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I mini gialli dei dettati 2
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Quali conseguenze emotive ha la pandemia sugli adolescenti?

Un primo bilancio sul vissuto emotivo dei ragazzi in tempo di pandemia, tracciato da Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista

Comunque vada, diciamolo: nel pandemonio di questa pandemia, giustamente attenti ai più grandi, ci siamo dimenticati dei bambini e degli adolescenti, lo spettro anagrafico multimorfico che noi clinici chiamiamo 0-18.

Come alcune voci critiche hanno sottolineato, tra le prime la sociologa Chiara Saraceno, molti genitori si sono sentiti abbandonati a se stessi e dunque incapaci di rispondere alle domande dei figli. Importanti associazioni come Save the Children e Alleanza per l’Infanzia hanno protestato contro restrizioni che considerano eccessive o inadeguate. «The Lancet», rivista scientifica di massimo prestigio, ha addirittura pubblicato uno studio che mette in discussione le chiusure scolastiche: un provvedimento poco sostenibile sul lungo periodo e non così efficace. Senz’altro meno efficace, scrivono gli autori, di altre misure come una diversa organizzazione dei corsi e degli ambienti scolastici.

Gli psicologi dell’infanzia e dell’adolescenza si interrogano conseguenze emotive dei mesi di lockdown, sia quello hard sia quello soft.
Difficile fare un discorso a senso unico. Quarantene protette e armoniose, in appartamenti sufficientemente spaziosi e tra relazioni ben funzionanti hanno anche portato, nell’immobilità forzata, una certa tranquillità interiore, minor competizione tra pari e dialoghi inattesi tra genitori e figli. Al contrario, quarantene difficili, in spazi ristretti abitati da relazioni disarmoniche e conflittuali, hanno esasperato il malessere, la solitudine e l’oppressione del claustrum.

Per immaginarlo, mi viene in mente il corto con cui il regista polacco Zbigniew Rybczynski vinse l’Oscar nel 1983. Si intitola «Tango» (lo trovate facilmente su YouTube) e nasce per rappresentare l’oppressione politica. Ma, guardatelo, può parlare anche dell’oppressione domestica in quarantena: trentasei persone in un modesto salottino che si incrociano senza toccarsi, ripetendo ossessivamente gli stessi comportamenti (una mamma che allatta un bambino, un uomo che fa ginnastica, un’anziana signora che poggia un piatto sul tavolo…).

È la rappresentazione visionaria e surrealista della convivenza forzata in clausura domestica. I personaggi hanno bisogno di più spazio, la stanza deve esplodere, ciascuno deve sviluppare il proprio destino, liberarsi dalla ripetizione forzata dalla reclusione.

Siamo riusciti, nelle nostre case, a creare lo spazio per queste esplosioni? Qualche adolescente è riuscito, in queste settimane, a scoprire che oltre un «dentro» domestico c’è anche un «dentro» psichico? E quali soluzioni ha inventato per confrontarsi, privato delle normali vie di fuga, con le angosce tipiche della sua età (il corpo, le relazioni, la sessualità, le domande sul senso della vita)? Oppure il nostro adolescente ipotetico era già abituato alla clausura del «dentro» informatico delle relazioni online e tutto sommato non ha fatto troppa fatica?

Il dialogo terapeutico, rigorosamente Skype o WhatsApp, con molti adolescenti ci indica che non sono pochi quelli che vivono con preoccupazione il ritorno alla vita «fuori» e con nostalgia il ricordo di quella «dentro». Si ripropone l’oscillazione psichica tra claustrofili e claustrofobi, che potrebbe essere la versione lockdown dell’antica distinzione psicologica introversi vs estroversi (dai più moderni ribattezzati internalizzanti vs esternalizzanti).
Fortunatamente ci sono anche quelli che, obbligati allo schermo dalla mattina (vita scolastica) alla sera (vita sociale), si sono accorti che la vita on remote non basta. Magari scoprendo, in uno slancio integrativo, quanto è bella la vita estroversa che il virus gli ha tolto, ma che è ancora più bella se riempita della vita introversa che il virus gli ha imposto.

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