Saper leggere i dati è in realtà un’abilità innata che deriva dall’esperienza che abbiamo del mondo: quando apriamo il frigorifero e vediamo una bottiglia di latte riempita per tre quarti sappiamo che ne avremo a sufficienza per la colazione senza bisogno di quantificare i millilitri esatti. Riconosciamo le codifiche visive dei dati e prendiamo decisioni in base a queste informazioni: il telefono è da ricaricare se il rettangolo che indica lo stato della batteria è di colore rosso, il latte è da ricomprare se non raggiunge la metà della bottiglia, e via dicendo.
La nostra percezione del mondo però influisce sul modo in cui leggiamo dati, grafici e statistiche.
L’esperimento condotto da Deborah Stone (si veda l’articolo Cosa sono i dati, come definirli?) è utile per cambiare il nostro modo di vedere e interpretare i dati, e per eliminare le differenze tra pensiero quantitativo e qualitativo. A livello culturale e di linguaggio stiamo facendo lo stesso lavoro: capire quali sono le differenze importanti tra i fenomeni che osserviamo e quali possono essere ignorate. Per questo, Stone sostiene che la raccolta dati non può essere mai neutra o oggettiva, perché sempre influenzata dalle scelte e dalle priorità di chi decide di raccoglierli. Jill Walker Rettberg, docente di cultura digitale all’università di Bergen, usa invece il concetto di «dati situati», in contrasto rispetto all’idea che i dati siano «neutrali» e «oggettivi». I dati sono costruiti, rappresentano una porzione di realtà, sono sempre curati e presentati in un certo modo, cioè situati in un certo contesto. Lei applica questa definizione allo studio dei dati che produciamo sui social media, ma possiamo accoglierla anche per capire che ogni dato va compreso e analizzato in base al contesto in cui siamo.
Valentina D’Efilippo è una designer italiana che colleziona mappe del mondo disegnate a memoria dalle persone che incontra: centinaia di foglietti scritti a penna, pennarello e matita, e più o meno accurati. In base al continente o al Paese in cui abbiamo vissuto gran parte della nostra vita le mappe che disegniamo saranno totalmente diverse l’una dall’altra. Ma siamo totalmente immersi nel contesto in cui viviamo e diamo per scontato che la nostra visione del mondo sia universale e le informazioni che consumiamo lo confermano di continuo.
L’economista Jonathan Schwabish ha preso ispirazione da questo esercizio, che D’Efilippo usa per rompere il ghiaccio all’inizio dei suoi workshop, e ha fatto disegnare la loro casa ad alcuni bambini dell’ultima classe della scuola primaria, raccontando poi l’esperienza sul suo blog Policy Viz. Ha osservato come i bambini avessero interpretato in modo diverso l’esercizio, chi aggiungendo le strade del quartiere intorno alla propria abitazione, chi dando rilievo alla propria stanza o al luogo dove trascorreva più tempo, chi disegnando l’intero palazzo. È un esperimento che mostra la diversa percezione che abbiamo delle misure e del mondo, e può essere utile per iniziare a spiegare ai bambini come la rappresentazione dei dati sia un costrutto puramente umano e soggettivo.