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Passi concreti verso una didattica universale 1

Passi concreti verso una didattica universale

In occasione del Convegno Erickson «La qualità dell’inclusione scolastica e sociale» del 2019, pubblicammo, con Andrea Canevaro il libro Un altro sostegno è possibile: pratiche di evoluzione sostenibile ed efficace (Canevaro e Ianes, 2019), in cui trovarono spazio le voci e le testimonianze concrete di chi aveva realizzato qualcuna delle 12 tesi che costituiscono l’essere e il praticare un sostegno inclusivo, radicalmente e fino anche alla sua evoluzione completa. Allora si diceva che «un altro sostegno è possibile» fosse un’ affermazione orgogliosa e coraggiosa, non utopistica e visionaria, anzi, molto concreta e reale. Lo stesso diciamo ora con la stessa forza con il titolo è possibile del testo curato con Andrea Canevaro e che consegneremo ai/alle partecipanti alla 13a edizione del nostro Convegno di Rimini a novembre, perché ne è la logica e naturale conseguenza.

La scuola inclusiva ha certo bisogno anche di nuovo paradigma per un sostegno inclusivo per una didattica realmente inclusiva, cioè nuova e diversa da quella tradizionale standard, ma per questo ha soprattutto bisogno di un’altra didattica. Un’altra didattica ordinaria, comune, di tutti, che non debba più chiamarsi inclusiva.

Nel DNA della visione più diffusa dell’inclusione, nel nostro Paese, c’è la storia dell’integrazione scolastica degli alunni/e con disabilità, dagli anni Settanta, e poi nel 2010 la Legge 170 che riguarda i DSA, per finire con gli altri alunni con vari BES nel 2012: una grande storia ma profondamente legata ad alunni con qualche tipo di problematica. Dunque non sorprende che il termine «inclusione» evochi qualche categoria di alunni/e con problemi vari, variamente diagnosticati/identificati. Se però vogliamo prendere sul serio il lungo percorso che ancora dobbiamo fare verso una scuola inclusiva meglio abbandonare velocemente il termine «inclusione», perché vogliamo parlare del 100% degli alunni/e, non solo di una parte di esso. Una scuola che non ha più bisogno dell’inclusione è innanzitutto una scuola fondata sull’equità, cioè sull’arricchire il principio (e le corrispondenti prassi) di uguaglianza con quello dell’equità, del coraggio cioè di «fare differenze» positive, compensative e perequative verso quelle differenze che, se non agissimo con equità, diventerebbero disuguaglianze. Il tema dell’equità è il motore motivazionale della scuola che vogliamo, una scuola, come disse Franco Lorenzoni, «dove si vive più giustizia di quella che c’è fuori», una scuola fondata sui diritti umani e sulla giustizia sociale, una scuola che, in nome di questi valori, sa essere anche «contro» oltre che «pro». Ma questa idealità non è di facile attuazione.

E a questo punto, sul «come» avvicinarsi almeno un po’ a questo fine altissimo, dobbiamo parlare di universalità. Credo che il primo passo verso l’universalità sia così sotto gli occhi di tutti che rischiamo di non vederlo: «l'infinita varietà delle differenze umane», un’espressione meravigliosa di Fred Vargas. È talmente ovvio che ogni alunno/a è profondamente diverso che spesso lo dimentichiamo, dando a tutte/i la stessa cosa, la stessa spiegazione, lo stesso libro, gli stessi tempi, le stesse modalità di apprendimento… Se vogliamo davvero muoverci verso l’universalità dovremmo essere ossessionati dallo scoprire, comprendere e valorizzare in ogni modo le differenze dei nostri alunni/e. Ognuno è un mondo a sé, ma è anche una parte essenziale della nostra squadra, la classe, la scuola, la comunità. Non ha importanza quale possa essere il modo per compiere questa scoperta, lo Universal Design for Learning, la Tomlison, la Montessori, ecc., ma anche il raccontare, raccontare di sé, di ciò che ognuno è nel suo e nel mondo di tutti.

Il secondo passo concreto che proporrei è quello dell’arricchimento «interno» delle proposte didattiche normali, per renderle efficaci anche per una gamma più ampia possibile di alunni/e.

Una proposta didattica, anche tradizionale, come una scheda, una lettura, esercizi e problemi, testi argomentativi, capitoli da studiare, ecc., diventa subito un po’ più universale se la arricchiamo con qualcosa che risulta utile a chi la affronta.

Questo arricchimento, dove solo la nostra fantasia e le concrete possibilità tecniche sono dei limiti, crea un’aumentazione della normalità, che non la riduce, non la scompone, ma la esalta aggiungendo forme di input significativi per chi affronta quella situazione.

Il terzo passo concreto verso una didattica universale è la pluralità delle occasioni di apprendimento, l'offrire una gamma il più ampia possibile di situazioni in cui apprendere e partecipare socialmente. La classe (ma sarebbe meglio parlare di gruppi mobili, eterogenei) è una squadra che si muove verso finalità comuni, verso famiglie di competenze che dovrebbero avere un senso per chi va a scuola, non può disgregarsi in una frammentazione di attività individuali e isolate, ovvio. Ma se vogliamo che ognuno sviluppi il massimo del suo potenziale, quell’alunno/a deve trovare attività che rispondono bene alla sua situazione. Altrimenti lo perdiamo. Le varie forme di didattica aperta, laboratoriale, per progetti, cooperativa, per problemi, ecc. sono piene di possibilità di offrire una ricca pluralità di occasioni di apprendimento, diversificate per qualità, intensità, differenza di input, output, modalità motivazionali, relazionali, ecc. Una gamma diversificata di opportunità di apprendimento, dove si esercita la libertà di scelta.
Su questa apertura e pluralità della didattica ormai c’è molta letteratura e non mi dilungo, ma vorrei ricordare alcune condizioni necessarie. La prima è la disponibilità di una gamma ampia di materiali/proposte/idee, e per questo è necessaria una policy scolastica che tesaurizzi testi, schede autoprodotte e messe senza gelosia a disposizione dei colleghi/e, risorse web, ecc. Con una policy determinata di questo genere ogni scuola in pochi anni avrebbe a disposizione un thesaurus ricchissimo a cui attingere per una didattica aperta e plurale. La seconda condizione necessaria per questo passo di apertura è la conquista di sempre più spazi fisici dove creare varie stazioni di lavoro. Anche liberando spazi tradizionali (rottamando la cattedra, ad esempio) e conquistandone di nuovi, le aule all’aperto, le attività negli spazi comuni, la riconversione delle aule di sostegno, ecc. La terza condizione potrebbe essere la più difficile, perché è la libertà di scegliere. La libertà di scegliere da parte degli alunni/e il tipo di attività, materiale, situazione non è semplice da realizzare. Da un lato si fonda su responsabilità e autoconsapevolezza metacognitiva negli alunni/e, che sarà frutto di un percorso anche lungo e graduale, ma questo si sa. La libertà di lasciar scegliere in libertà si fonda anche su una situazione psicologica dell’insegnante che accetta di «perdere il potere», di «perdere il controllo», che sa vivere l’ansia (e magari il senso di colpa) del «riuscirò a fare tutto?»
Queste sono le formae mentis (e cordis direi) che ci portano a superare l’inclusione «stretta» per una scuola davvero più inclusiva nel suo senso più ampio.

Con questo editoriale si apre il numero di novembre della Rivista Erickson “DIDA”. La cover story di questo numero è dedicata al tema “L’inclusione non è un’isola”

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