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L’antropologia entra in classe: uno strumento per la promozione dell’interculturalità 1

L’antropologia entra in classe: uno strumento per la promozione dell’interculturalità

Sara Romanelli, antropologa e insegnante alla scuola primaria, autrice di “Laboratori dal mondo”, spiega il ruolo e l’utilità che può avere l’antropologia in classe, soprattutto per affrontare i problemi educativi che sorgono in presenza di culture diverse

Comprendere perché sia fondamentale che la disciplina antropologica entri sempre più nel ruolo di protagonista nel mondo della scuola e delle istituzioni che si occupano della gestione e dell’organizzazione del sistema educativo non risulta difficile, ai giorni nostri. Nei percorsi di studio che devono obbligatoriamente intraprendere i futuri insegnanti della scuola pubblica per accedere alla professione di docente sono stati stabiliti dal decreto del MIUR n.616 del 2017 precisi obiettivi formativi che devono diventare bagaglio culturale dei futuri insegnanti; sul totale dei 24 CFU che prevede il pacchetto di crediti universitari abilitante, lo studente deve acquisire un totale di 6 CFU riguardante l’area antropologica: i saperi di base dell’antropologia sono dunque diventati un requisito fondamentale per poter svolgere la professione di insegnante nella scuola pubblica.

È un traguardo molto importante per le scienze antropologiche, come ho affermato anche nella mia pubblicazione “Laboratori dal mondo". Percorsi di antropologia e attività per la promozione dell’interculturalità alla scuola primaria”, pubblicata da edizioni Centro Studi Erickson nel 2022. Chi invece non conosce in modo approfondito la disciplina, di cosa si occupa, quali sono i suoi settori di interesse e quali metodi vengono utilizzati dagli antropologi per svolgere le loro ricerche, penserà forse che sia inusuale che l’antropologia si occupi sempre più in questi decenni di scolarizzazione, di educazione, di forme e strategie di inculturazione e di sistemi scolastici. 

Cosa hanno in comune l’antropologia e la pedagogia? Come lavora un antropologo all’interno di un determinato contesto scolastico? Quali sono i suoi oggetti di studio e quali metodi utilizza per le sue ricerche? Questi, a mio parere, sono quesiti fecondi di spunti e fondamentali per capire di cosa si occupa l’antropologia dell’educazione - questo sotto-settore disciplinare specifico - e quali siano i suoi ambiti di studio e di interesse.

L’antropologia e la pedagogia sono scienze sociali che hanno molto in comune. In questi decenni il termine “pedagogia” è stato oggetto di una profonda rivisitazione accademica, oggi di fatto si separa l’idea di “pedagogia” da quella più attuale di “scienze dell’educazione”, in quanto la prima viene intesa come una disciplina prettamente di tipo filosofico, mentre le “scienze dell’educazione” vengono considerate un insieme di saperi diversificati e con una diversa provenienza epistemologica, riguardanti tutti l’ambito educativo. 

Se rifletto sulla mia esperienza professionale e la mia storia personale, posso affermare che il mio percorso sia rappresentativo della possibile e sempre più frequente coesistenza delle due discipline in un'unica prassi didattica, da applicare quotidianamente nel contesto scolastico. 

Sono antropologa, ho iniziato la mia carriera di insegnante nella scuola pubblica quasi dieci anni fa, sono entrata nel mondo della scuola come docente supplente, alcuni anni dopo essermi laureata in Antropologia culturale ed etnologia all’Università degli studi di Bologna. Appena dopo la laurea mi sono resa conto di quanto fosse complesso per me, in quanto antropologa, trovare una occupazione stabile che riguardasse i miei studi e le mie competenze. Quando iniziai a lavorare nella scuola pubblica, come docente curricolare e di sostegno, ruoli che si sono alternati negli anni ma che sono quasi sempre stati spesi alla scuola primaria, mi sono accorta che svolgevo il mio lavoro di docente con uno sguardo diverso rispetto a quello di molti colleghi laureatisi in Scienze dell’educazione o in Scienze della formazione, percorsi accademici che potremmo definire più “classici” per poter lavorare nel mondo della scuola. Vivendo questo tipo di sistema scolastico dall’interno, mi sono accorta nel tempo di aver sempre osservato e lavorato insieme ai miei alunni da insegnante-antropologa, non mi sono mai sentita una maestra con un percorso accademico “standard”, eppure paradossalmente ho scoperto di essere in possesso di alcune competenze e capacità di cui altri colleghi, privi di formazione antropologica, sembravano carenti. Il discorso sull’applicazione di metodi e strategie di tipo antropologico rivolto al sistema di istruzione pubblico, e privato, formale o informale, è sempre più attuale, ricco di spunti interessanti, variegato nelle sue applicazioni e a mio parere molto proficuo per ridefinire e ripensare la scuola di oggi.

Gli interessi degli antropologi per i sistemi educativi, siano essi formali o informali, nascono intorno agli anni ‘60 negli Stati Uniti, anche se già da decenni molti antropologi, taluni molto conosciuti come Franz Boas, Margaret Mead o  Ruth Benedict, per citarne solo alcuni, si erano già interessati ai modi di trasmissione culturale nelle loro ricerche presso popolazioni viventi in società non occidentali o extra-europee. L’interesse per la dimensione culturale e sociale dell’istituzione scolastica e per il ruolo che al suo interno rivestono i diversi attori sociali - su tale definizione consiglio la lettura di un saggio di Erving Goffman, “La vita quotidiana come rappresentazione”, ricco di riflessioni e teorie sull’agire sociale, attori quali sono studenti, insegnanti, famiglie e istituzioni esterne che collaborano con le scuole, può generare una riflessione interessante su quanto le differenze culturali, religiose, etniche o linguistiche presenti oggi nel mondo della scuola possano portare, se affrontate con strategie didattiche appropriate a esiti educativi positivi,  ad una maggiore interazione e integrazione nel gruppo classe e tra gli studenti, o ad una relazione positiva tra studenti e insegnanti, o al contrario generare, se trascurate o non risolte, incomprensioni, silenzi, possibili conflitti.

Lo studio dei processi di inculturazione – studi cari alle scienze antropologiche e all’antropologia dell’educazione, anche se attualmente meno in voga come terminologia rispetto a qualche decennio fa  - rappresenta una modalità di  riflessione sul come l’educazione “informale”, quella che si verifica fuori dal contesto scolastico istituzionale, riesca a plasmare la mente e l’operato dei bambini e dei ragazzi per trasformarli in portatori di una certa cultura, e permettere dunque l’esistenza e la trasmissione di determinati sistemi culturali (Spindler, 1974). Ciò che si verifica nel contesto extrascolastico genera in taluni casi una discontinuità culturale che può, nel momento in cui si incontra o si scontra, con modelli educativi diversi, generare incomprensioni e conflitti tra alunni e insegnanti, tra famiglia e insegnante, tra alunni nei confronti di altri alunni. 

Per questo motivo è fondamentale comprendere quali sono i valori e i sistemi culturali di cui i nostri alunni sono portatori e per noi educatori-docenti, fare una riflessione su noi stessi e sui nostri valori, che non sempre corrispondono a ciò che la maggioranza definisce “la cultura ufficiale” - quella della maggioranza - di un determinato Paese.

Purtroppo, esiti di tipo negativo di questa discontinuità culturale e educativa vissuta talvolta dai ragazzi, sfociano nel fenomeno dell’abbandono scolastico da parte di molti alunni stranieri, che in Italia assume dimensioni preoccupanti. Nel nostro Paese, il numero di ragazzi che non raggiungono il diploma di scuola secondaria di secondo grado o sono impegnati in altre attività di formazione o di lavoro, sono in numero più alto rispetto ai dati della media europea. Nel 2022, l’11,5 dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni è uscito senza diploma dal sistema di istruzione (dati ISTAT, GOAL 4 Istruzione di qualità per tutti, Istat.it)

Un approccio etnografico al mondo della scuola permetterebbe di mettere in evidenza quindi quel mondo “sotterraneo” e “Altro” – inteso come “diverso” - rispetto alla percezione che gli stessi insegnanti e studenti hanno dell’istituzione scolastica, del loro ruolo e del loro agire all’interno di tale istituzione; utilizzando le tecniche di indagine tipiche dell’etnografia come le interviste agli studenti e gli  insegnanti, l’osservazione sistematica del contesto di interesse, che ad esempio potrebbe essere una classe di una scuola primaria, le registrazioni video e audio della quotidianità a scuola, l’uso di materiale fotografico e degli appunti presi sul campo di ricerca, si possono portare in superficie vissuti, valori e dinamiche implicite che spesso vengono ignorate, o addirittura negate dalle stesse persone coinvolte nella ricerca.

Questo specifico ambito dell’antropologia dell’educazione viene nominato in ambito anglosassone “schooling”, il fare etnografia della scuola. Lo “schooling” permette di evidenziare le diverse pratiche culturali – esplicite e implicite -, analizzare i processi educativi e le relazioni che esistono tra le persone coinvolte, studiare i metodi di trasmissione culturale e ciò di cui sono portatori, spesso in modo inconsapevole. Uno studio etnografico del contesto educativo, sia esso scolastico o informale, può apportare un notevole contributo allo studio dei problemi educativi generati dalla presenza di individui e gruppi provenienti da culture diverse rispetto al contesto di migrazione.

 

Bibliografia

  • Dei F., Cultura, scuola, educazione: la prospettiva antropologica, Pisa, edizioni Pacini, 2018; Favaro G. Luatti L., L’intercultura dalla A alla Z, Milano, edizioni FrancoAngeli, 2004
  • Goffman, E., La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, edizioni il Mulino, 1969
  • Romanelli S., Laboratori dal mondo. Percorsi di antropologia e attività per la promozione dell’interculturalità alla scuola primaria, Trento, edizioni Centro Studi Erickson,  2022; 
  • Tassan M., Antropologia per insegnare, Bologna, edizioni Zanichelli, 2020
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