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I mini gialli dei dettati 2
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Metodo Montessori e anziani fragili Genitori e figli
Alcuni esperti di psicologia ed educazione, da Franco Lorenzoni a Daniele Novara, da Alberto Pellai a Giuliana Franchini a Giuseppe Maiolo, offrono suggerimenti e spunti di riflessione per affrontare il tema della guerra con i più piccoli
Dal 24 febbraio scorso, attraverso fotografie, video, servizi, la guerra è entrata nei discorsi quotidiani e nei pensieri di tutti noi. Così come è entrata negli occhi e nella mente di noi adulti, è entrata anche negli occhi e nella mente dei più piccoli, ossia di coloro che hanno meno strumenti, sia dal punto di vista cognitivo che da quello emotivo, per difendersi dal dolore e dalla devastazione che un evento tragico come la guerra provoca, anche quando non la si vive direttamente sulla propria pelle. Siamo stati in tanti a chiederci fino a che punto sia giusto parlare di guerra con i bambini e soprattutto come farlo in modo corretto, evitando di spaventarli e turbarli ulteriormente e allo stesso tempo senza dare loro certezze che potrebbero rivelarsi false. In questi giorni vari esperti di educazione, didattica e psicologia si sono espressi su questo argomento. Qui di seguito abbiamo raccolto alcuni dei loro interventi più significativi. Ve li proponiamo in sintesi. Franco Lorenzoni: «È importantissimo parlare di guerra con i bambini, ascoltandoli e dando valore al loro pensiero” Franco Lorenzoni, maestro elementare per quarant’anni e fondatore della Casa-laboratorio di Cenci ad Amelia, non ha dubbi: di guerra con i bambini è importantissimo parlare, perché i bambini «sono in grado di affrontare grandi temi a qualsiasi età». L’importante è “farlo insieme”, dandosi tempo, «ascoltarli con attenzione per poter affrontare le loro ansie e timori e per riuscire a dare valore al loro pensiero, dialogando con loro». Il dialogo e il confronto sono ancora più importanti laddove c’è una paura da affrontare, continua il maestro Lorenzoni: «Proprio perché la guerra è una cosa che spaventa, che fa paura, bisogna cercare di elaborare insieme la paura. Non dimentichiamo mai che la guerra è il modo più osceno in cui si palesa ai loro occhi la follia del mondo adulto che, invece di rassicurarli, li terrorizza». Alla domanda su come rispondere agli interrogativi dei bambini sulla guerra, Lorenzoni suggerisce la strada della sincerità, anche ammettendo di non essere noi stessi in grado di capire certe cose: «Siamo tutti di fronte a qualcosa di difficilmente comprensibile perché anche noi adulti non sappiamo esattamente perché è scoppiata questa guerra e, soprattutto, come andrà a finire. Credo che confrontarsi con il tema dell'incertezza, ammettendo le nostre difficoltà, appartenga a pieno titolo all'educare alla complessità, oggi». L’intervista completa di Franco Lorenzoni a “la Repubblica” è disponibile al seguente link. Daniele Novara: «Parliamo di guerra ai bambini dai 9-10 anni, prima sono troppo piccoli, occorre proteggerli» La pensa in maniera un po’ diversa da Lorenzoni il pedagogista Daniele Novara, che è anche fondatore del Centro psicopedagogico per l'educazione e la gestione dei conflitti, secondo il quale è opportuno iniziare a parlare di guerra ai bambini nella seconda infanzia, a partire dal 9-10 anni: «Prima vanno in qualche modo protetti: la guerra è per fortuna qualcosa di distante dal loro immaginario e bisogna evitare di farla entrare nelle loro emozioni infantili. I bambini non andrebbero esposti alle immagini di distruzione e di morte. Ancor più se soli, abbandonati davanti alla tv senza filtri o protezioni». Un errore importante da evitare di commettere secondo Novara è quello di paragonare i litigi dei bambini ai conflitti bellici: «Creare questa assurda correlazione tra il litigio infantile - un comportamento normale, innocente, naturale, legato al gioco - e un evento così tragico, devastante e irreversibile, come quello della guerra, è l'errore principale che possiamo fare: è terrorismo educativo. Piuttosto è imparando a litigare che si imparano a gestire i conflitti». L’intervista completa a Daniele Novara si può leggere nell’articolo de “la Repubblica” Alberto Pellai: «Anche nei giorni di tempesta noi adulti dobbiamo saper essere base sicura per i nostri bambini» Alberto Pellai, medico psicoterapeuta, ricercatore e scrittore, sottolinea l’importanza di trasmettere un senso di vicinanza e sicurezza ai bambini: «Per i bambini vedere immagini di guerra è destabilizzante e traumatizzante. I piccoli vanno rassicurati e tranquillizzati perché non riescono a proteggersi da soli, sono completamente dipendenti dagli adulti che si occupano di loro. Bisogna mostrare loro un mondo che riesce ad accogliere i bambini in fuga dalla guerra, facendo vedere come in questa parte del mondo i bambini riescono a diventare anche salvatori di altri bambini». Alberto Pellai suggerisce di far diventare la guerra una narrazione attraverso cui si costruisce la pace, perché l’unica educazione a cui hanno diritto i bambini è quella alla pace, come ci ricorda anche Gianni Rodari nella poesia “Promemoria” ( “Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra”). L’intervista ad Alberto Pellai ripresa qui è stata rilasciata nella puntata del 5 marzo 2022 del programma “Le parole” di Massimo Gramellini su RAI3. Giuliana Franchini: «Chiediamo ai bambini come si sentono e stimoliamoli a condividere con noi le loro ansie e le loro paure» Giuliana Franchini, psicoterapeuta infantile, ha pubblicato un video assieme al marito Giuseppe Maiolo, psicoterapeuta a sua volta, per aiutare i genitori ad affrontare il tema della guerra in Ucraina insieme ai propri bambini, evitando di traumatizzarli (“Come raccontare la guerra in Ucraina ai bambini: il video”, pubblicato sul sito del Giornale di Brescia). Secondo la psicoterapeuta, la cosa più importante da fare è non lasciare i bambini da soli a vedere le immagini di distruzioni, sparatorie ed esplosioni diffusi a profusione dai servizi di informazione. Questo perché fino agli 8 anni i bambini non hanno ancora elaborato bene il concetto di morte, perciò non sono in grado di affrontare questi argomenti senza un accompagnamento adeguato da parte degli adulti. Un altro suggerimento della psicoterapeuta è quello di chiedere ai bambini come si sentono, soprattutto se sono taciturni. «Bisogna riuscire a rassicurarli senza appesantirli con i nostri pensieri e le nostre angosce di adulti. Risulta fondamentale accogliere le loro preoccupazioni e il loro dolore, aiutarli ad esprimere ansie e paure, che non sono emozioni negative da tenersi dentro e nascondere, ma sentimenti che vanno elaborati e trasformati».
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Search-ME - Erickson 1 Emozioni
Potenziare l’abilità di gestire le proprie emozioni può essere una risorsa all’interno degli spazi di apprendimento?
Una nuova sfida per l’Educazione L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo da mesi ha creato un cambiamento significativo nel nostro stile di vita per il quale stiamo tutti facendo ancora fatica ad adattarci. Le limitazioni degli spazi fisici, le precauzioni da adottare nel quotidiano, la possibilità di avvicinarsi per lavorare in sicurezza o per il piacere di stare insieme, hanno portato ad un ripensamento del contatto con l’altro e in generale del concetto di libertà al quale eravamo abituati. Riconfigurare le abitudini è in generale un lavoro impegnativo che richiede alla persona non solo uno sforzo pratico ma anche e soprattutto un’elaborazione interna delle proprie emozioni legate all’adattamento in un contesto diverso da quello precedente. Ci troviamo attualmente di fronte ad un cambiamento ancora in corso: non c’è nulla di veramente definito, chiaro, sicuro e l’incertezza sul futuro suscita frustrazione, paura, rabbia e anche molta confusione. È evidente che in un tale contesto può diventare più complicata la gestione delle nuove generazioni all’interno della scuola e della famiglia. Le due agenzie educative per eccellenza sono chiamate oggi a rappresentare una guida per bambini e ragazzi in un momento dove i punti di riferimento sono instabili anche per gli adulti. Inoltre, in un periodo storico dove la condivisione scuola-famiglia stava già attraversando una crisi, oggi più che mai abbiamo bisogno di impegnarci a risanare questa frattura. Gli esperti dell’educazione ritengono che l’insegnamento dell’Educazione Emotiva nelle scuole possa rappresentare oggi un valido supporto alle famiglie e agli insegnanti nel loro compito educativo: il programma didattico ed il “programma di vita”. In questo particolare momento di instabilità emotiva, creare uno spazio dove si insegni a riconoscere e gestire le proprie emozioni può inoltre favorire negli alunni l’apprendimento, il quale sappiamo essere influenzato fortemente dal clima emotivo. Nuovi aspetti da considerare Il ritorno alle lezioni in presenza ha portato a riconsiderare nuove regole di convivenza all’interno della classe in un contesto mutato, con conseguenti preoccupazioni riguardo l’adattamento degli alunni e degli insegnanti. Oltre alle limitazioni fisiche degli spazi, va considerato che gli alunni sono rientrati in aula con l’esperienza del lockdown che può averli influenzati in modo diverso e a seconda di come è stato vissuto anche nel nucleo familiare. Come sappiamo, moltissime famiglie sono state destabilizzate da una costellazione di preoccupazioni legate alla propria salute e quella delle persone vicine, da lutti e disagi economici. Le angosce sperimentate in casa, che in un primo momento poteva rappresentare un luogo sicuro e protetto, sono state inevitabilmente respirate da bambini e ragazzi che hanno affrontato varie difficoltà. Gli alunni entrano così in aula con esperienze emotive del tutto personali che necessitano di interventi mirati e mediati da adulti competenti per poter essere espresse e comprese. Non possiamo lasciarli soli nell’elaborazione dei propri vissuti, è necessario prevenire il rischio di amplificare la situazione in modo irrazionale o quello di fuggire dalle emozioni spiacevoli negando legittime paure e preoccupazioni. L’insegnante ha una grossa responsabilità educativa, rappresenta per gli alunni un adulto di riferimento e ha bisogno di strumenti di lavoro per capire come contenere eventuali reazioni di ansia, panico e soprattutto come creare un clima emotivo che non influenzi negativamente ma favorisca l’apprendimento. L’Educazione Emotiva nella Scuola: ieri ed oggi L’Educazione Emotiva è un approccio educativo orientato a sviluppare e potenziare l’Intelligenza emotiva nei bambini e nei ragazzi. Essere intelligenti emotivamente vuol dire saper gestire le emozioni spiacevoli che inevitabilmente ci troveremo ad affrontare nel corso della nostra vita. La capacità di riflettere sui propri stati d’animo, dare un significato all’esperienza emozionale che si sta vivendo e avere le abilità di attraversarla sostenendo le difficoltà sono tutti aspetti che rientrano nel set dell’intelligenza emotiva. È ormai comprovata l’importanza di educare alla gestione delle proprie emozioni come fattore di promozione del benessere psicologico della persona. Da diversi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha delineato delle linee guida dove vengono proposti interventi educativi rivolti ai bambini e agli adolescenti, finalizzati a promuovere specifiche abilità in ambito scolastico fra cui l’empatia e la gestione delle emozioni. Tali abilità denominate life skills si riferiscono alle competenze che permettono di assumere comportamenti positivi, trattare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana. La ricerca ha dimostrato che includere nei programmi didattici attività che potenzino l’intelligenza emotiva negli alunni rappresenta un fattore di protezione contro le dipendenze patologiche e in generale contro il disagio psicologico (ansia, depressione, comportamenti disadattati). Alla luce delle considerazioni sopra descritte, è facile ipotizzare come l’educazione emotiva possa rappresentare una risorsa e un valido supporto alla scuola dove oggi, forse più di ieri, la nostra generazione si trova ad affrontare una sfida senza precedenti.
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Search-ME - Erickson 2 Genitori e figli
Letture consigliate a bambini, ragazzi e adulti per conoscere meglio il web e renderlo un posto più sicuro
Il secondo giorno della seconda settimana di febbraio, ogni anno, ricorre il “Safer Internet Day”: una giornata che ha l’obiettivo di promuovere un utilizzo più sicuro e consapevole del web, incoraggiando, in maniera particolare, i giovani di tutto il mondo ad avere un ruolo attivo e responsabile per fare di Internet un posto sicuro e positivo. Quest’anno il “Safer Internet Day” cade il 7 febbraio. In occasione di questa giornata, diamo il nostro contributo all’impegno per una rete più sicura con una selezione di libri dal nostro catalogo: letture rivolte sia ai ragazzi che agli adulti, che possono aiutare a comprendere meglio i meccanismi della Rete e sensibilizzare tutti per un utilizzo del web più consapevole e positivo. Scopri i titoli consigliati: .image-carousel-container{ width:60%;} .mondo-erickson .banner-container [class^='banner-lev'] { position: relative; width: 60%; } @media (max-width:767px){ .image-carousel-container{ width:100% !important;} .mondo-erickson .banner-container [class^='banner-lev'] { position: relative; width: 100%; } }
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Metodo Montessori e anziani fragili Emozioni
Le emozioni influenzano tutti gli aspetti dell’azione didattica: ecco perché è importante sviluppare autoconsapevolezza e coltivare la coerenza tra cuore e cervello
L’educazione alle emozioni è fondamentale per gli insegnanti, non semplicemente per se stessi ma anche e soprattutto perché possano trasmetterla agli studenti.Daniela Lucangeli e Luca Vullo, Il corpo è docente Chi di noi non è mai entrato in classe arrabbiato, gioioso, ansioso, sorpreso, triste, deluso, nostalgico, rassegnato e/o speranzoso? Le emozioni influenzano ogni aspetto della nostra vita: interagiscono con i pensieri, il corpo, il comportamento, la comunicazione, l’apprendimento, la memoria a lungo termine e le relazioni sociali. Inoltre, tutti questi elementi hanno tra loro un legame di reciproca influenza. Pertanto, a volte, non riusciamo a capire se è sorta prima la rabbia o il mal di stomaco, se l’incapacità di comunicare un messaggio è la causa della nostra frustrazione o viceversa, se un certo ricordo piacevole ci rende felici o se ricordiamo quel fatto perché ci sentiamo felici. Spesso non ci fermiamo neanche per interrogarci, ascoltarci e conoscerci meglio, vivendo così, in modo passivo, le nostre emozioni. L’espressione delle emozioni in classe Ogni volta entriamo in classe, prima come persone e, poi, come insegnanti, formatori, educatori e/o tutor, ci portiamo dunque sempre con noi un bagaglio, più o meno pesante, di pensieri, umori, emozioni, sentimenti, ricordi, esperienze, abitudini e conoscenze che vanno al di là della Didattica. Per questo abbiamo una grande responsabilità quando ci approcciamo agli apprendenti e dobbiamo essere consapevoli del fatto che il nostro stato emotivo avrà un’influenza su quello di chi ci sta vicino, “non si deve dimenticare infatti che l’espressione delle nostre emozioni è contagiosa” (Galimberti 2021: 59). Inoltre, se ci sentiamo entusiasti, sarà difficile riuscire ad avanzare critiche e valutazioni negative o riprendere qualcuno per la sua condotta indisciplinata, mentre invece non sarà sempre così facile notare l’eccellenza, i progressi, le buone pratiche o la positività, se siamo tristi. Risulterà altrettanto arduo motivare un gruppo, se siamo pervasi dall’ansia, o instaurare un’atmosfera piacevole, se abbiamo paura.  Se ne siamo consapevoli, possiamo cercare di mascherare il nostro stato emotivo, ma raramente la voce dà messaggi emozionali falsi e, anche se il viso mente più spesso, non può essere ‘spento’ completamente (Ekman 2008: 70). Apparirà quindi un segnale innato, inconscio e minimo sul nostro volto che trapelerà le nostre emozioni più profonde e, allo stesso tempo, ci saranno nelle nostre classi degli apprendenti empatici, sensibili, attenti, curiosi o osservatori che li coglieranno, e tutti comunque riceveranno la nostra energia, anche se noi non la percepiamo. Le emozioni, dunque, influenzano direttamente tutti gli aspetti dell’azione didattica, anche quelli che solitamente vengono considerati razionali ed oggettivi (per esempio, correzione e valutazione); inoltre, interferiscono con colleghi e superiori e, più in generale, con il nostro e altrui “stare” nell’ambiente di apprendimento. La via da seguire Allora, cosa possiamo fare? Possiamo diventare più consapevoli delle nostre emozioni, possiamo essere presenti, coltivando la coerenza cuore-mente con disciplina, costanza, convinzione e tecniche precise. Prossimamente parleremo in modo più approfondito della coerenza cuore-mente e di alcune tecniche per allenarla. Bibliografia Ekman P. (2008), Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste, Amrita, Torino.Galimberti U. (2021), Il libro delle emozioni, Feltrinelli, Milano.Goleman D. (2020), Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, BUR, Milano.Lucangeli D., Vullo L. (2021), Il corpo è docente. Sguardo, ascolto, contatto: la comunicazione non verbale a scuola, Erickson, Torino.Nardone G. (2019), Emozioni. Istruzioni per l’uso, Ponte alle grazie, Milano.
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
Sonia Coluccelli, insegnante di scuola primaria in una sezione Montessori, racconta l’inserimento di tre bambini ucraini in classe, tra domande ancora aperte, sorprese e difficoltà
Sonia Coluccelli insegna in una scuola primaria di Omegna, una cittadina di 15mila abitanti della provincia del Verbano Cusio Ossola, affacciata sul lago d’Orta. Qualcuno se la ricorderà come la cittadina che ha dato i natali a Gianni Rodari. Qui, dall’inizio del conflitto in Ucraina a oggi, sono arrivate 90 persone, di cui 60 bambini e 30 adulti.In queste settimane, nella sua classe, una prima della sezione Montessori, Sonia Coluccelli e le sue colleghe hanno accolto tre bambini ucraini in fuga dalla guerra. A lei abbiamo chiesto di raccontarci come sta andando l’inserimento dei bambini e questa esperienza di accoglienza. «La nostra è una classe molto piccola, di soli 11 alunni – spiega Sonia Coluccelli - È stata scelta per l’inserimento dei tre bambini ucraini per via del metodo didattico che seguiamo, il metodo Montessori. Per il tipo di didattica che facciamo, con tanti canali di apprendimento diversificati, non solo verbali, possiamo offrire un’accoglienza più attenta».Chi sono i nuovi arrivati e che tipo di sistemazione hanno trovato a Omegna?«Si tratta di due bambini e di una bambina di 6 anni. Sono arrivati accompagnati dalle loro mamme, mentre i papà sono rimasti a combattere in Ucraina. Un bambino e una bambina, con le rispettive mamme, si sono ricongiunti con le nonne che già abitavano qui, mentre un altro bambino con la sua mamma è ospitato da una famiglia ucraina che già da tempo risiede qui».Come si stanno relazionando in classe?«Al momento stanno facendo comunità tra di loro: si cercano, giocano, litigano. Il rapporto con gli altri compagni di classe rimane in secondo piano. Non parlando e non capendo l’italiano, l’ostacolo linguistico si sta facendo sentire.In classe hanno iniziato ad avvicinarsi alla nostra lingua, anche grazie ai materiali che abbiamo a disposizione. In questo momento stanno tornando molto utili, soprattutto quelli che abbinano immagini e parole.Per comunicare con loro stiamo utilizzando GoogleTranslate. Lo usiamo quando si tratta di comunicare cose un po’ articolate, del tipo cosa andremo a fare durante la mattinata. Se abbiamo bisogno di comunicare qualcosa di semplice, del tipo “Ora andiamo a mangiare in mensa”, utilizziamo i gesti. Google Translate ha i suoi vantaggi ma a volte le traduzioni sono palesemente sbagliate».Come vede questi bambini, dal punto di vista emotivo?«Li vedo un po’ disorientati. Sono arrivati nei primissimi giorni dopo lo scoppio della guerra, nel giro di tre/sette giorni. Al momento non mi è chiaro il tipo di messaggio che hanno ricevuto dalle loro famiglie rispetto alla loro permanenza qui e come sia stata spiegata loro la situazione. A questo proposito, per capire meglio, cercheremo occasioni di confronto con le mamme e le nonne che sono un grande aiuto perché parlano un discreto italiano. Un’altra cosa che ho notato in loro è il grande senso di insicurezza. Chiedono spesso di andare a casa dalla mamma, l’assenza della mamma mette loro ansia chissà se temono che i bombardamenti possano arrivare fino a qui. Credo non abbiano bene la percezione di quanto siamo lontani dall’Ucraina e dalla zona di guerra, il che è anche normale, alla loro età».Che obiettivi si è data la vostra scuola per questo progetto di accoglienza?«L’obiettivo è quello di dare un contesto di “normalità”. In questo momento stiamo dedicando molto tempo all’inserimento di questi bambini, guardiamo insieme le lettere, le sillabe e le parole italiane, con il coinvolgimento di tutta la classe. Non li sottoponiamo a richieste pressanti, per quanto riguarda le attività scolastiche o l’apprendimento dell’italiano. Una cosa curiosa che è successa qualche giorno fa è che la bambina nel pomeriggio non è venuta a scuola. Quando ho chiesto spiegazioni mi è stato detto che era rimasta a casa a fare i compiti che le avevano mandato le maestre da Kiev. Una vita tra due mondi, davvero.L’inserimento di questi bambini è stato fatto d’urgenza, in una situazione che richiedeva rapidità di risposta. Ora il colloquio con le famiglie sarà fondamentale, anche per capire da che contesto vengono questi bambini».Come stanno reagendo i compagni alla presenza di questi bambini?«La nostra è una classe piccola, in questi mesi al gruppo è stata chiesta pazienza e comprensione per la presenza di due compagni con disabilità. Anche in queste settimane con i nuovi compagni tutti si stanno dimostrando molto flessibili ed empatici, sono molto contenta della loro maturità, pur essendo così piccoli».Cosa auspica per lo sviluppo di progetti di inserimento come quello che state vivendo?«La nostra scuola si sta dando molto da fare, con l’attivazione di corsi di italiano sia in orario scolastico che extrascolastico. Altre realtà presenti nel territorio si occupano di fornire alle famiglie dei profughi generi di prima necessità oppure una merenda e spazi di socializzazione ai bambini nel pomeriggio. Per provare in questa fase a lavorare come comunità, sarebbe molto utile se potessimo creare dei tavoli di coordinamento tra istituzioni che raccolgano tutti i soggetti attivi nell’accoglienza. Sarebbe un modo per scambiarci le informazioni, mettere risorse in comune e offrire una qualità di accoglienza migliore».
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
Elisabetta Nanni, docente di musica all’IC Trento3 e ideatrice dell’iniziativa, racconta com’è partito il progetto dei flashmob musicali e come si è diffuso nelle scuole italiane e oltre confine
«Prof, ma non ci ascolteranno mai, non ci ascolterà nessuno!». All’inizio, avevano reagito così, i ragazzi e le ragazze di terza della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo di Trento3 alla proposta della loro insegnante di musica di organizzare un flash mob di body percussion per dire “no” alla guerra. L’idea di Elisabetta Nanni era che tutti quanti, in gruppo, battessero mani e piedi a ritmo scandendo a voce lo slogan “Peace – no war!”. Alcuni ritmi i ragazzi li avevano già provati a casa, durante i giorni di chiusura della scuola per il Carnevale. Nel frattempo iniziavano ad arrivare le prime immagini della guerra in Ucraina, con la loro forza dolorosa. Al rientro in classe, l’idea dell’insegnante di trasformare l’esercizio in qualcosa di più ampio, che coinvolgesse tutta la scuola e magari, perché no?, potesse essere allargato anche ad altre scuole.Il confronto con la classe nelle parole dell’insegnante: «I ragazzi si sentivano impotenti, sopraffatti dall’idea della guerra, pensavano che non ci fosse nulla che potevano fare. Io li ho stimolati ad agire dicendo che questa era l’occasione per far sentire la loro voce, per dire “no” alla guerra. Poi hanno visto che caricavo su YouTube alcuni tutorial di basi ritmiche, in modo che potessero essere condivise anche da altri, e che ci mettevo la faccia. Hanno capito che ci credevo. A un certo punto si sono sbloccati» Il flash mob è stato lanciato attraverso i social il 4 marzo e ha raccolto fin da subito l’adesione di tantissime scuole di tutta Italia, di ogni ordine e grado. A oggi hanno partecipato oltre 140 scuole: ci sono primarie, secondarie di primo grado, da Terni ha aderito un liceo classico, dalla Spagna l’Istituto Italiano di Madrid. Elisabetta Nanni sta tenendo unamappa di tutti i partecipanti all’iniziativa, che aggiorna man mano, e raccogliendo tutte le foto, gli audio e i video che arrivano. Dove si svolgono i flash mob?  Nel caso dell’Istituto Comprensivo Trento3, essendo la scuola grande, con 20 classi, il luogo prescelto è stato quello del cortile. «Per strada, con 400 ragazzi diventava difficile da gestire – spiega Elisabetta Nanni – Altrove ci sono state esperienze di flash mob all’interno degli spazi cittadini, come è successo a Moncalieri. Anche a Strigno e sull’altopiano del Tesino, qui in Trentino, le classi sono uscite dagli edifici scolastici, spostandosi nel centro dei paesi».Con l’avvio dell’iniziativa e l’arrivo delle adesioni da parte di tante scuole, cambia anche l’atteggiamento dei ragazzi: «Hanno iniziato a sentirsi più coinvolti e a parlare di più della situazione, di guerra, di pace, di democrazia… – racconta ancora Elisabetta Nanni – Sono rimasti colpiti dal numero di adesioni arrivate». Il flash mob è stato denominato “Se vuoi la pace, educa alla pace”, riprendendo il titolo di un libro che veniva utilizzato al DAMS di Bologna, in cui venivano proposti percorsi anche musicali su come vivere la pace a partire dalla classe. In che modo un flash mob musicale favorisce l’educazione alla pace? «L’obiettivo principale dell’iniziativa era quello di stare insieme e di fare le cose insieme – spiega Elisabetta Nanni – un’abitudine che purtroppo con il Covid abbiamo perso in gran parte. Il messaggio di pace passa anche attraverso attività come questa perché, nel caso delle body percussion, si allenano le capacità di ascoltare l’altro e di seguire il suo ritmo. Inoltre si affinano le capacità di dialogo e confronto, come succede quando sono i ragazzi stessi a creare dei moduli ritmici e devono mettersi d’accordo su come iniziare e finire le percussioni».
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