetto volumizzante di un mascara (Layla Cosmetic, 2022) e storici conduttori tv hanno sfoggiato volti in black face in prima serata (Mago Forrest, Giallappa’s Show, 2023). Nelle ultime elezioni europee, partiti politici hanno strumentalizzato donne col velo a caccia di voti (Lega Nord).
È da qui che deve ripartire la scuola: da quella storia coloniale troppo a lungo dimenticata, offuscata da falsi miti sugli «italiani brava gente» e le loro «missioni civilizzatrici».
Solo guardando in faccia al passato e prendendo consapevolezza delle nostre responsabilità coloniali, potremo decostruire gli stereotipi e valorizzare la pluralità secondo un’ottica decoloniale, antirazzista e intersezionale.