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Metodo Montessori e anziani fragili Emozioni
Daniela Lucangeli approfondisce il tema della speranza dal punto di vista della psicologia spiegando quanto sia prezioso il suo ruolo, in particolare in questo periodo di pandemia
Durante l’autunno del 2020, mentre cercavo di fare un po’ di luce sulla «mente che sente» in relazione al periodo di pandemia, mi è arrivata una lettera meravigliosa da un signore di nome Giovanni, che mi ha spinta ad approfondire il tema della speranza. «Cara Prof., io sono un anziano disabile, non mentale. Da sempre sono in carrozzina, anzi credo di essere nato con questo mio prolungamento. Non ho mai camminato. L’esperienza del camminare non ce l’ho, eppure io ho fatto tanta strada. Non ho avuto figli ma sono stato maestro per 35 anni e ho accompagnato ogni mio allievo a essere se stesso, a imparare a fare da solo. Oggi purtroppo, ahimè per età, sono solo un osservatore alla finestra. Vedo la vita passare, la vedo inciampare e la vedo perdersi. Allora io, cara Daniela, le regalo la mia analisi: il malessere, il dolore della mente di cui lei parla, io lo conosco bene. L’ho temuto, ne sono scappato tante volte, l’ho affrontato e riaffrontato, ho lottato e ho vinto. Sotto e ancora più sotto, alle fondamenta di questo dolore sta la mancanza di speranza. È lì che si deve cercare la causa del vuoto di luce che ci sta disorientando tutti. Accenda un po’ di consapevolezza nuova sulla speranza!» Ho accolto volentieri l’invito accorato di Giovanni e ho cercato di indagare sull’argomento. Molte sapienze si sono occupate della spes, la parola latina per chiamare la speranza. Nella ricerca scientifica non c’è, invece, una definizione univoca del concetto di speranza. C’è anzi una sorta di diatriba: che cos’è la speranza? Perché noi la proviamo? È un’emozione? Diremmo che ci assomiglia, in effetti; eppure gli studi che se ne occupano da un punto di vista neurofisiologico dicono che non si tratta di una vera e propria emozione, perché non ha le caratteristiche tipiche di attivazione neurofisiologica. Potremmo in un certo senso dire che i sentimenti (come l’amore o l’amicizia) indicano uno stato del sentire che si prolunga per tanto tempo nella nostra vita, mentre le emozioni uno stato del sentire istantaneo. Potrebbe sembrare, allora, che la speranza sia un sentimento. Ma anche ammettendo che sia così, questa classificazione è davvero sufficiente? Negli anni Novanta anche Charles Richard Snyder, esponente degli studi di Psicologia positiva, ha cercato (forse per primo) di fare un po’ di ordine negli studi sulla speranza, lavorando alla Theory of hope. Secondo questo ricercatore, la speranza appartiene al costrutto della motivazione, il che equivale a dire che la speranza è una molla che ci spinge ad agire, ma non come se noi fossimo passivi: ci attrae a sé in maniera proattiva. Secondo Snyder, le due qualità principali della speranza sono l’agentività (io sono agente della mia speranza) e il potere di procedere: io non soltanto agisco per raggiungere la speranza di qualcosa, ma so cambiare strada se vedo che mi sto allontanando dall’obiettivo, perché non posso perdere la speranza. Dopo esserci domandati che cosa sia, dobbiamo chiederci: come ci fa sentire la speranza? Mary, una bambina di sette anni, risponde con queste parole: «Quando le speranze mi finiscono capita che piango di tristezza, ma quando ritornano capita che mi sento guarita». Noi, in sintesi, assumendo un punto di vista psiconeurobiologico, possiamo rispondere affermando che chi spera è più resistente alla frustrazione, è più resiliente, prova meno stress, ha maggiore flessibilità psichica e comportamentale, ha maggiore adattabilità, ha maggiori capacità prosociali ed è più facilmente benvoluto dagli altri, oltre a piacere a se stesso…
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Search-ME - Erickson 1 Emozioni
Potenziare l’abilità di gestire le proprie emozioni può essere una risorsa all’interno degli spazi di apprendimento?
Una nuova sfida per l’Educazione L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo da mesi ha creato un cambiamento significativo nel nostro stile di vita per il quale stiamo tutti facendo ancora fatica ad adattarci. Le limitazioni degli spazi fisici, le precauzioni da adottare nel quotidiano, la possibilità di avvicinarsi per lavorare in sicurezza o per il piacere di stare insieme, hanno portato ad un ripensamento del contatto con l’altro e in generale del concetto di libertà al quale eravamo abituati. Riconfigurare le abitudini è in generale un lavoro impegnativo che richiede alla persona non solo uno sforzo pratico ma anche e soprattutto un’elaborazione interna delle proprie emozioni legate all’adattamento in un contesto diverso da quello precedente. Ci troviamo attualmente di fronte ad un cambiamento ancora in corso: non c’è nulla di veramente definito, chiaro, sicuro e l’incertezza sul futuro suscita frustrazione, paura, rabbia e anche molta confusione. È evidente che in un tale contesto può diventare più complicata la gestione delle nuove generazioni all’interno della scuola e della famiglia. Le due agenzie educative per eccellenza sono chiamate oggi a rappresentare una guida per bambini e ragazzi in un momento dove i punti di riferimento sono instabili anche per gli adulti. Inoltre, in un periodo storico dove la condivisione scuola-famiglia stava già attraversando una crisi, oggi più che mai abbiamo bisogno di impegnarci a risanare questa frattura. Gli esperti dell’educazione ritengono che l’insegnamento dell’Educazione Emotiva nelle scuole possa rappresentare oggi un valido supporto alle famiglie e agli insegnanti nel loro compito educativo: il programma didattico ed il “programma di vita”. In questo particolare momento di instabilità emotiva, creare uno spazio dove si insegni a riconoscere e gestire le proprie emozioni può inoltre favorire negli alunni l’apprendimento, il quale sappiamo essere influenzato fortemente dal clima emotivo. Nuovi aspetti da considerare Il ritorno alle lezioni in presenza ha portato a riconsiderare nuove regole di convivenza all’interno della classe in un contesto mutato, con conseguenti preoccupazioni riguardo l’adattamento degli alunni e degli insegnanti. Oltre alle limitazioni fisiche degli spazi, va considerato che gli alunni sono rientrati in aula con l’esperienza del lockdown che può averli influenzati in modo diverso e a seconda di come è stato vissuto anche nel nucleo familiare. Come sappiamo, moltissime famiglie sono state destabilizzate da una costellazione di preoccupazioni legate alla propria salute e quella delle persone vicine, da lutti e disagi economici. Le angosce sperimentate in casa, che in un primo momento poteva rappresentare un luogo sicuro e protetto, sono state inevitabilmente respirate da bambini e ragazzi che hanno affrontato varie difficoltà. Gli alunni entrano così in aula con esperienze emotive del tutto personali che necessitano di interventi mirati e mediati da adulti competenti per poter essere espresse e comprese. Non possiamo lasciarli soli nell’elaborazione dei propri vissuti, è necessario prevenire il rischio di amplificare la situazione in modo irrazionale o quello di fuggire dalle emozioni spiacevoli negando legittime paure e preoccupazioni. L’insegnante ha una grossa responsabilità educativa, rappresenta per gli alunni un adulto di riferimento e ha bisogno di strumenti di lavoro per capire come contenere eventuali reazioni di ansia, panico e soprattutto come creare un clima emotivo che non influenzi negativamente ma favorisca l’apprendimento. L’Educazione Emotiva nella Scuola: ieri ed oggi L’Educazione Emotiva è un approccio educativo orientato a sviluppare e potenziare l’Intelligenza emotiva nei bambini e nei ragazzi. Essere intelligenti emotivamente vuol dire saper gestire le emozioni spiacevoli che inevitabilmente ci troveremo ad affrontare nel corso della nostra vita. La capacità di riflettere sui propri stati d’animo, dare un significato all’esperienza emozionale che si sta vivendo e avere le abilità di attraversarla sostenendo le difficoltà sono tutti aspetti che rientrano nel set dell’intelligenza emotiva. È ormai comprovata l’importanza di educare alla gestione delle proprie emozioni come fattore di promozione del benessere psicologico della persona. Da diversi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha delineato delle linee guida dove vengono proposti interventi educativi rivolti ai bambini e agli adolescenti, finalizzati a promuovere specifiche abilità in ambito scolastico fra cui l’empatia e la gestione delle emozioni. Tali abilità denominate life skills si riferiscono alle competenze che permettono di assumere comportamenti positivi, trattare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana. La ricerca ha dimostrato che includere nei programmi didattici attività che potenzino l’intelligenza emotiva negli alunni rappresenta un fattore di protezione contro le dipendenze patologiche e in generale contro il disagio psicologico (ansia, depressione, comportamenti disadattati). Alla luce delle considerazioni sopra descritte, è facile ipotizzare come l’educazione emotiva possa rappresentare una risorsa e un valido supporto alla scuola dove oggi, forse più di ieri, la nostra generazione si trova ad affrontare una sfida senza precedenti.
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Metodo Montessori e anziani fragili Emozioni
Le emozioni influenzano tutti gli aspetti dell’azione didattica: ecco perché è importante sviluppare autoconsapevolezza e coltivare la coerenza tra cuore e cervello
L’educazione alle emozioni è fondamentale per gli insegnanti, non semplicemente per se stessi ma anche e soprattutto perché possano trasmetterla agli studenti.Daniela Lucangeli e Luca Vullo, Il corpo è docente Chi di noi non è mai entrato in classe arrabbiato, gioioso, ansioso, sorpreso, triste, deluso, nostalgico, rassegnato e/o speranzoso? Le emozioni influenzano ogni aspetto della nostra vita: interagiscono con i pensieri, il corpo, il comportamento, la comunicazione, l’apprendimento, la memoria a lungo termine e le relazioni sociali. Inoltre, tutti questi elementi hanno tra loro un legame di reciproca influenza. Pertanto, a volte, non riusciamo a capire se è sorta prima la rabbia o il mal di stomaco, se l’incapacità di comunicare un messaggio è la causa della nostra frustrazione o viceversa, se un certo ricordo piacevole ci rende felici o se ricordiamo quel fatto perché ci sentiamo felici. Spesso non ci fermiamo neanche per interrogarci, ascoltarci e conoscerci meglio, vivendo così, in modo passivo, le nostre emozioni. L’espressione delle emozioni in classe Ogni volta entriamo in classe, prima come persone e, poi, come insegnanti, formatori, educatori e/o tutor, ci portiamo dunque sempre con noi un bagaglio, più o meno pesante, di pensieri, umori, emozioni, sentimenti, ricordi, esperienze, abitudini e conoscenze che vanno al di là della Didattica. Per questo abbiamo una grande responsabilità quando ci approcciamo agli apprendenti e dobbiamo essere consapevoli del fatto che il nostro stato emotivo avrà un’influenza su quello di chi ci sta vicino, “non si deve dimenticare infatti che l’espressione delle nostre emozioni è contagiosa” (Galimberti 2021: 59). Inoltre, se ci sentiamo entusiasti, sarà difficile riuscire ad avanzare critiche e valutazioni negative o riprendere qualcuno per la sua condotta indisciplinata, mentre invece non sarà sempre così facile notare l’eccellenza, i progressi, le buone pratiche o la positività, se siamo tristi. Risulterà altrettanto arduo motivare un gruppo, se siamo pervasi dall’ansia, o instaurare un’atmosfera piacevole, se abbiamo paura.  Se ne siamo consapevoli, possiamo cercare di mascherare il nostro stato emotivo, ma raramente la voce dà messaggi emozionali falsi e, anche se il viso mente più spesso, non può essere ‘spento’ completamente (Ekman 2008: 70). Apparirà quindi un segnale innato, inconscio e minimo sul nostro volto che trapelerà le nostre emozioni più profonde e, allo stesso tempo, ci saranno nelle nostre classi degli apprendenti empatici, sensibili, attenti, curiosi o osservatori che li coglieranno, e tutti comunque riceveranno la nostra energia, anche se noi non la percepiamo. Le emozioni, dunque, influenzano direttamente tutti gli aspetti dell’azione didattica, anche quelli che solitamente vengono considerati razionali ed oggettivi (per esempio, correzione e valutazione); inoltre, interferiscono con colleghi e superiori e, più in generale, con il nostro e altrui “stare” nell’ambiente di apprendimento. La via da seguire Allora, cosa possiamo fare? Possiamo diventare più consapevoli delle nostre emozioni, possiamo essere presenti, coltivando la coerenza cuore-mente con disciplina, costanza, convinzione e tecniche precise. Prossimamente parleremo in modo più approfondito della coerenza cuore-mente e di alcune tecniche per allenarla. Bibliografia Ekman P. (2008), Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste, Amrita, Torino.Galimberti U. (2021), Il libro delle emozioni, Feltrinelli, Milano.Goleman D. (2020), Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, BUR, Milano.Lucangeli D., Vullo L. (2021), Il corpo è docente. Sguardo, ascolto, contatto: la comunicazione non verbale a scuola, Erickson, Torino.Nardone G. (2019), Emozioni. Istruzioni per l’uso, Ponte alle grazie, Milano.
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Metodo Montessori e anziani fragili Relazioni
Il ruolo di insegnanti ed educatori nell’azione di contrasto e prevenzione.
La letteratura nazionale e internazionale si è recentemente interrogata sulla possibile efficacia di programmi di prevenzione e intervento in relazione al fenomeno del cyberbullismo. In una recente meta-analisi Gaffney e collaboratori hanno analizzato numerosi interventi proposti a livello internazionale, evidenziando la loro efficacia con una riduzione della vittimizzazione approssimativamente del 14% e della perpetrazione di aggressioni approssimativamente dal 10 al 15%.  Quali sono tuttavia le componenti principali di un intervento di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo?  A questa domanda risponde una recente rassegna sistematica (Hutson et al., 2018) che ha messo in luce come alcune componenti siano particolarmente condivise ed efficaci nei percorsi di intervento descritti a livello internazionale.  La prima componente descritta è la conoscenza del fenomeno, dal momento che solo se si conosce il cyberbullismo è possibile riconoscerne gli episodi, identificando i diversi attori coinvolti.  La seconda componente comune ai programmi di intervento è l’implementazione di strategie di coping, ovvero di fronteggiamento davanti a episodi di cyberbullismo. È infatti necessario che gli studenti sappiano cosa dover fare quando assistono o sono vittime di episodi di cyberbullismo, scegliendo strategie di fronteggiamento che siano efficaci, come ad esempio chiedere aiuto al gruppo dei pari o agli adulti di riferimento, rispetto a strategie più disfunzionali come evitare il problema sperando che magicamente possa risolversi. Infine gli interventi di contrasto al cyberbullismo propongono percorsi di promozione dell’empatia, delle competenze sociali e comunicative e della cittadinanza digitale.  Qual è il ruolo degli insegnanti? Numerosi autori a livello nazionale e internazionale si sono interrogati sul ruolo degli insegnanti nei percorsi di prevenzione e intervento per il cyberbullismo. Nella maggioranza dei casi gli interventi proposti hanno avuto un approccio globale coinvolgendo l’intera comunità, attraverso attività in classe proposte da esperti, accompagnati da percorsi di formazione/informazione per genitori e insegnanti.  In questi progetti di intervento gli insegnanti non hanno proposto direttamente interventi nelle loro classi con i ragazzi, ma sono stati considerati attori importanti del processo di individuazione del fenomeno del cyberbullismo come membri della comunità educante e con una specifica responsabilità ricoperta dal loro ruolo nel mondo della scuola. A partire da questi ultimi anni, accanto a interventi con un approccio globale, sono stati proposti alcuni percorsi più specifici e pensati per gli insegnanti. L’obiettivo di questi percorsi è stato supportare e formare gli insegnanti affinché diventino gli attori principali dei percorsi di prevenzione e contrasto al cyberbullismo, proponendo loro stessi nelle classi alcune attività. Esempi in ambito internazionale sono il progetto «Media Heroes», sviluppato e proposto in Germania, con risultati promettenti che hanno evidenziato una riduzione del cyberbullismo tra gli studenti e un incremento dell’empatia (Schultze-Krumbholz et al., 2016).  Risultati incoraggianti, con una diminuzione dei fenomeni di aggressione agita nel cyberbullismo, sono stati ottenuti anche dal percorso spagnolo Asegùrate di formazione per insegnanti (Del Rey et al., 2018).  In questa direzione il percorso Relazioni per Crescere ha l’obiettivo di formare gli insegnanti italiani della scuola secondaria di primo grado affinché possano proporre nelle proprie classi attività che aumentino la conoscenza del fenomeno del cyberbullismo e le strategie di coping adattive tra gli studenti.  Vantaggi e rischi degli interventi proposti dagli insegnanti  Gli interventi di contrasto al fenomeno del cyberbullismo proposti da insegnanti nelle proprie classi e scuole possono avere alcuni importanti vantaggi, accanto tuttavia a possibili rischi.  Il primo vantaggio è che sono meno costosi rispetto a percorsi proposti da esperti esterni, rendendo questi interventi più generalizzabili e utilizzabili anche in scuole e territori dove sono presenti meno risorse. Un secondo vantaggio è che gli insegnanti diventano un punto di riferimento importante per gli studenti della scuola. Avendo infatti parlato in classe del fenomeno del cyberbullismo e avendo proposto delle attività, gli insegnanti vengono riconosciuti dagli studenti come adulti interessati, consapevoli e pronti a intervenire in caso di episodi di cyberbullismo.  Tuttavia, accanto a questi vantaggi possono emergere alcuni rischi, soprattutto se questo percorsi di formazione sono vissuti dagli insegnanti come un’ulteriore richiesta da parte della scuola, aumentando la percezione del proprio carico di lavoro. Appare quindi centrale formare gli insegnanti affinché percepiscano questi percorsi non come un nuovo «carico» da portare, ma come un’opportunità nella consapevolezza che questi interventi possano migliorare il clima scolastico e a cascata l’apprendimento della propria classe. Infatti, come ormai dimostrato a livello internazionale, in una classe in cui è presente un buon clima scolastico sono presenti meno episodi di bullismo e cyberbullismo e di conseguenza si apprende con più piacere e facilità attraverso approcci cooperativi tra studenti. Buoni risultati scolastici e buone competenze sociali sono inoltre a loro volta fattori di protezione per la perpetrazione del cyberbullismo, indicando la circolarità positiva di queste variabili. Infine, è importante sottolineare la necessità di una particolare attenzione da parte di genitori, insegnanti e educatori quando si cercano informazioni attraverso risorse online. Le risorse disponibili gratuitamente in rete in relazione al cyberbullismo sono tantissime, ma come sottolineato da Espelage e Sung è necessario controllare che i siti consultati e i materiali scaricati siano supportati da agenzie governative nazionali e internazionali o da gruppi di ricerca che fondino le loro riflessioni sulla conoscenza teorica e l’analisi dei dati. Dal momento, infatti, che le attività proposte richiedono impegno da parte degli insegnanti e degli adolescenti è importante utilizzare percorsi strutturati di cui sia stata dimostrata l’efficacia.
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Search-ME - Erickson 2 Didattica
In un mondo globale e multiculturale come il nostro, conoscere storie, culture e religioni delle persone che ci stanno accanto è utile per imparare a comprendersi e rispettarsi a vicenda
Nei secoli (e per molti aspetti anche oggi) la convivenza tra persone con fedi e credo diversi è stata spesso difficile, a volte persino impossibile. Oggi viviamo in un mondo e in una società in cui la compresenza di religioni è molto più diffusa rispetto a secoli fa. Prendiamo, ad esempio, una classe di una scuola italiana: molto probabilmente, tra gli studenti e le studentesse di quella classe ci saranno ragazzi cattolici e ortodossi, musulmani, di religione ebraica o indù o sikh… oltre a ragazzi che non aderiscono ad alcuna religione. La storia che studiano permetterà loro di incontrare le esperienze di persone e popoli che, dall’alba dei tempi, hanno cercato di trovare le risposte agli interrogativi che gli uomini si sono posti lungo i millenni (Da dove veniamo? Chi ha fatto il mondo dove viviamo? Che cosa è bene, che cosa è giusto? Perché ci sono il male e l’ingiustizia? Perché c’è la morte? C’è una vita dopo la morte? Ci sono forze o divinità che agiscono nella natura e nel nostro mondo? E, se ci sono, come possiamo entrare in contatto con loro?). Nello stesso tempo i ragazzi e le ragazze di quella classe stanno imparando a vivere e a costruire assieme una società in cui tutti possano sentirsi a casa anche se con differenti culture e con differenti religioni. Per questo è fondamentale conoscere le diverse esperienze religiose dei propri compagni: solo così sarà possibile comprendersi e rispettarsi vicendevolmente. La scuola è il luogo dell’alfabetizzazione, il luogo dove si impara a scrivere, leggere e far di conto, ma anche a vivere assieme impegnandosi per il bene comune. La mancata conoscenza delle diverse religioni e dei vissuti che le stesse richiamano è una forma di analfabetismo che ha conseguenze negative sul presente e sul futuro delle nostre società. Da questi presupposti, è nato l’ “Atlante delle religioni”: un libro che ha come intento proprio quello di favorire la capacità di orientarsi nella società e nel mondo in cui viviamo. Mondo che gli studiosi descrivono come globale e multiculturale ovvero una società nella quale convivono gomito a gomito persone che hanno storie, culture, valori e modi di pensare molto diversi tra loro e che, proprio per questo, sono chiamate a costruire assieme una convivialità delle differenze in cui ognuno e tutti possano «sentirsi a casa». Proprio per poter costruire assieme questa nuova casa comune delle differenze, è importante che ogni persona, quindi anche ogni ragazzo e ogni ragazza, abbia la possibilità di conoscere le storie e le culture degli altri e, di conseguenza, anche le diverse religioni cui aderiscono molti uomini e donne nel mondo.
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Search-ME - Erickson 3 Prima infanzia
Osservare in modo sistematico il gioco dei bambini nel primo anno di vita permette di sostenerne la crescita creando un ambiente adatto alle loro esigenze
Nel primo anno lo sviluppo dei bimbi è estremamente rapido, più veloce che in qualunque altro momento della vita, equindi i bambini cambiano moltissimo. Questo significa che il primo anno divita è spesso complesso per le educatrici del nido, perché all’interno della stessa sezione ci sono bebè con bisogni molto diversi: per esempio, bimbi che stanno sdraiati e bimbi che iniziano a camminare vivono due mondi completamente differenti, e offrire un ambiente adatto a entrambi (e seguirne l’evoluzione nel corso dell’anno) è spesso un’impresa ardua Per quanto riguarda il gioco, sembra che la nostra rappresentazione di esso sia strettamente legata al gioco di far finta o al gioco esplorativo e costruttivo del secondo-terzo anno, e quindi poca attenzione si presta tutto sommato a quanto avviene prima. Anche l’interazione fra bambini è molto difficile da cogliere nei primi mesi: da una parte uno degli obiettivi del nido è proprio la socializzazione, dall’altra basta osservare i bambini in modo un po’ sistematico per rendersi conto di quanto sia tardivo il vero e proprio gioco cooperativo, e come sia importante il contributo dell’adulto nel favorirlo. Che cosa fa il bambino molto piccolo nei momenti in cui al nido è sveglio, riposato e tranquillo? È possibile individuare degli indicatori di osservazione che possano accompagnare le educatrici a comprendere le esigenze dei bambini e quindi accompagnarli nel loro sviluppo? E poi ancora: come preparare l’ambiente affinché il bambino molto piccolo possa trovarsi effettivamente a suo agio? Dalla necessità di rispondere a queste domande è nato uno strumento di osservazione del bebè, in grado di cogliere le sue competenze, soprattutto motorie e di interazione con gli oggetti e con i pari, così da potergli proporre le modalità di gioco adatte a queste competenze e supportarlo nella sua area di sviluppo prossimo. Nello stesso tempo, è uno strumento a disposizione degli adulti per riflettere sul contesto di gioco offerto ai bambini, e sulla sua adeguatezza rispetto agli obiettivi che ne avevano guidato le scelte e il progetto educativo. Non si tratta in alcun modo di uno strumento di valutazione dello sviluppo: non ci proponiamo di definire tappe o, peggio ancora, tempi di acquisizione di diverse competenze.  L’obiettivo è, prima di tutto, offrire una lente per cogliere quelle che sono le abilità e gli interessi del bambino in quel determinato momento. Si tratta di abilità che noi adulti diamo per scontate e che è difficile cogliere nel loro dispiegarsi. Per esempio, afferrare un oggetto o portarlo alla bocca sono condotte molto semplici, che difficilmente cogliamo: quando però il bebè lo fa per la prima volta, il suo mondo cambia radicalmente, perché non solo può guardare e muovere il proprio corpo, ma può agire sul mondo esterno! Ovviamente una conoscenza accurata delle tappe di sviluppo è la base di partenza per l’osservazione dei bambini che crescono, e permette di cogliere e anticipare i momenti di transizione, in modo da offrire un ambiente supportivo e stimolante. Nel primo anno soprattutto, il tipo di gioco che il bambino può fare, e quindi il tipo di offerta educativa che il nido gli proporrà, sono strettamente connesse alla sua padronanza del movimento. A fianco dello strumento di osservazione del bambino, dunque, non meno importante è lo strumento di osservazione dell’ambiente. Lo strumento proposto è pensato come supporto a un gruppo di lavoro e parte dalle decisioni, dagli obiettivi del gruppo di lavoro stesso: la valutazione di adeguatezza di una certa scelta, di una certa organizzazione, non è assoluta, astratta, ma si tratta sempre dell’adeguatezza rispetto all’obiettivo che il gruppo di lavoro si è posto. La prima parte dello strumento è rivolta all’osservazione delle competenze che il bambino mette in atto nella sua attività autonoma, anzi nel suo gioco, a seconda parte invece riguarderà il contesto che permette al bambino di giocare: infatti è l’adulto che costruisce l’ambiente del bambino, soprattutto in questo primo periodo della vita, e che quindi permette o meno al bebè di giocare. Questa seconda parte è pensata come uno strumento di riflessione per il gruppo di lavoro, per servire da filo conduttore alla verifica della corrispondenza fra gli obiettivi educativi e la loro concreta realizzazione nell’adattarli alle esigenze dei bebè di età diverse.
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