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I mini gialli dei dettati 2
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
La classe è come un’orchestra in cui si impara a prestare ascolto alla voce di tutti
È importante insegnare Musica a partire dalla scuola dell’infanzia — e, se si potesse, anche dal nido — per dare continuità a questa strada nell’età evolutiva. La Musica accompagna lo sviluppo dell’essere umano.  Un bambino che fin dalla sua infanzia cresce in un «bagno musicale» svilupperà senza dubbio una capacità d’ascolto più attiva. Quindi, come insegnarla? Con quale obiettivo? Per creare musicisti o alimentare esseri umani sensibili alla vita e al rispetto? Le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del 2012, sulla Musica sottolineano: “La musica, componente fondamentale e universale dell’esperienza umana, offre uno spazio simbolico e relazionale propizio all’attivazione di processi di cooperazione e socializzazione, all’acquisizione di strumenti di conoscenza, alla valorizzazione della creatività e della partecipazione, allo sviluppo del senso di appartenenza auna comunità, nonché all’interazione fra culture diverse.” Stare in un’orchestra insegna a prestare ascolto alla voce di tutti. Questo l’ho provato pienamente solo con i bambini, suonando con loro. Un insegnante che non conosce la Musica non deve privarsi dell’opportunità che la vita gli sta dando, ossia di cominciare ad apprendere e sperimentare partendo da lui stesso. È essenziale porsi sempre delle domande sempre: se vuoi essere un buon musicista a scuola, i tuoi studi possono costituire il tuo patrimonio culturale, ma non devi smettere di stupirti davanti a quello che un bambino può insegnarti. Essere «musicale» vuol dire essere in armonia con i gesti che compi, far sì che tutto sia sempre fluido, offrendo possibilità di creazione soprattutto a quei bambini che vengono spesso «classificati» da parole che non fanno altro che bloccare la loro possibilità di evolvere. Un bambino non va mai giudicato: bisogna pensare sempre di essere, per ben più di un secondo, al suo posto, chiedendoci come raggiungerlo attraverso una comunicazione musicale che lo rivaluti positivamente agli occhi di tutti. Selo spartito che stiamo sperimentando in classe lo blocca, è necessario cercare di visualizzare velocemente ciò che costituisce il «giusto» per lui: che sia un gesto, un’espressione, un’intonazione, una proposta ritmica o semplicemente la difficoltà stessa. È bene prendere questa difficoltà e renderla di tutti, perché nessuno si senta incapace o isolato nel realizzare qualcosa. Teniamo sempre presente, nelle nostre azioni di insegnanti, che i bambini faranno sempre di tutto per renderci felici, per realizzare la lezione o il momento di condivisione con i genitori. Si è «Maestro/a di Musica» se si ha «seminato» questa espressione. L’insegnamento la alimenta di ora in ora. Fare pratica e avere insegnanti che ci accompagnano non solo nelle parole è fondamentale, come è fondamentale avere qualcuno con cui confrontarsi perché vive la classe come noi, la scuola come noi, la stanchezza come noi.
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Search-ME - Erickson 1 Didattica
Un'insegnante di scuola primaria spiega le ragioni teoriche e le ricadute didattiche della realizzazione di un laboratorio teatrale con le ombre nel contesto scolastico
Allestire un laboratorio di Teatro delle ombre nella scuola primaria vuol dire in sintesi predisporre il contesto alla creazione di narrazioni sviluppate a partire da questo linguaggio evocativo e suggestivo, che lavora per sottrazione e che richiede la continua attivazione di tutti i soggetti in campo. Le storie che scaturiscono da un lavoro sulle ombre possono essere sia legate al mondo dell’immaginario e della fantasia, sia introspettive e connesse alla dimensione interiore del bambino, di come percepisce la propria immagine di sé, nei suoi aspetti di luce e di ombra. Approfondita la definizione di laboratorio teatrale delle ombre, proviamo ora a valutarne le ricadute didattiche nel contesto scolastico della scuola primaria. Facendo riferimento alle Indicazioni Nazionali del 2012, i traguardi individuabili all’interno dei processi di apprendimento attivati nel laboratorio proposto sono relativi allo sviluppo delle competenze delle aree disciplinari di Italiano, Arte e Immagine e Educazione fisica. Certamente, questi sono solo alcuni dei traguardi che potranno essere inclusi in fase di progettazione dall’insegnante; altri potranno essere da questo valutati in base a differenti scelte progettuali (come per esempio, i traguardi di Storia e di Scienze). Entrando nello specifico della disciplina legata allo sviluppo delle competenze nella lingua madre, si delineano due traguardi, inerenti agli aspetti orali e a quelli scritti della produzione verbale. Nello specifico, si fa riferimento alla competenza dell’alunno «di partecipare a scambi comunicativi in modo chiaro e pertinente e alla competenza di scrivere brevi testi coerenti e coesi all’interno di situazioni autentiche» proposte dal contesto scolastico. I testi fantastici, in particolare, sono scelti per la sperimentazione delle potenzialità espressive della lingua italiana, anche in relazione ad altri linguaggi al fine di produrre testi multimediali. In quest’ottica, il laboratorio teatrale delle ombre attiva percorsi in cui mettere alla prova le proprie competenze comunicative al fine di produrre testi narrativi che possano essere compresi da un pubblico di spettatori. La possibilità di inserire il lavoro in un contesto di senso per i bambini porta questi ultimi a lavorare sulle proprie produzioni tendendo ai principi di completezza, chiarezza e coesione necessari affinché una narrazione sia comprensibile a un pubblico. Inoltre, la presenza di un gruppo di lavoro che scambia le parti di attore-spettatore permette uno scambio di visioni che si integrano tra di loro per raggiungere gli scopi preposti nel laboratorio. I traguardi di sviluppo delle competenze artistiche, invece, fanno riferimento alla capacità di esprimersi e comunicare in modo creativo e personale. Tra i traguardi di sviluppo, si annovera quello di saper utilizzare conoscenze e abilità per produrre tipologie di testi visivi, tra i quali anche quelli narrativi, rielaborando le immagini con molteplici tecniche, tra queste anche quella audiovisiva e multimediale. Nella trasposizione del Teatro delle ombre in Arte e Immagine, la tecnica di produzione di immagini d’ombra è quindi inserita in un quadro più ampio di analisi e rielaborazione delle immagini e di interazione con gli altri linguaggi. Infine, non dimentichiamo che anche il corpo è soggetto preso in causa all’interno di un laboratorio che rende il «fare» un perno centrale del processo di apprendimento. Per questa ragione, il laboratorio include nel suo orizzonte il traguardo di sviluppo legato alla disciplina di Educazione fisica che vede tra i suoi obiettivi quello di «Utilizzare il linguaggio corporeo e motorio per comunicare ed esprimere i propri stati d’animo, anche attraverso la drammatizzazione e le esperienze ritmico-musicali e coreutiche». L’uso del codice cinestetico come modalità comunicativa ed espressiva ben si coniuga con il lavoro di ricerca di completamento della sagoma d’ombra e di acquisizione di abilità espressive in un contesto che lavora per sottrazione. Come rendere il mostro arrabbiato in un mostro gioioso? Come esprimere con la propria ombra corporea la tristezza, la gioia, la rabbia se in ombra non è visibile la mimica facciale? Queste e altre domande sono buoni spunti di partenza per un lavoro che vede il corpo e le emozioni protagoniste del processo di apprendimento all’interno del contesto laboratoriale.
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
I vantaggi della didattica all’aperto per un’educazione di qualità e di benessere per alunne, alunni e insegnanti
Non è un mistero che l’ambiente in cui ci muoviamo ci condiziona nell’umore e nei comportamenti: un ambiente curato, luminoso, accogliente supporta il buon umore, ci spinge a un maggior rispetto degli spazi e degli oggetti, richiama l’attenzione verso la bellezza, facilita la socialità. Ambienti grigi, claustrofobici o dispersivi, poco curati, ci intristiscono, persino ci innervosiscono, trasmettono un senso di sconforto cui è difficile opporre resistenza, non farsene permeare. Se dunque l’ambiente ha questo impatto perché non impegnarci di più a renderlo accogliente, bello, luminoso? E perché non sfruttare al meglio quanto già è disponibile: gli spazi esterni, la natura, la luce solare? Banchi come isole tristi Banchetti tutti separati, distanti, da cui è possibile solo scrutare la schiena dei propri compagni, se non si è ancora più isolati come capita a chi è relegato in prima fila, o l’insegnante di turno appaiono oggi un retaggio di tempi che furono -e non nel senso del vintage, che un suo fascino comunque lo manifesta: richiamano piuttosto alla mente l’immagine di piccole isole tristi di bambini e bambine silenziosi inchiodati alle proprie seggioline e curvi sui banchi con la penna in mano e un quadernino aperto…immagine di per sé decisamente ormai desueta in quanto pochi dei più piccoli si piegano oggigiorno a questo trattamento. E quindi urla, disobbedienza, agitazione, distrazioni continue, malumori, e segnalazioni in aumento di casi di sindromi di iperattività per chi si alza, si sgranchisce, ha meno predisposizione a reprimere il bisogno di muoversi, socializzare, esplorare… Ma perché non usare questa “voglia” - bisogno naturale di muoversi, socializzare, esplorare per la crescita e l’apprendimento, invece che cercare di controllarla, sanzionarla, reprimerla (per altro, con sempre più scarsi risultati)? Se vogliamo volgerla a vantaggio di una educazione di qualità e di benessere degli/lle studenti e degli insegnanti, perché non sfruttare quanto già ci è messo a disposizione come ad esempio gli spazi esterni? (Senza togliere l’enfasi alla necessità di curare gli ambienti scolastici per mantenerli o renderli sempre più belli, accoglienti, confortevoli). Che sia un contesto urbano o di campagna, di pianura, mare o montagna, sempre la vita esterna alla scuola avrà da offrire materiali per l’osservazione, la discussione, la formulazione di ipotesi, il racconto di storie, l’ascolto attivo con tutti i sensi. Didattica all’aria aperta Parliamo dunque di didattica all’aria aperta, fuori dall’aria un po’ viziata che giocoforza si respira nelle aule chiuse, per quanto possiamo spalancarne le finestre. Una didattica in un ambiente naturale, che sia sociale come una piazza cittadina o un giardino o (più) naturale come un sentiero di campagna, una riva di fiume, una spiaggia… Ma a questo punto mi sorge spontanea una domanda: perché ancora oggi la scuola all’aria aperta a molti fa subito pensare al gioco e il gioco a disimpegno, a perdita di tempo? Quali pregiudizi sono radicati in noi come insegnanti e genitori, che ci fanno riconnettere serietà e apprendimento al chiuso di una stanza, al lavoro individuale, allo sforzo della volontà pensato come antiteticamente inconciliabile al piacere di studiare e alla curiosità spontanea per il sapere? Si rende necessario un costante lavoro di autoriflessione sul nostro agire educativo come adulti e come professionisti della scuola se il nostro scopo è quello di coltivare la curiosità naturale di bambini/e e ragazzi/e, riconnettere la scuola con la vita reale, decostruire la falsa antinomia tra fatica e piacere delle attività. Chi può negare che non sia faticoso, impegnativo, giocare una partita di qualche sport che ci piaccia? Eppure sarebbe difficile negare che è anche e primariamente divertimento. Fuori dalla classe, dentro le materie La didattica all’aria aperta ci fa si uscire dagli spazi ristretti scolastici, ma non per questo ci fa uscire dalle materie della scuola. Al contrario! Gli ambienti esterni ci offrono materiali reali, concreti per affrontare le scienze naturali, la storia, i problemi di matematica, questioni di geografia; per affinare i linguaggi espressivi, praticare i principi delle scienze motorie...Insomma, ci aiuta ad allenarci a leggere il libro del mondo coltivando i saperi disciplinari e interdisciplinari. Piccoli esploratori di grandi cose (e viceversa: grandi esploratori di piccole cose) All’aria aperta, si può ad esempio: - Coltivare la curiosità naturale di bambini/e e ragazzi/e e posare i primi mattoni del pensiero scientifico e filosofico… semplicemente osservando il mondo “là fuori” - Ri-conoscere e ri-conoscersi: risvegliare i sensi, connettersi con le emozioni, ri-scoprire il corpo, così spesso castigato in orari, regole, divise, spazi pre-definiti che lo disciplinano a restare sullo sfondo, quasi non ci appartenesse, un qualcosa da controllare e contrastare - Coltivare il benessere e il senso del bello - Coltivare il pensiero out of the box: liberare la fantasia, lasciar entrare la realtà nelle sue dimensioni esperienziali, esplorarla attraverso attività espressive e scientifiche - Realizzare tanti giochi per apprendere e sfruttare tanti apprendimenti per giocare. “Facciamo scuola all’aperto”: un libro per la scuola primaria Tante idee possono essere attinte da “Facciamo scuola all’aperto” di Antonio Di Pietro, un testo-manuale che offre preziosi spunti e indicazioni per una didattica ludica all’aperto per le scuole primarie.Dice Michela Schenetti nella prefazione: “Alla scuola oggi non possiamo che chiedere di offrire ai bambini ciò che la società sembra non essere più in grado di garantire: tempi lenti, spazi interni ed esterni in cui realizzare campi d’esperienza inusuali, ostacoli da affrontare per scoprire le proprie potenzialità. Alla scuola dobbiamo chiedere di garantire avventure educative che consentano agli insegnanti di assumersi la responsabilità di sfuggire ai principi di conformità. e omologazione per aprirsi alla dimensione della ricerca, del piacere e della bellezza. E nel farlo riscoprire il valore di ciò che sempre più difficilmente entra nelle nostre vite: il valore dei corpi in gioco.” E se chiediamo questo alla scuola, essa può rispondere, ad esempio sperimentando anche solo qualcuna delle belle, divertenti, istruttive attività che questo libro spiega, illustra, suggerisce, e seguendo l’invito che offre a cambiare collocazione e prospettiva: si può fare scuola all’aperto, si può fare scuola giocando, si può imparare divertendo ci si può divertire imparando. Dunque, perché non farlo? Tiziana Chiappelli, PhD, si occupa di ricerca nel campo dell'educazione e dei processi di inclusione con particolare attenzione alle minoranze, alle diversità culturali e linguistiche e alla sperimentazione di strategie di didattica attiva sia in Italia che a livello internazionale (in particolare Nord Africa e America Latina). È formatrice di docenti con focus su percorsi partecipativi e di cittadinanza, pari opportunità e genere. Ha coordinato e coordina progetti di ricerca e interventi socio-educativi in collaborazione con scuole ed enti pubblici e del privato sociale.
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
Sara Romanelli, antropologa e insegnante alla scuola primaria, autrice di “Laboratori dal mondo”, spiega il ruolo e l’utilità che può avere l’antropologia in classe, soprattutto per affrontare i problemi educativi che sorgono in presenza di culture diverse
Comprendere perché sia fondamentale che la disciplina antropologica entri sempre più nel ruolo di protagonista nel mondo della scuola e delle istituzioni che si occupano della gestione e dell’organizzazione del sistema educativo non risulta difficile, ai giorni nostri. Nei percorsi di studio che devono obbligatoriamente intraprendere i futuri insegnanti della scuola pubblica per accedere alla professione di docente sono stati stabiliti dal decreto del MIUR n.616 del 2017 precisi obiettivi formativi che devono diventare bagaglio culturale dei futuri insegnanti; sul totale dei 24 CFU che prevede il pacchetto di crediti universitari abilitante, lo studente deve acquisire un totale di 6 CFU riguardante l’area antropologica: i saperi di base dell’antropologia sono dunque diventati un requisito fondamentale per poter svolgere la professione di insegnante nella scuola pubblica. È un traguardo molto importante per le scienze antropologiche, come ho affermato anche nella mia pubblicazione “Laboratori dal mondo". Percorsi di antropologia e attività per la promozione dell’interculturalità alla scuola primaria”, pubblicata da edizioni Centro Studi Erickson nel 2022. Chi invece non conosce in modo approfondito la disciplina, di cosa si occupa, quali sono i suoi settori di interesse e quali metodi vengono utilizzati dagli antropologi per svolgere le loro ricerche, penserà forse che sia inusuale che l’antropologia si occupi sempre più in questi decenni di scolarizzazione, di educazione, di forme e strategie di inculturazione e di sistemi scolastici.  Cosa hanno in comune l’antropologia e la pedagogia? Come lavora un antropologo all’interno di un determinato contesto scolastico? Quali sono i suoi oggetti di studio e quali metodi utilizza per le sue ricerche? Questi, a mio parere, sono quesiti fecondi di spunti e fondamentali per capire di cosa si occupa l’antropologia dell’educazione - questo sotto-settore disciplinare specifico - e quali siano i suoi ambiti di studio e di interesse. L’antropologia e la pedagogia sono scienze sociali che hanno molto in comune. In questi decenni il termine “pedagogia” è stato oggetto di una profonda rivisitazione accademica, oggi di fatto si separa l’idea di “pedagogia” da quella più attuale di “scienze dell’educazione”, in quanto la prima viene intesa come una disciplina prettamente di tipo filosofico, mentre le “scienze dell’educazione” vengono considerate un insieme di saperi diversificati e con una diversa provenienza epistemologica, riguardanti tutti l’ambito educativo.  Se rifletto sulla mia esperienza professionale e la mia storia personale, posso affermare che il mio percorso sia rappresentativo della possibile e sempre più frequente coesistenza delle due discipline in un'unica prassi didattica, da applicare quotidianamente nel contesto scolastico.  Sono antropologa, ho iniziato la mia carriera di insegnante nella scuola pubblica quasi dieci anni fa, sono entrata nel mondo della scuola come docente supplente, alcuni anni dopo essermi laureata in Antropologia culturale ed etnologia all’Università degli studi di Bologna. Appena dopo la laurea mi sono resa conto di quanto fosse complesso per me, in quanto antropologa, trovare una occupazione stabile che riguardasse i miei studi e le mie competenze. Quando iniziai a lavorare nella scuola pubblica, come docente curricolare e di sostegno, ruoli che si sono alternati negli anni ma che sono quasi sempre stati spesi alla scuola primaria, mi sono accorta che svolgevo il mio lavoro di docente con uno sguardo diverso rispetto a quello di molti colleghi laureatisi in Scienze dell’educazione o in Scienze della formazione, percorsi accademici che potremmo definire più “classici” per poter lavorare nel mondo della scuola. Vivendo questo tipo di sistema scolastico dall’interno, mi sono accorta nel tempo di aver sempre osservato e lavorato insieme ai miei alunni da insegnante-antropologa, non mi sono mai sentita una maestra con un percorso accademico “standard”, eppure paradossalmente ho scoperto di essere in possesso di alcune competenze e capacità di cui altri colleghi, privi di formazione antropologica, sembravano carenti. Il discorso sull’applicazione di metodi e strategie di tipo antropologico rivolto al sistema di istruzione pubblico, e privato, formale o informale, è sempre più attuale, ricco di spunti interessanti, variegato nelle sue applicazioni e a mio parere molto proficuo per ridefinire e ripensare la scuola di oggi. Gli interessi degli antropologi per i sistemi educativi, siano essi formali o informali, nascono intorno agli anni ‘60 negli Stati Uniti, anche se già da decenni molti antropologi, taluni molto conosciuti come Franz Boas, Margaret Mead o  Ruth Benedict, per citarne solo alcuni, si erano già interessati ai modi di trasmissione culturale nelle loro ricerche presso popolazioni viventi in società non occidentali o extra-europee. L’interesse per la dimensione culturale e sociale dell’istituzione scolastica e per il ruolo che al suo interno rivestono i diversi attori sociali - su tale definizione consiglio la lettura di un saggio di Erving Goffman, “La vita quotidiana come rappresentazione”, ricco di riflessioni e teorie sull’agire sociale, attori quali sono studenti, insegnanti, famiglie e istituzioni esterne che collaborano con le scuole, può generare una riflessione interessante su quanto le differenze culturali, religiose, etniche o linguistiche presenti oggi nel mondo della scuola possano portare, se affrontate con strategie didattiche appropriate a esiti educativi positivi,  ad una maggiore interazione e integrazione nel gruppo classe e tra gli studenti, o ad una relazione positiva tra studenti e insegnanti, o al contrario generare, se trascurate o non risolte, incomprensioni, silenzi, possibili conflitti. Lo studio dei processi di inculturazione – studi cari alle scienze antropologiche e all’antropologia dell’educazione, anche se attualmente meno in voga come terminologia rispetto a qualche decennio fa  - rappresenta una modalità di  riflessione sul come l’educazione “informale”, quella che si verifica fuori dal contesto scolastico istituzionale, riesca a plasmare la mente e l’operato dei bambini e dei ragazzi per trasformarli in portatori di una certa cultura, e permettere dunque l’esistenza e la trasmissione di determinati sistemi culturali (Spindler, 1974). Ciò che si verifica nel contesto extrascolastico genera in taluni casi una discontinuità culturale che può, nel momento in cui si incontra o si scontra, con modelli educativi diversi, generare incomprensioni e conflitti tra alunni e insegnanti, tra famiglia e insegnante, tra alunni nei confronti di altri alunni.  Per questo motivo è fondamentale comprendere quali sono i valori e i sistemi culturali di cui i nostri alunni sono portatori e per noi educatori-docenti, fare una riflessione su noi stessi e sui nostri valori, che non sempre corrispondono a ciò che la maggioranza definisce “la cultura ufficiale” - quella della maggioranza - di un determinato Paese. Purtroppo, esiti di tipo negativo di questa discontinuità culturale e educativa vissuta talvolta dai ragazzi, sfociano nel fenomeno dell’abbandono scolastico da parte di molti alunni stranieri, che in Italia assume dimensioni preoccupanti. Nel nostro Paese, il numero di ragazzi che non raggiungono il diploma di scuola secondaria di secondo grado o sono impegnati in altre attività di formazione o di lavoro, sono in numero più alto rispetto ai dati della media europea. Nel 2022, l’11,5 dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni è uscito senza diploma dal sistema di istruzione (dati ISTAT, GOAL 4 Istruzione di qualità per tutti, Istat.it) Un approccio etnografico al mondo della scuola permetterebbe di mettere in evidenza quindi quel mondo “sotterraneo” e “Altro” – inteso come “diverso” - rispetto alla percezione che gli stessi insegnanti e studenti hanno dell’istituzione scolastica, del loro ruolo e del loro agire all’interno di tale istituzione; utilizzando le tecniche di indagine tipiche dell’etnografia come le interviste agli studenti e gli  insegnanti, l’osservazione sistematica del contesto di interesse, che ad esempio potrebbe essere una classe di una scuola primaria, le registrazioni video e audio della quotidianità a scuola, l’uso di materiale fotografico e degli appunti presi sul campo di ricerca, si possono portare in superficie vissuti, valori e dinamiche implicite che spesso vengono ignorate, o addirittura negate dalle stesse persone coinvolte nella ricerca. Questo specifico ambito dell’antropologia dell’educazione viene nominato in ambito anglosassone “schooling”, il fare etnografia della scuola. Lo “schooling” permette di evidenziare le diverse pratiche culturali – esplicite e implicite -, analizzare i processi educativi e le relazioni che esistono tra le persone coinvolte, studiare i metodi di trasmissione culturale e ciò di cui sono portatori, spesso in modo inconsapevole. Uno studio etnografico del contesto educativo, sia esso scolastico o informale, può apportare un notevole contributo allo studio dei problemi educativi generati dalla presenza di individui e gruppi provenienti da culture diverse rispetto al contesto di migrazione.   Bibliografia Dei F., Cultura, scuola, educazione: la prospettiva antropologica, Pisa, edizioni Pacini, 2018; Favaro G. Luatti L., L’intercultura dalla A alla Z, Milano, edizioni FrancoAngeli, 2004 Goffman, E., La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, edizioni il Mulino, 1969 Romanelli S., Laboratori dal mondo. Percorsi di antropologia e attività per la promozione dell’interculturalità alla scuola primaria, Trento, edizioni Centro Studi Erickson,  2022;  Tassan M., Antropologia per insegnare, Bologna, edizioni Zanichelli, 2020 @media (max-width: 576px){ .me-text ul li { font-size: 19px !important; line-height: 28px !important; } .me-text ol li { font-size: 19px !important; line-height: 28px !important; } } .me-text ul li { font-size: 22px; line-height: 34px; } .me-text ol li { font-size: 22px; line-height: 34px; }
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
Come costruire un leone di carta con la tecnica che abbina linguaggio matematico e disegno creativo
In occasione della festa del papà, proponiamo un laboratorio di costruzioni con la carta, divertente e allo stesso tempo impegnativo. Una sfida appassionante per le classi quarta e quinta della primaria, con un obiettivo ambizioso: la produzione di un manufatto artigianale costruito con le proprie mani e con le sembianze di un leone, da portare a casa come regalo per il papà. Il laboratorio si articola in cinque fasi: il disegno geometrico, la coloritura, il ritaglio, la piegatura e infine il montaggio. Qui di seguito forniamo istruzioni dettagliate per accompagnarvi in tutte queste fasi. Materiali necessari I materiali necessari per questo laboratorio sono: fogli A4 a quadretti piccoli, matita, righello, gomma, forbici, colla, pastelli giallo, arancio e nero. Armiamoci di pazienza e di concentrazione, perché il manufatto che vogliamo costruire è composto da ben nove elementi: un cubo per il corpo, un cubo per la testa, e 7 parallelepipedi per la criniera. Buon divertimento con il Leone di Carta! Fase 1 e 2: disegno geometrico e coloritura Prendiamo dei fogli A4 a quadretti da mezzo centimetro, e disegniamo lo sviluppo piano dei solidi che compongono il leone di carta. Si tratta di 2 cubi con lato di 6 cm, e di 7 parallelepipedi a base quadrata. Tutti questi solidi sono composti da sei facce. Una volta disegnato lo sviluppo piano, aggiungiamo delle alette, che ci serviranno nella fase di montaggio. Ecco lo sviluppo piano del parallelepipedo, da replicare in 7 copie per la criniera, e da colorare di arancio. Ecco lo sviluppo del cubo che diventerà la testa del leone. Attenzione ad occhi e bocca, seguiamo le regole del quadretto! Infine, lo sviluppo del corpo del leone, con coda nella parte posteriore. Fase 3 e 4: ritaglio e piegatura Ora che abbiamo disegnato tutti e 9 i pezzi che compongono il manufatto, passiamo alla fase del ritaglio. Con molta cura tagliamo seguendo il perimetro esterno delle alette. Terminata la fase di ritaglio, pieghiamo tutte le alette verso l'interno, come mostrato nella fotografia. Si consiglia di piegare anche lungo i segmenti che dividono le facce tra loro, per agevolare la successiva fase di montaggio. Ripetiamo questa operazione per tutti e 9 i pezzi. Fase 5: montaggio Entriamo finalmente nell'ultima fase, quella decisiva! Prendiamo il solido che abbiamo ritagliato e piegato, e spalmiamo la colla lungo tutte le alette. Con molta cura, iniziamo a comporre il cubo facendo combaciare le alette adiacenti, un passo alla volta, fino a richiudere la faccia superiore. Ecco il primo cubo montato! Dopo aver montato tutti e 9 i pezzi armati di colla e di pazienza, è giunto il momento di assemblare il leone, incollando tra loro le varie parti. Finalmente ci siamo, il Leone di Carta è pronto! La dedizione e la fatica che sono state necessarie per realizzarlo sono ampiamente ripagate dalla soddisfazione di portare a casa un oggetto costruito con le proprie mani! Un saluto dal maestro Andrea e dalla maestra Marta!Alla prossima avventura con il Codice Quadretto... e buona festa del papà a tutti! .img-fluid{ margin-bottom: 30px !important; } @media only screen and (max-width: 767.9px) { .img-fluid { max-width: 200px !important; } } .article-header-container .article-header .author-profile-pic::after{ content="Nella foto, Andrea Rota e Marta Magli, autori di "Sviluppare la creatività con il Codice Quadretto"; }
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
Attraverso un percorso laboratoriale si riscopre il legame tra bambini e natura, educandoli a prendersi cura della Terra
Il termine “sviluppo sostenibile” è stato definito per la prima volta dalle Nazioni Unite nel 1987 e ad oggi è il principio caposaldo nell’analisi e nella progettazione ambientale e socioeconomica. Dalla definizione che ne è stata data si capisce che l’obiettivo ultimo è quello di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.  Come è possibile introdurre questi principi nell’educazione? La scuola è uno strumento fondamentale di trasformazione, necessario per costruire società più inclusive e resilienti, trasmettendo le competenze necessarie per il cambiamento.  Si parla quindi di educazione alla sostenibilità ogni volta in cui i nostri obiettivi sono nutrire l’amore e l’empatia per il proprio ambiente naturale, trasmettere la consapevolezza della fragilità degli eco-sistemi sulla Terra, accrescere le competenze per la salvaguardia delle risorse del pianeta. Per poter offrire un’educazione alla sostenibilità è necessario trasmettere una scala di valori e delle attitudini che incoraggino nei bambini e nelle bambine un forte legame con il proprio ambiente naturale, oltre che una sensibilità al consumo e alla produzione più responsabile. Arte e scienza, gioco e teoria, indoor e outdoor, lavoro individuale e di gruppo si fanno equilibrio nel trasmettere la bellezza della natura che ci circonda e ci parla in continuazione, anche se spesso siamo troppo distratti dal “fare” per accorgercene. Per educare alla sostenibilità, va dunque innanzitutto riscoperto e curato il legame sacro tra bambino e natura, da coltivare sin dalla prima infanzia. Un corretto rapporto emotivo e affettivo con la natura sviluppa nei futuri cittadini l’empatia necessaria per preoccuparsi del proprio ambiente, affinché si relazionino con la Terra in modo più armonioso delle passate generazioni. La complessità e l’interdipendenza delle odierne sfide globali devono essere trasmesse ai bambini con molta cautela, ricordando che il miglior insegnamento si verifica quando lo sforzo dell’educatore si concentra nell'accompagnare il bambino in un viaggio di scoperta, e non nell’impartire conoscenza.  Una scoperta ricca di meraviglia e appresa con leggerezza facilita senz’altro un rapporto amorevole nei confronti della natura prima di invocare conoscenza e responsabilità per la stessa. I percorsi didattici che si ispirano al ciclo vitale della natura costruiscono l’esperienza dell’apprendimento a partire dall’intuizione del bambino: la conoscenza viene quindi acquisita tramite osservazione e indagini del mondo sensoriale e naturale, nel rispetto dell’età evolutiva del bambino e fornendo allo stesso gli strumenti necessari per l’apprendimento. L’approccio didattico da prediligere è dunque flessibile e aperto alle modifiche e agli adattamenti che ogni insegnante o educatore percepirà necessarie in funzione dei bambini, affinché l’apprendimento sia davvero sostenibile e partecipi tangibilmente allo sviluppo di una cittadinanza globale.
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