Il valore della statistica, della ricerca e della comunicazione scientifica non sono sempre stati universali e presenti nella nostra società. Anzi, la fiducia nella quantificazione comincia nell’Illuminismo, ed era accompagnata dai tentativi di misurare tutto ciò che potesse essere misurato. I dati venivano percepiti come oggettivi e fornivano una sorta di giustificazione alle istituzioni per raccogliere dati sui propri cittadini e garantire in qualche modo il loro benessere.
Ma quando abbiamo cominciato a usare la parola «dati» per indicare osservazioni quantitative della realtà?
Ci sembra un concetto nuovo, contemporaneo, legato all’epoca dei computer e dell’informatica. Daniel Rosenberg, storico della data visualization, nel suo saggio Data before the fact (Cambridge, MIT Press, 2013) conferma che si tratta di un concetto legato alla modernità e nella sua indagine per scoprire l’origine della parola «dato» scopre che in lingua inglese il termine viene usato per la prima volta nel 1646, in un trattato teologico dove si parla di «mucchio di dati», quindi al plurale data e non datum al singolare, dal latino, termine che praticamente in inglese non è mai stato adottato. Fino a quel momento il «dato» in inglese veniva usato come qualcosa di pre-definito, qualcosa di scontato e non discutibile perché in qualche modo calato dall’alto. Sia per la filosofia che per la matematica che la teologia il termine «dati» identificava fatti e principi che lo erano per definizione, al di là di qualsiasi dibattito.
Nella sua ricerca Rosenberg si imbatte però nel lavoro di Joseph Priestley, filosofo e educatore del Settecento, che per primo raffigura i dati in un formato che oggi chiameremmo «linea del tempo». Rosenberg si stupisce del fatto che Priestley parli di «fatti della storia» riferendosi a essi per la prima volta come «dati», cioè usando la parola data e non fact.
Se oggi quando parliamo di dati pensiamo subito ai numeri, ai dataset, a qualcosa che qualcuno si è messo a contare lo facciamo perché dall'Illuminismo in poi sia la visualizzazione dati sia il concetto di dati sono stati associati alla moderna statistica e alla scienza. Ma prima di allora il dato è anche qualcosa che succede e che non va messo in discussione. Alla fine del XVIII secolo invece il termine «dati» viene usato per riferirsi a fatti ed evidenze determinate da esperimenti scientifici, esperienze vissute o da una raccolta empirica.
I dati sono il risultato di un’indagine, non la sua premessa.
«Ciò che invece li qualifica come dati è la loro natura evidenziaria», scrivono gli autori di Un dato di fatto. Uso e abuso del dato (L. Cassia, M. Kalchschmidt e S. Paleari, Milano, Brioschi 2021). «Un pezzo di stoffa, la trascrizione di alcune risposte, o una serie numerica diventano dato nella misura in cui costituiscono evidenza. In questo senso si può dire che il dato non è tale ab origine. O per adattare al presente contesto un’affermazione di Simone de Beauvoir, il dato non nasce tale, ma lo diventa».
A partire dalla domanda «cosa sono i dati» possiamo quindi chiederci cosa significa contare. Deborah Stone, in Counting: How We Use Numbers to Decide What Matters (New York, Liveright, 2020), inizia con un esercizio interessante. Immaginiamo di voler contare dei piselli in un baccello. Cosa facciamo? Li disponiamo in ordine, fisicamente o mentalmente, tocchiamo il primo e diciamo uno, tocchiamo il secondo e diciamo due, alla fine diciamo 22. Abbiamo contato 22 piselli. Ma in realtà cosa abbiamo fatto davvero? Abbiamo assegnato parole numeriche a ogni singola bacca. Questo processo resta semplice se qualcuno ci dice o decidiamo noi che quelli sono tutti piselli.
Ma se dobbiamo decidere cosa fa parte o meno del nostro gruppo? Stone usa una filastrocca del Dr. Seuss, alias Theodor Geisel, autore di numerose opere per bambini, che comincia elencando «dei pesci» osservati dallo scrittore:
un pesce [one fish]
due pesci [two fish]
un pesce rosso [red fish]
un pesce blu [blue fish].
Questo ha una piccola stella [This one has a little star].
Quest’altro ha una piccola macchina [This one has a little car]
Dillo! Quanti pesci ci sono qui! [Say! What a lot of fish there are]
[…]
Il conto si ferma a due, ma i pesci che sta guardando sono di più. Seuss ne descrive le caratteristiche e finiamo con la vaga parola quantitativa «molto». Stone scrive: «è come se avesse già smesso di contare dopo la prima riga perché è affascinato da qualcosa di speciale in ogni pesce. Ignora le differenze tra i pesci ma al tempo stesso le celebra».
Nella realtà succede proprio questo. Come possiamo contare le cose se nessuna è davvero uguale all'altra? Secondo Stone è qui che il «contare» incontra il potere, e in qualche modo implica una coercizione intellettuale per la quale forziamo le cose ad appartenere alla stessa categoria, ignorando le loro differenze e le loro singolarità. A scuola si impara a contare mettendo insieme gli oggetti di uno stesso colore, poi guardando la forma o la categoria di appartenenza. I bambini mettono insieme cose diverse raggruppandole, per restringerle dentro una categoria.