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I mini gialli dei dettati 2
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Risultati trovati: 163
Search-ME - Erickson 1 Psicologia
Il CIGI è un metodo da utilizzare in contesti residenziali psichiatrici che si è mostrato efficace nel ridurre l’intensità assistenziale e sviluppare forme di autonomia personale
Il CIGI (Combined Individual and Group Intervention) è un intervento disegnato per un uso nei contesti residenziali psichiatrici a diversa intensità assistenziale che segue le indicazioni dell’OMS sulla riabilitazione psicosociale e sull’empowerment delle persone con disturbi mentali. L’OMS definisce la riabilitazione psicosociale “un processo orientato al raggiungimento di un livello ottimale di funzionamento indipendente in persone con disturbi mentali” che aiuta una persona a “saper scegliere dove vivere, lavorare, studiare con il minimo aiuto professionale, tenuto conto del livello di partenza” e che prevede “sia un lavoro di miglioramento delle abilità personali sia cambiamenti ambientali”. Questi principi sono stati ripresi successivamente nel documento OMS sull’empowerment, nel quale viene ribadito il valore terapeutico della partecipazione dell’utente alle decisioni che riguardano la propria vita, la propria salute e la scelta degli obiettivi da raggiungere. In linea con le indicazioni dell’OMS, il CIGI promuove la partecipazione delle persone con disturbi mentali all’autogestione di una parte dell’intervento riabilitativo, combinando un lavoro con il singolo utente e un intervento di gruppo sul contesto di riferimento. Nel caso di persone che sono ospiti di strutture residenziali, il contesto di riferimento è rappresentato principalmente dagli altri ospiti con disturbi mentali e dallo staff. Le strutture per persone con disturbi mentali in Italia In Italia, in base ai dati del Sistema Informativo Salute Mentale vi sono 2.346 strutture residenziali - pubbliche o private in convenzione con i Dipartimenti di Salute Mentale - nelle quali sono ospitate in totale 32.515 persone. In queste strutture, che ospitano fino a 20 persone con disturbi mentali e bassa autonomia funzionale per una durata media di 816 giorni, possono svilupparsi sia relazioni facilitanti il percorso riabilitativo che situazioni conflittuali, di fatto stressanti sia per gli ospiti che per gli operatori. La presenza continua di personale – il 78% delle persone si trova in strutture ad alta intensità assistenziale con operatori presenti h24 – può in alcuni casi ostacolare l'acquisizione da parte degli ospiti di quelle abilità utili nella vita quotidiana e a lungo andare può rallentare il passaggio a soluzioni abitative più indipendenti e il ritorno a casa degli utenti. Inoltre, lo scetticismo degli operatori in merito alle capacità di persone con disturbi mentali di lunga durata di partecipare a programmi riabilitativi intensivi può portare le equipe a coinvolgere poco gli ospiti nella scelta di obiettivi individuali, aumentando il rischio di attività passivizzanti. Caratteristiche principali del CIGI Il CIGI parte dalla convinzione che anche persone con disturbi mentali associati ad alto livello di compromissione nelle abilità di vita indipendente possano diventare più autonome e raggiungere obiettivi personali importanti dal loro punto di vista, se messe nelle condizioni di decidere su aspetti rilevanti della propria vita ed essere parte attiva nel contesto di riferimento. L’intervento si sviluppa su due livelli da svolgersi contemporaneamente: un livello individuale, che coinvolge il singolo utente con un operatore di riferimento, e un livello di gruppo, che prevede incontri tra ospiti e operatori, riunioni di soli ospiti autogestite e riunioni organizzative/di revisione tra pari dell’equipe. Le principali componenti del CIGI derivano a loro volta da interventi di provata efficacia. La parte individuale è stata sviluppata a partire dal VADO – Valutazione di Abilità e Definizione di Obiettivi (Morosini et al., 1998), mentre la parte di gruppo si basa anche su alcune componenti dell’intervento psicoeducativo familiare (Falloon, 1993). Gli effetti dell’intervento, utilizzato in strutture residenziali e gruppi appartamento del DSM di Modena (8 strutture, N=55) per due anni sono stati molto positivi in termini di riduzione della disabilità e dell’intensità assistenziale richiesta rispetto a quanto osservato in un gruppo di controllo che riceveva un intervento riabilitativo standard (5 strutture, N=41). In particolare, rispetto all’inizio dell’intervento, il 31% delle persone in strutture CIGI vs. 0 persone in strutture di controllo dopo due anni risiedevano in strutture a più bassa intensità assistenziale o erano tornate a vivere a casa propria. Anche esperienze successive di uso nella routine – seppure non documentate in modo sistematico – confermano l’utilità dell’approccio nei contesti residenziali e semi-residenziali. Il libro sul CIGI Il manuale “CIGI - Intervento riabilitativo combinato nei contesti residenziali psichiatrici” è centrato sullo sviluppo di programmi riabilitativi empowerment-oriented in contesti residenziali ad alta e media intensità e fornisce inoltre indicazioni per un uso del CIGI in contesti abitativi a intensità assistenziale bassa o quasi assente e nei centri diurni. Una parte specifica del manuale, inoltre, è dedicata alla formazione e all’auto-formazione delle equipe all’intervento. Nel manuale inoltre sono riportati tutti gli strumenti necessari per realizzare l’intervento, liberamente scaricabili dal sito della Erickson utilizzando un codice incluso nel manuale. Completa il volume un’Appendice con esempi d’uso degli strumenti e testimonianze di operatori e utenti. L’intervento CIGI può risultare utile per ripensare gli interventi e le condizioni abitative da garantire alle persone con disturbi mentali, soprattutto a quelle con più bassa autonomia funzionale, e per facilitare la transizione a forme di residenzialità più leggera o del tutto autonoma.
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Search-ME - Erickson 2 Psicologia
Mentre scrivo, il premier ha appena annunciato in TV che il periodo di isolamento attivo in casa è stato protratto al 3 maggio, la prima reazione, d’istinto, è stizzita: “Già, è la terza volta che rimandano il termine del Lockdown, sarà l’ultima?” Un misto di rabbia e paura ci pervade: rabbia perchè, pur ragionevolmente, siamo privati della libertà di scegliere di muoverci, incontrare parenti, amici, riprendere gli affari, promuovere nuove iniziative; paura perché, altrettanto consapevolmente, vuol dire che la minaccia del contagio non è finita, che l’incontro con altri esseri umani rimane un’incognita, una possibilità negativa di superare il labile confine tra salute e malattia. Tutto questo è umanamente comprensibile, ma, in realtà, il vero malessere è più subdolo: quanto ancora riusciremo a stare soli in casa, senza l’abbraccio e il conforto degli altri? Così nel 2020 scopriamo che pur iperconnessi via internet e smartphone abbiamo paura di sentirci soli, abbandonati, privi di prospettive. La solitudine non è tanto una condizione oggettiva, ma è piuttosto uno stato mentale: possiamo sentirci soli perché questo stato contraddice la possibilità di essere connessi agli altri. La solitudine così intesa è, facciamo attenzione, fattore di rischio per la salute mentale e fisica di ciascun individuo. Lo sapevate che da circa 40 anni i governi di Stati Uniti, regno Unito, Danimarca, Svezia, ecc. hanno posto attenzione al fatto che la solitudine si stava sviluppando nei loro paesi ed hanno chiesto ai ricercatori di psicologia, neuroscienze sociali, psichiatria di studiare a fondo il problema? Uno dei più influenti è stato John Cacioppo della Università di Chicago. Insieme ad altri, ha posto attenzione a quando la solitudine diventa problema. Gli studi inizialmente si sono occupati di fasce di età (anziani) o sociali (emarginati) ma poi si sono estesi a tutti, soprattutto per chi vive nella società occidentale e industrializzata. Il disagio da solitudine è psicologico: il mondo è rappresentato come un luogo potenzialmente portatore di minacce e l’attenzione ai segnali provenienti da questo non fa che confermare queste convinzioni, aumenta il disagio emotivo (ansia, paura), e aggrava i comportamenti protettivi (evitamento, isolamento), con peggioramento dell’umore e perdita del desiderio o motivazione a fare le cose.  Tra le cose che non si fanno più c’è l’attività fisica che invece è fondamentale per mantenere attivo l’organismo e stimolare la mente a occuparsi di cose da fare. Le persone sole hanno una peggiore qualità del sonno: non tanto nella durata ma nella pesantezza e scarsa energia mentale che riscontrano dopo aver dormito. Le funzioni cognitive ed esecutive nei soggetti soli sono peggiori in confronto a chi non si sente solo. Per chi ha disturbi mentali le condizioni peggiorano se la solitudine è sofferta: psicosi, disturbi di personalità, depressione, Alzheimer, ecc. Il disagio derivante dalla solitudine peggiora lo stato fisico: una complessa interazione tra solitudine, elevati valori pressori e ormoni dello stress (cortisolo) fa sì che il rischio di ammalarsi di patologie cardiovascolari è maggiore in queste persone. Ugualmente, complesse relazione tra l’apparato neuroendrocrino stress collegato e sistema immunitario fa sì che le persone sole abbiano una risposta alle reazioni immunitarie più scarsa degli altri. Un classico studio condotto su popolazione di studenti ha mostrato che in due gruppi divisi secondo un questionario che descriveva la solitudine(Loneliness, UCLA), quelli con punteggi più alti al test avevano più possibilità di infettarsi con virus del raffreddore piuttosto di chi aveva al test punteggi più bassi. Ma di che solitudine potremmo soffrire? Un primo livello è quello della deprivazione dell’intimità, nel caso specifico, del partner in grado di dare supporto emotivo e fisico. Sono le situazioni “private” dove condividiamo molto con la persona amata, con i figli, con chi è in grado di conoscere una reciprocità importante del legame umano. In questo periodo di distanziamento sociale, pensiamo a chi per motivi vari si trova in un’altra regione d’Italia oppure non vede il partner perchè vive in un’altra parte della città, un altro paese, ecc. Un secondo livello è quello delle relazioni familiari e amicali, altra “mancanza” cui stiamo facendo fronte in questa quarantena. Spesso sono persone che non risiedono con noi e di cui sentiamo la mancanza per la qualità delle “connessioni” in grado di fornirci. Un terzo livello è quello dei rapporti collettivi, ovvero i contatti che normalmente generiamo nei luoghi di lavoro, negli spazi sociali, negli avvenimenti cui partecipiamo. In questo caso ci riferiamo a quelle situazioni che per diversi motivi ci fanno “appartenere” ad un gruppo creando un senso di identità al vivere sociale. Come possiamo proteggerci per non soffrire di solitudine? La situazione cui mi riferivo all’inizio, seppur mossa da regole sanitarie ferree e condivise può quindi interferire con tutti e tre i livelli di “connessione” tra noi e gli altri: la domanda è come ci proteggiamo? Dobbiamo tornare a vivere le relazioni personali con maggiore consapevolezza: se avete notato, il tempo è“rallentato” e abbiamo più tempo per fare “meno” cose di prima, questo è un tempo guadagnato per le relazioni in casa. Al di là dei comportamenti aneddotici: fare attività sportiva, cucinare, pulire la casa, riparare oggetti, leggere, studiare, ecc. Il tempo che noi dedichiamo per dialogare e riscoprire la condivisione quotidiana è aumentato: sia nel compiere attività casalinghe, che ripercorrere memorie condivise, che riscoprire momento di gioco o di intimità la nostra casa può diventare un luogo dove i “morsi” della solitudine scompaiono. Dobbiamo usare saggiamente la tecnologia per essere connessi ai nostri famigliari e amici in modo positivo: meno tempo trascorso a commentare le statistiche epidemiologiche e più tempo a parlare di interessi personali ed in comune. Gli amici possono essere sollecitati via smartphone in call a più persone: anche un “brindisi” virtuale per un compleanno di un amico lontano può essere occasione di mostrare quanto siamo interessati agli altri e quante cose ci appartengono. Nella vita sociale sempre l’uso delle tecnologie sta cambiando le comunicazioni sul lavoro, sulla formazione, sulla conduzione di gruppi di varia natura (politica, religiosa,ecc.). Il principio della appartenenza è legato all’utilizzo di internet a scopi sociali e non come mezzo che generalmente ci passivizza e ci rende dipendente dalle varie offerte. Anche una “diretta” su Facebook, se ben condotta, può portare condivisione sociale: per esempio un’esibizione musicale dal vivo oppure una visita guidata in un museo. Se nonostante tutto la solitudine non passasse? Già nel paragrafo precedente ci soffermavamo a interventi di protezione dalla solitudine, ovvero promuovere il contatto sociale e le forme di sostegno sociale. Ma l’individuo che si sente solo potrebbe avere problematiche più complesse, ovvero non riuscire a sentirsi “connesso” con gli altri oppure non avere le “competenze” sociali.  Per questi e tutti quelli che poi più che una solitudine protratta vivono una condizione abituale di non condivisione relazione e/o di non appartenza sociale si parla più appropriatamente di Ritiro Sociale, ma questa, come si dice nei film, è “un’altra storia”.
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Search-ME - Erickson 3 Self help
Strategie per contrastare i pregiudizi e migliorare la qualità della propria vita
Alcune donne vivono con vera sofferenza i sintomi fisiologici della menopausa, sentendo di aver perso completamente il proprio ruolo. Intendere la menopausa come un evento naturale cui va incontro ogni donna nella propria vita e non come una malattia, imparare ad accettarla e a non rifiutarla, è la base da cui partire per avere una visione più razionale e sentirti meno preoccupata dei sintomi a essa correlati.   Il modo in cui la società considera l’idea della menopausa influisce sul modo in cui tu stessa vivi la tua condizione. È in effetti innegabile che la dimensione sociale e culturale concorra a determinare il benessere individuale: è stato dimostrato che, in generale, le donne che hanno interiorizzato lo stigma sociale sull’invecchiamento (e più in particolare sulla fine della capacità di riprodursi) patiscono maggiormente il trovarsi in questa fase della vita.     Lo stereotipo contemporaneo di donna giovane, bella, sexy, professionalmente affermata ma al contempo in grado di gestire e accudire la famiglia ed essere adeguata in tutte le situazioni cozza contro l’esistenza di alcuni sintomi del tutto naturali (come le vampate o il mal di testa) e impedisce a tante donne di vivere serenamente i cambiamenti della menopausa. Se ti capita di provare disagio perché hai le vampate, presta attenzione a questo concetto: la causa di ciò che provi non è, spesso, nel sintomo vero e proprio (avere caldo, sudare) ma nei pregiudizi che, senza volerlo, hai interiorizzato, i quali causano emozioni di imbarazzo e vergogna difficili da tollerare   Le convinzioni e i pensieri legati ai sintomi possono peggiorare o migliorare la gestione dei sintomi stessi. Leggere e documentarsi sono ottimi mezzi per contrastare il rischio di essere vittima dei propri stereotipi: per proseguire nell’esempio concreto, se diventi consapevole della tua tendenza a interpretare le vampate come un indice di inadeguatezza e senilità, questa tendenza avrà meno potere su di te. Una volta che avrai compreso i meccanismi psicologici alla base del disagio che provi per il sintomo otterrai una visione più realistica e meno angosciante di te stessa come donna in menopausa, perché diventerai capace di cambiare la convinzione erronea di essere inadeguata. Questa consapevolezza ti può guidare verso l’accettazione di tutte le manifestazioni fisiologiche della menopausa che, anche se poco piacevoli, non dicono affatto che tu sei inadeguata.   Ampliare la tua conoscenza, documentarti e confrontarti ti preserva dal restare intrappolata nei luoghi comuni e subirne i condizionamenti: sapere cosa è la menopausa, come si esprime, l’età media in cui arriva, le manifestazioni fisiologiche e l’eventuale sovrapposizione di sintomi psicologici, ti permette di riconoscere i preconcetti e i pregiudizi nutriti dagli altri, ma anche da te stessa, e prevenire comportamenti disfunzionali che comprometterebbero la qualità della tua vita. Inoltre, naturalmente, avere informazioni significa anche conoscere le risorse che hai a disposizione per vivere al meglio questa fase della vita.
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Search-ME - Erickson 4 Didattica
Un compito impegnativo, ma fondamentale per favorire l’apprendimento
 Accompagnare un bambino nella sua crescita emotiva è un compito impegnativo. Aggressività, demotivazione, carenza di autocontrollo, difficoltà nel rispettare le regole o accettare le proprie frustrazioni dell’apprendere sono solo alcuni dei problemi frequentemente riscontrati in classe. Ricordiamoci, però, che le emozioni non sono solo questo. Sono anche gioia, affetto, orgoglio e soddisfazione per un successo o sorpresa per un gesto inaspettato. La scuola riveste un ruolo fondamentale nell’educazione alle emozioni, un percorso di apprendimento che va di pari passo con quello disciplinare. Da tempo, infatti, la ricerca ha avvalorato l’importanza delle emozioni nell’apprendimento, facendo venir meno l’assunto storico di un ipotetico primato della cognizione sull’affettività. Di qui l’importanza di definire dei percorsi strutturati ed espliciti di educazione alle emozioni che hanno come traguardo la competenza sentimentale, ovvero la capacità comprendere ed esprimere in modo consapevolmente regolato il proprio stato emotivo. Un itinerario intenzionale e di qualità educa il bambino a saper riconoscere le proprie e altrui emozioni, ad aprirsi alla reciprocità nella relazione e a formare le cosiddette competenze personali, abilità che permettono ad ognuno di leggere la propria e altrui interiorità, ma anche di saper elaborare le emozioni negative. Infine, il curricolo emotivo promuove la riflessione metaemotiva, un processo che “distanzia” dai propri vissuti emotivi e permette di autoregolarli. Tale processo può avere luogo attraverso vari linguaggi e fare quindi riferimento a diverse discipline. La letteratura, per esempio, permette di attingere a prodotti di esemplare rappresentazione del sentire (poesie, romanzi, etc.) e a diversi generi (autobiografia, diario, etc.). Un altro medium efficace che potrebbe essere utilizzato in un percorso di educazione emotiva è l’illustrazione. I disegni e le immagini offrono un’alternativa all’espressione verbale e possono dirigere le emozioni represse in canali più creativi. Ma anche l’espressione corporea, passando da vie meno codificate convenzionalmente, rappresenta un interessante linguaggio attraverso cui esplorare forme diverse di espressione della vita affettiva. Nel programmare le attività e gli strumenti di un’educazione socio-affettiva, abbondano i materiali per la scuola primaria, mentre è molto meno ampia e varia l’offerta per la fascia d’età che va dalla secondaria di 1° grado a quella di 2° grado. Anche - e potremmo dire, soprattutto - i giovani adolescenti incontrano difficoltà nel riconoscere le proprie emozioni e dar loro un nome. È, dunque, importante che i docenti forniscano strumenti utili per la comprensione dell’origine e delle caratteristiche delle emozioni e per la gestione degli stati d’animo, anche di quelli legati alle tematiche più “spinose” che affiorano durante il periodo dell’adolescenza.
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Search-ME - Erickson 5 Genitori e figli
Un momento importante nella relazione tra genitori e figli che può diventare occasione di crescita
Capiterà a tutti i genitori di chiedersi “quando?” e “come?” svelare ai bambini la verità su Babbo Natale. Inutile dire che se esiste la perfetta ricetta dei biscottoni gingerman da mettere sull’albero di Natale non esiste un’altrettanta ricetta per svelare il segreto più grande ai nostri bambini, sono troppe le variabili in gioco. Ma forse ancora una volta, coloro i quali si sono dedicati allo studio della psicologia dello sviluppo, ci possono dare degli spunti di riflessione da integrare con valori e modalità che sono diverse in ogni famiglia. Sembra chiaro, dalle ricerche fatte nell’ambito, che la maggior parte dei bambini scopre gradualmente e da solo la verità su Babbo Natale (circa il 54%). I bambini non sembranoriportare particolari sentimenti negativi dopo la scoperta e sembra che siano propensi a nutrire sentimenti di protezione nei confronti dei bambini che non sanno diventando quindi complici degli adulti nel mantenere il segreto. Dalle ricerche emerge che sono invece i genitori a riportare forti sentimenti negativi di tristezza e malinconia quando annunciano la realtà ai loro bambini. L’interpretazione di questo dato è strettamente di natura psicologica, per i genitori questo evento sembra infatti segnare la fine di un’epoca, la fine della fanciullezza e l’inizio del cammino che li condurrà ad affrontare assieme l’adolescenza prima, l’età adulta poi e quindi la trasformazione della famiglia e del ruolo genitoriale. La dottoressa Nadia Bruschweiler-Stern pediatra e psichiatra suggerisce di vivere il momento della scoperta come un’ennesima fase di confronto genitori-figli, in cui si rafforzano e si costruiscono legami e si condividono valori. La dottoressa consiglia di non negare la realtà quando i bambini pongono domande schiette e precise ma suggerisce di coinvolgerli nel ragionamento, chiedendo loro cosa pensano, quali sono gli indizi che hanno colto e che idea si sono fatti in merito. In questo modo il genitore può rendersi conto se si tratta solo piccoli dubbi e quindi sia magari il caso di posticipare la scoperta o se invece i ragionamenti siano davvero fondati e svelare il segreto risulti a quel punto la scelta più onesta che il bambino si aspetta.  Dire al bambino la verità, con delicatezza, coinvolgimento e intimità può rappresentare un momento significativo per la famiglia, un’opportunità per rafforzare sentimenti di fiducia reciproca. I genitori possono scegliere di accompagnare i propri bambini con il dialogo a vedere attraverso questa storia impossibile, scoprendo i valori che questi personaggi portano ogni anno nelle loro vite. Quell’uomo barbuto e cicciottello, quella donna vecchietta malandata rappresentano valori concreti come altruismo, sorpresa, complicità, importanza per le piccole cose e tempo per l’altro; valori che ci conducono oltre il consumismo che ci affanna permettendoci di trasformare il luccichio della magia in piccole azioni concrete. Con questa visione il Natale si arricchisce di quel senso di direzione che vogliamo poter dare alla nostra vita e alla nostra famiglia, nonostante la presenza di ostacoli che possono bloccarci.  Il benessere psicologico, secondo Winnicott, è legato alla capacità dell’individuo di vivere nel campo intermedio tra sogno e realtà, questo significa crescere in modo creativo e il mese di dicembre po' essere il pretesto per avvicinare anche chi sa al mondo dei sogni.
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Search-ME - Erickson 6 BES DSA e ADHD
I benefici nell’iperattività di un training promettente
La meditazione di consapevolezza mindfulness costituisce un training fisico e mentale volto alla rieducazione dell’attenzione. L’interesse della ricerca psicologica e neuroscientifica sugli effetti della meditazione mindfulness è notevolmente aumentato negli ultimi due decenni, probabilmente a causa degli effetti benefici che questa pratica sembra avere sul benessere psicologico delle persone. Lo sviluppo, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, di una serie di protocolli e modelli terapeutici basati sulla mindfulness ha permesso di sperimentarne gli effetti nella cura di diversi problemi fisici e psicologici come quelli legati allo stress, ai disturbi alimentari, ai disturbi d’ansia, alla depressione e molti altri.    LA MINDFULNESS NEI CONTESTI EDUCATIVI Negli ultimi quindici anni stiamo assistendo a un’estensione dei protocolli mindfulness in bambini e adolescenti nei contesti educativi, scolastici e riabilitativi. La regolazione dell’attenzione sarebbe coinvolta nella pratica della mindfulness secondo quattro aspetti: regolazione dell’attenzione sostenuta, per mantenere la consapevolezza dell’esperienza nel momento presente; ri-direzione dell’attenzione, per permettere il ritorno dell’attenzione al momento presente dopo una distrazione; inibizione del processo elaborativo, per evitare di ruminare o rimuginare su pensieri o sentimenti che sono al di fuori del momento presente;  attenzione non direzionata, per migliorare la consapevolezza dell’esperienza presente, non influenzata da ipotesi o aspettative.   … E CON BAMBINI E ADOLESCENTI CON ADHD Nel complesso, i risultati degli studi condotti finora indicano la mindfulness come un training promettente per i bambini e gli adolescenti con ADHD. Da questi studi sembra infatti emergere come la pratica della consapevolezza possa avere un ruolo importante nel favorire l’attenzione, l’autoregolazione emotiva-comportamentale, l’inibizione della risposta e l’autocontrollo nelle persone con questo disturbo del neurosviluppo.  Tuttavia bisogna tener presente che anche negli studi che hanno applicato training mindfulness su popolazioni di ragazzi con ADHD, i risultati attuali sono limitati dalla mancanza di studi clinici randomizzati e controllati con una metodologia replicabile. Nasce quindi la necessità di sviluppare metodi manualizzati, i cui risultati siano confrontati con quelli ottenuti da gruppi di controllo che svolgono training non mindfulness con caratteristiche simili (per frequenza e durata).   NEL Q-TALK AL CONVEGNO Nel corso del Convegno “La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale” in programma a Rimini il 15 novembre, Stefano Vicari, Cristiano Crescentini, Deny Menghini presenteranno una panoramica aggiornata e rigorosa sull’applicazione clinica della mindfulness che agisce mediante un rafforzamento dell’attenzione e della concentrazione e promuove una migliore gestione e regolazione delle emozioni, focalizzando l’attenzione sul «qui e ora». Offriranno inoltre nuovi spunti per le future ricerche nell’ambito dei disturbi del neurosviluppo.
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