In Italia abbiamo sempre avuto difficoltà a fare ricerca sull'integrazione scolastica degli alunni/e con disabilità, sia per questioni epistemologiche, sia per una resistenza ideologica antipopperiana a indagare criticamente quello che è ritenuto un fiore all'occhiello della nostra scuola, accumulando dati e conoscenze di tipo prevalentemente descrittivo e confermatorio su ciò che accade.
Dal punto di vista metodologico si alternano approcci qualitativi micro, web survey quantitative su grandi numeri, metaanalisi e systematic review, con alterni risultati e problemi di vario genere: la difficoltà nel costruire campioni rappresentativi di insegnanti e scuole, la dubbia affidabilità dei rispondenti ai questionari e le varie difficoltà nel definire, raccogliere, misurare e valutare evidenze/effetti/esiti delle pratiche inclusive.
Com'è evidente, sarebbe fondamentale capire bene di cosa si parla quando si dice «scuola inclusiva», «integrazione scolastica di buona qualità» o addirittura «effetti positivi/negativi dell’integrazione negli alunni/e con disabilità» (quale? di che livello?), «negli apprendimenti» (quali?) e «nella partecipazione sociale» (con chi? dove?).
Abbiamo bisogno di conoscenze affidabili e molto specifiche non soltanto per realizzare — sul serio e con consapevolezza — i principi contenuti nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (che insieme al suo protocollo opzionale è il primo strumento giuridico vincolante, ratificato, oltre che dall'Italia, dall'Unione Europea), ma anche per affrontare un discorso serio con gli inclusio-scettici come Imray e Colley e tanti altri.
Qualche dato utile ci viene dalle, per ora rare, systematic review della letteratura scientifica sugli effetti delle pratiche inclusive sui compagni di classe senza disabilità e sugli alunni/e con disabilità più complessa.
La piaga di “quello che non funziona” riguardo all'inclusione sanguina dunque due volte, la prima per la difficile e talvolta dolorosa e fallimentare implementazione quotidiana di altissimi e nobili principi e valori, e la seconda per gli evidenti ostacoli che la ricerca incontra nel comprendere il groviglio di variabili, aspetti, fattori, ecologie di condizioni reali e di rappresentazioni culturali e interpretative che determinano atteggiamenti, politiche e pratiche.
Gli inclusio-scettici mettono facilmente il dito nella piaga e non credono alla possibilità e agli effetti positivi dell’integrazione/ inclusione; noi, che inclusio-scettici non siamo, dovremo fare altrettanto, ma per capire meglio queste posizioni scettiche o addirittura contrarie, e laicamente decostruire processi problematici e degenerativi.