All’indomani del massacro della Seconda guerra mondiale, molti si interrogarono seriamente sul valore pedagogico della storia. Fino ad allora, questa disciplina era stata uno degli strumenti, forse il principale, della costruzione delle nazioni. Era stata una storia identitaria: serviva, cioè, a dare una fisionomia comune a genti che, fino ad allora, erano vissute in una vicendevole ignoranza e che, da un momento all’altro, dovevano considerarsi «italiani», «tedeschi», «spagnoli» e così via. Serviva a dare una nuova appartenenza a genti che, fino ad allora, si erano sentite come suddite di un re o di un duca. Serviva, insieme con l’educazione civica del tempo, a formare dei cittadini così innamorati della patria, da essere disposti a versare il sangue per essa. E, nella prima metà del Novecento, i cittadini europei ne avevano versato tanto che, per l’appunto, molti cominciavano a chiedersi se non fosse il caso di smetterla. La storia poteva essere altro, si disse. Poteva diventare uno strumento di lettura e di comprensione della società e del mondo, e quindi, un supporto essenziale per il cittadino dei nuovi stati democratici, che si voleva partecipe responsabilmente delle decisioni collettive. Cominciò, dunque, a farsi largo, faticosamente, l’idea di una nuova storia insegnata, il cui scopo era quello della conoscenza. Una storia cognitiva. E, quindi, manuali che dovevano rispettare i canoni scientifici, ripuliti dalle folle di eroi che li impreziosivano, patriottici quanto sanguinari, programmi che spingevano alla conoscenza di altri popoli e altre civiltà, laboratori per insegnare agli allievi come funziona la conoscenza storica. Tutto questo accadeva in Europa Occidentale nella seconda metà del secolo scorso. Come sappiamo, dopo la caduta del Muro i Paesi dell’Europa Orientale si precipitarono in una corsa vertiginosa verso l’occidentalizzazione dei costumi, dei consumi, dell’economia. Ma, per quanto riguarda la storia, accadde un fatto curioso: in luogo di fare tesoro del travaglio che abbiamo appena descritto, quei paesi si rifecero ai programmi occidentali ottocenteschi. Abbiamo bisogno di costruire le nuove nazioni, molti spiegarono. Quindi, si attivò un processo furioso di creazione di origini epiche, figure eroiche, e, naturalmente, di nemici. Ogni identità, proprio perché si deve differenziare dagli altri, ne ha: gli Ucraini dovevano differenziarsi dai Russi, i paesi Baltici dovevano esaltare il fatto che si erano difesi dagli slavi per secoli, così come i Rumeni dai Bulgari e dagli Ungheresi, mentre nei Balcani si scatenava la corsa alla differenziazione fra genti che, fino ad allora, avevano avuto storie e linguaggi intrecciati. Ora, quando qualcuno inalbera la bandiera dell’identità, il vicino non sta con le mani in mano. Farà lo stesso. E quando qualcuno dichiara che deve difendere la propria identità, si può star tranquilli che il vicino aumenterà le sue, di difese, o penserà che la migliore difesa sia l’attacco, come stiamo dolorosamente vedendo. Dall’Oriente, quest’onda identitaria sta investendo l’Europa occidentale, dove da circa un ventennio assistiamo alla ripresa di nazionalismi e, conseguentemente, alla riproposizione di programmi identitari, come è già accaduto in Olanda e Inghilterra. Per quanto riguarda l’Italia, va notato un fatto curioso quanto preoccupante. Nel 2003, Letizia Moratti, allora titolare del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) promosse un programma di storia, il cui obiettivo era la formazione dei cittadini italiani all’identità giudaico-cristiana. Il fatto curioso è che nessuno — nelle scuole — se ne accorse. Il lato preoccupante della faccenda è che questa disattenzione riguardò un doppio rischio: quello di gettare l’Italia nel fuoco delle contese identitarie e, contemporaneamente, quello di abbandonare il progetto di una storia insegnata intesa come strumento di vita democratica. A onor del vero, non ci furono reazioni nemmeno quando quel programma venne sostituito da direttive più scientifiche: il che dimostra che questa dimensione politica dell’insegnamento storico — pur essendo di straordinaria rilevanza — non è stata fatta propria, e discussa nelle scuole.
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