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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Pedagogia
La riflessione di un’insegnante sull’urgenza di guardare ai social network da una nuova prospettiva
Fine luglio. Precaria, ergo disoccupata. Scorro distratta e svogliata le storie Instagram dal mio smartphone, seduta sul dondolo della casa al mare dei miei e incappo in una storia fighissima di Serena, una mia studentessa che ha iniziato a seguirmi sui social alla fine dell'anno scolastico. Non si fa! Direbbero i ben pensanti, ma la scuola è finita, chissà se lì ci tornerò più e la didattica a distanza ha scombussolato tutto. Ma poi, alla fine, che male c'è? È una serata estiva qualunque e mi annoio, ma mi accorgo che la mia noia adulta è una dolce compagnia, che consola una giornata particolarmente faticosa, non è un'inquietante mancanza di qualcosa. Quindi, mi gusto le storie di Serena con tenerezza e penso a come possano sentirsi gli adolescenti, che l'inquietudine ce l'hanno sempre a portata di mano, così come la costante mancanza di qualcosa. Se anche loro ora sono sdraiati su un dondolo, di certo chattano, guardano video, condividono contenuti dal loro smartphone. Poi assistono all'ostentazione del bello e della perfezione sui i social, scorrono tante storie fighissime su Instagram, proprio come quelle di Serena, o dell’ultima influencer di turno, fatte di vacanze, serate, spiagge, stili di vita spinti spesso oltre le reali possibilità economiche: locali, alcolici, vestiti sempre diversi ogni sera. Il tutto in barba al social distancing, ma questa è un'altra storia. Empatizzo con loro e con la piccola me, pensando a come si sarebbe sentita la me adolescente, isolata e annoiata nel giardino della casa al mare dei suoi che però lei, insofferente, aveva soprannominato "Casa nella prateria", a causa di un certo pruriginoso isolamento estivo. Sono giovane e mi considero abbastanza social, ma capisco che è tutto cambiato: i ragazzi cercano attenzioni e approvazione, ma necessitano intento di estremo e silenziosissimo controllo, hanno bisogno di essere accompagnati da guide esperte e non giudicanti. Da qui l'urgenza tutta nuova di vedere i social network da una nuova prospettiva, tutta educativa. Queste cose inutili sono roba seria! Una questione che da giovani insegnanti dovremmo affrontare in maniera sempre più massiva e consapevole. È importante che i ragazzi abbiano una concreta e reale competenza digitale, sì, proprio come quella che gli adulti non hanno. Non si tratta solo di imparare ad accendere e spegnere un PC o copiare e incollare da Wikipedia un articolo sulla barbabietola da zucchero per poi spacciarlo al professore come ricerca. Si tratta di avere la piena consapevolezza delle potenzialità e dei pericoli legati all'uso di una connessione Internet: il diritto a proteggere la propria privacy, il rischio di essere adescati in chat, il revenge porn, il cyberbullismo. Non scandalizziamoci: per capire un problema, bisogna conoscerlo. E per insegnare o meglio guidare i nostri studenti verso l'acquisizione di una competenza è necessario prima di ogni cosa verificare i prerequisiti, e quindi osservare, osservare tanto. Dunque, che male c'è se Serena ha iniziato a seguirmi su Instagram? La seguo anch’io, così la osservo meglio e capisco tanto di lei, del suo mondo, del tipo di attenzione che vuole attirare. Internet e i social network sono una realtà ormai imprescindibile che non possiamo più demonizzare, dobbiamo conviverci, usarli insieme ai nostri ragazzi, scoprirne le diverse funzionalità. Infine, dovremmo spiegare loro “la differenza, se c'è, tra la vita reale e la vita al cellulare”, come dice il cantautore Brunori SAS in Lamezia Milano. Dovremmo conoscere il linguaggio persuasivo dei social e la struttura del loro fascino così programmato, ma non prima di aver conosciuto i nostri ragazzi, capire ciò che vedono e cosa potrebbero provare nel vederlo. Più che indignarci per la loro condotta e dire che i tempi sono cambiati, spieghiamo come essere pienamente padroni dello strumento digitale, come si può giocare coi social, senza subirli. Spieghiamo che è sempre tutto così artificiale, tutto molto più vuoto di quanto credano, che la vita sarà anche fatta dalle storie Instagram di Serena, ma che quella più bella è fatta di gioie che nascono dagli incontri reali e da piccoli sacrifici quotidiani che ripagano molto di più di un centinaio di visualizzazioni. Ecco, se io non avessi seguito Serena su Instagram, sicuramente non avrei visto le sue storie fighissime e non avrei scritto delle righe da giovane insegnante super-social che si interroga su questa nuova responsabilità educativa. Quindi adesso che Serena ha iniziato a seguirmi, che male c'è?
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Metodo Montessori e anziani fragili Disabilità
Un film-documentario racconta la prima esperienza di vacanza in coppia fatta da alcuni giovani nell’ambito di un progetto sull’educazione affettiva e sessuale dell’Associazione Italiana Persone Down. Abbiamo intervistato il regista Christian Angeli
Lago di Bracciano, estate 2021. Un gruppo di ragazze e ragazzi partecipa a un soggiorno estivo per coppie di fidanzati organizzato dall’AIPD, l’Associazione Italiana Persone Down, a conclusione di un progetto sull’educazione affettiva e sessuale. Il soggiorno si svolge in un campeggio, con una serie di attività organizzate come uscite nella natura, visite culturali e momenti di socialità in gruppo Nel resto del tempo, ogni coppia si trova a svolgere le attività della vita quotidiana, tenendo pulito il bungalow, preparando i pasti e gestendosi in autonomia per partecipare alle varie attività e uscite organizzate. Una primissima esperienza di vacanza a due che ha risvolti importanti per tutti, perché è la prima volta che i partecipanti a questa vacanza si mettono alla prova insieme nella quotidianità, imparando a conoscersi meglio, approfondendo la relazione e al contempo sperimentando le difficoltà della vita di tutti i giorni, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista emotivo. Il documentario “Come una vera coppia”, realizzato in collaborazione con AIPD per la regia di Christian Angeli, nell'ambito di un progetto finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, mostra i momenti salienti della vacanza vissuta dalle giovani coppie, trascinandoci come ospiti invisibili nella loro quotidianità. Abbiamo chiesto al regista di parlarci del film e dell’esperienza vissuta. Com’è stato lavorare al documentario “Come una vera coppia”, dal punto di vista della regia? Per me è stato interessante lavorare su materiali di repertorio, con i girati di coppie in vacanza tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta. Nella narrazione del film abbiamo associato queste immagini alla voce dei genitori dei ragazzi che hanno partecipato al soggiorno. Ho chiesto alle mamme di esprimere emozioni e stati d’animo rispetto a questo primo distacco dai propri figli, parlando anche del loro primo viaggio con il proprio compagno. Quello che provano i genitori in questi momenti è quello che accade sempre quando arriva il momento di tagliare il cordone ombelicale. E quelle che provano i ragazzi alla loro prima vacanza in coppia sono le stesse emozioni provate dai loro genitori quando erano giovani. Il coinvolgimento dei genitori ha dato alla storia che raccontiamo un valore universale. Come hanno vissuto questa vacanza i ragazzi e le ragazze, secondo lei? Credo che per loro sia stata un’esperienza bellissima, erano tutti molto motivati. Al contempo penso che emotivamente sia stata anche dura e faticosa. Nei primi tentativi di autonomia si incontrano sempre problemi e difficoltà. Si può fare fatica ad accettare in toto il proprio partner o la propria partner, per esempio. Oppure può venir fuori che non si va più d’accordo con i propri genitori e si vuole andare a vivere con il fidanzato. Credo che, soprattutto, ognuno si sia reso conto di dove si trova in questo momento della sua sua vita, acquisendo consapevolezza. Dal punto di vista umano, che riflessioni ha fatto? I vissuti di coppia di questi ragazzi sono i nostri stessi vissuti, ci parlano di noi. Le dinamiche relazionali tra genitori e figli e tra fidanzate e fidanzati sono quelle di sempre, non sono cambiate. Si discute, si litiga, si fa la pace, ci si lascia sempre nello stesso modo. La novità che è emersa in questo gruppo, a mio parere, è che qui i maschi si fanno guidare dalle donne. Sono le donne ad avere il pallino del gioco emotivo. Forse è un segnale di una tendenza in atto anche a livello di società.
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Search-ME - Erickson 2 Adolescenza
Come molte categorie fragili anche i giovani caregiver sono penalizzati e ulteriormente svantaggiati a causa dell’attuale emergenza sanitaria
I giovani caregiver sono bambini/e e adolescenti, talvolta non ancora maggiorenni, impegnati regolarmente in attività di cura rivolte ai propri familiari (genitori, nonni, sorelle e fratelli, ecc.). I bisogni dei familiari possono comprendere malattie croniche, disabilità e anche fragilità sociali e psicologiche che determinano la necessità di supervisione e assistenza costante e, talvolta, quotidiana. Occuparsi di faccende domestiche, supportare emotivamente e somministrare dei farmaci sono solo alcune delle attività che svolgono i giovani caregiver. Le responsabilità di cura influiscono significativamente sul loro sviluppo psico-fisico generando considerevoli difficoltà nella transizione verso l’età adulta. Un’indagine svolta nel 2019 ha evidenziato che su un campione di 424 studenti/esse, di alcune scuole secondarie di primo grado del Comune di Milano, il 6% è costituito da potenziali caregiver. Come è cambiata la vita dei giovani caregiver durante l’epidemia? La pandemia da Covid-19 sta influenzando significativamente le nostre vite generando ansia e preoccupazione per la salute personale e dei propri cari. Secondo una ricerca inglese questi sentimenti sono sentiti maggiormente dai giovani caregiver, i quali vivono fortemente la paura di un peggioramento delle condizioni di salute dei propri cari e di essere loro stessi causa del contagio. Motivo di ulteriore ansia è destata dalla eventualità, da parte loro, di ammalarsi. Ciò inficerebbe a loro la possibilità di svolgere i compiti di cura. Le restrizioni sociali imposte dai governi hanno l’effetto di produrre ulteriore isolamento sociale e un incremento del carico di lavoro dei giovani caregiver. Avendo meno opportunità aggregative e di sviluppare legami significativi e, talvolta, dovendo adempiere alla didattica a distanza, i caregiver rischiano di ridurre sensibilmente il tempo dedicato a sé stessi, il quale è fondamentale per la crescita armonica e per la prevenzione degli esiti negativi dovuti al caregiving. Questo, di conseguenza, aumenterebbe per loro il carico di lavoro. Trascorrendo più tempo a casa potrà esserci maggiore probabilità di richiesta nell’occuparsi di altri familiari bisognosi di attenzioni, come per esempio fratelli e sorelle. Tale circostanza in Italia si è presentata in molte occasioni a causa del ricovero di uno o di entrambi i genitori. Quali sono i bisogni dei giovani caragiver? Un gruppo di giovani caregiver, riuniti da un network inglese di associazioni, ha stilato un documento per richiedere maggiori attenzioni nei loro confronti e di tutti coloro che vertono nella medesima situazione. I giovani caregiver hanno espresso chiaramente la necessità di essere “visti”, soprattutto in questa fase di emergenza sanitaria. Essere ascoltati in modo genuino e senza giudizi e tenere in considerazione la loro opinione sono alcune delle richieste espresse dal gruppo inglese di ragazzi/e con responsabilità di cura. Secondo il loro punto di vista almeno una parte del benessere può essere ugualmente raggiunto in questa fase di restrizioni con semplici azioni messe in pratica da operatori sociali e insegnanti. Alla base delle loro richieste è possibile cogliere il desiderio di prendere parte ad una relazione di aiuto che si basi sulla fiducia e reciprocità in cui possano sentirsi liberi di dare voce a preoccupazioni, bisogni e speranze. Ad esempio, il gruppo dei giovani caregiver inglesi esorta i professionisti a fissare degli appuntamenti telefonici e/o video chiamate settimanali, parlandone direttamente con loro, e non solamente con i genitori, per accertarsi delle loro condizioni e per affrontare insieme la questione dei carichi del lavoro di cura e dell’andamento scolastico. Anche in questa fase di emergenza sanitaria, anzi soprattutto ora, è fondamentale identificare e dare voce a coloro che sono sempre nell’ombra nonostante svolgano un ruolo cruciale per la propria famiglia.
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Search-ME - Erickson 3 Adolescenza
Le parole e i gesti che scegliamo per comunicare con gli altri ci rappresentano e rivelano la persona che siamo
Spesso capita di pensare che nella comunicazione ci sia un modo giusto e uno sbagliato di dire le cose o di mostrare i propri sentimenti. Questa idea è figlia della convinzione che ci siano dei comportamenti considerati «universalmente» corretti, ovvero che tutti leggono nella stessa maniera e che quindi non sono fraintendibili. Purtroppo non è così.  Il nostro modo di parlare, di muoverci nella comunicazione e di ascoltare è frutto di ciò che abbiamo imparato fin da piccoli. Per fare un paragone, potremmo dire che siamo tutti convinti di giocare allo stesso gioco, ma alcuni fanno pallavolo, altri basket e qualcuno invece rubamazzetto.  Per capirci tra noi, quindi, dobbiamo smetterla di dare per scontato che l’altro legga il mondo esattamente come facciamo noi. Perché una comunicazione possa esistere, infatti, non basta una persona che parla o scrive (l’emittente), serve anche qualcuno che ascolti o legga il messaggio inviato (il ricevente). L’ascolto è il primo passo per una comunicazione che funzioni: essere capaci di ascoltare con attenzione l’altra persona può fare la differenza in un’interrogazione, quando si chiede un favore e perfino nelle questioni di cuore. Metterci nei panni degli altri a volte è impossibile, non possiamo neppure lontanamente immaginare come pensa, sente e reagisce una persona che ha vissuto una vita completamente diversa dalla nostra. Eppure spesso cadiamo nell’errore di giudicare con il nostro metro situazioni che non conosciamo. Per poter aprire un dialogo costruttivo con una persona molto diversa da noi, serve essere in una situazione più serena possibile.  Se vogliamo che l’altro ascolti quello che abbiamo da dire, dobbiamo «scavalcare» le difese che i suoi pregiudizi gli fanno avere nei nostri confronti. Anche noi, a nostra volta, dobbiamo mettere da parte i nostri e spesso non è facile perché neppure riusciamo a riconoscerli! In psicologia si dice «sospendere il giudizio», ovvero smettere di pensare di essere nel giusto e accogliere il dubbio che l’altra persona possa avere una sua visione altrettanto corretta della nostra. La comunicazione, infatti, è come lo scambio di una palla: ciò che comunichiamo dice all’altro se siamo accoglienti o se rifiutiamo non solo quanto ci viene detto, ma l’intera persona. Un passaggio di palla morbido indica la nostra intenzione a giocare insieme, una schiacciata violenta l’esatto contrario. Essere accoglienti verso un punto di vista diverso dal nostro non mette a repentaglio la nostra vita, ma, se a prima vista ci fa paura, possiamo considerarla come un’esplorazione in un mondo diverso dal nostro. Magari troveremo un tesoro inaspettato! La comunicazione si divide solitamente in tre tipi: verbale, cioè il contenuto del nostro messaggio, le parole che nascono dal nostro pensiero; paraverbale, cioè il «come» diciamo le parole, ovvero il nostro tono di voce e l’intonazione che ci mettiamo; non verbale, tutto ciò che non riguarda le parole o come le diciamo. Le ultime due sono costituite da ciò che non riguarda le parole e neppure da come le pronunciamo. Restano quindi le nostre espressioni, la posizione del corpo, il modo di vestire, il contatto visivo con la persona a cui stiamo parlando. Per riuscire a fare in modo che il nostro messaggio sia semplice e chiaro, dobbiamo accordare questi tre aspetti. Per esempio, è più difficile ottenere l’attenzione di qualcuno se parliamo a bassa voce, teniamo lo sguardo basso e facciamo molti giri di parole. Mentre è facile tenere l’attenzione se guardiamo negli occhi una persona, scandiamo bene le parole e magari gesticoliamo per spiegarci meglio. Allo stesso modo, qualcuno odia essere toccato, altri non amano la vicinanza fisica o si imbarazzano ad essere guardati negli occhi. Quindi, anche se è vero che in media una persona che parla con una postura aperta e lo sguardo sull’interlocutore viene giudicata più espansiva di una persona che tiene le braccia incrociate o che si sdraia su una sedia, non sempre queste caratteristiche sono apprezzate da tutti e non è detto che ti garantiscano sempre un risultato comunicativo ottimo al 100%.Nell’amicizia, come nella buona comunicazione, bisogna sempre ascoltare le esigenze anche dell’altra persona e non dare per scontato che quello che vale per noi valga per tutti.
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Search-ME - Erickson 4 Genitori e figli
Come gestire tipologie di dolore nuove o conosciute nei propri figli
La terapia del dolore generalmente si occupa di condizioni severe e/o croniche. Le situazioni nella quale ogni bambino e adolescente sperimentano dolore sono però tra le più disparate: dalla banale sbucciatura, alla mano che afferra la maniglia del bollitore sul gas, ad una caviglia slogata, ma anche un infortunio che fatica a recuperare. Ci sono dolori più importanti come quelli legati a specifiche malattie o patologie che possono diventare anche cronici, ma pure quelli ricorrenti più tipici dei mal di pancia o dei mal di testa rivestono un ruolo nel limitare la qualità della vita. Non dimentichiamoci delle procedure quali esami del sangue! Anch’esse rivestono una loro importanza nel farci percepire il dolore (infatti un conto è farli ogni tanto, un altro è doverli fare spesso). Tutti i dolori hanno il dovere di essere riconosciuti e adeguatamente trattati per non generare possibili ripercussioni nello sviluppo del bambino (memorie del dolore e difficoltà ad esso collegate (Failo, 2020). Due domande potremmo porci di fronte a questo difficile periodo della pandemia, ovvero come i dolori sopra descritti vengono gestiti sia a casa che nelle strutture sanitarie e se ci sono nuove condizioni di dolore derivanti dalla situazione Covid. Proviamo ad esplorare la prima. Come vengono gestiti i dolori importanti in tempo di pandemia? Molto recentemente alcuni studi internazionali hanno sottolineato l’importanza della telemedicina e dei programmi eHealth quale modalità più promettenti per continuare i trattamenti e l’assistenza ai bambini e adolescenti ma anche quale supporto ai loro genitori durante tutti i periodi della pandemia (Eccleston et al., 2020; Badawy & Radovic, 2020). Singolarmente, in due studi italiani è emerso però anche come il mal di testa negli adolescenti sembra essere migliorato durante il lockdown perché si sono ridotti alcuni fattori di stress come la scuola (Papetti et al., 2020), ma questo è avvenuto anche negli adulti con emicrania (Parodi et al., 2020). Questo ci dice che la gestione di condizioni dolorose preesistenti è possibile anche a casa e, in un periodo come questo, . La pandemia ha portato nuove condizioni di dolore? Per rispondere a questa domanda, partiamo da un piccolo studio francese di settembre 2020 (Nathan et al., 2020) che ha cercato di comprendere come si manifesta il Covid nei bambini: ebbene, sembra che i più piccoli (sotto i 2 anni) presentino forme meno aggressive del virus con sintomi quali tosse, fatigue, dispnea e dolore addominale, in ogni caso con meno comorbidità legate ad altre problematiche/patologie preesistenti. Tutti questi sintomi fanno parte del decorso della malattia e scompaiono una volta che essa si è risolta. In questo caso i sanitari sono in grado di prestare tutte le cure necessarie. Altra questione è la comparsa di una nuova sindrome infiammatoria multisistemica nei bambini, chiamata MIS-C a seguito del COVID-19, caratterizzata da shock, difficoltà respiratorie, disfunzioni cardiache, dolore addominale, mal di testa e positività a diversi marker infiammatori che ha molte caratteristiche in comune con la malattia di Kawasaki (Godfred-Cato et al., 2020). Si sa ancora poco di come si evolveranno questi quadri, ma si spera che il vaccino per il Covid porterà dei benefici anche su questi fronti. Diversa è la questione dell’accertamento alla positività al Covid. Il metodo più utilizzato sia per il costo che per la minor invasività e per la discreta sensibilità è il tampone naso-faringeo (Palmas et al., 2020; Pondaven-Letourm et al. 2020): è infatti simile a quello faringeo che si fa per la tonsillite, quindi molti operatori sanitari erano già addestrati per eseguirlo correttamente. Si tratta probabilmente del più grande attuale stravolgimento della routine di un bambino a cui quasi tutti oggi sono sottoposti. Pertanto è utile che i genitori siano informati di come si svolge e quindi conseguentemente spieghino in anticipo, nel modo più corretto e semplice possibile come si svolgerà la procedura: Per esempio dire che il bastoncino del tampone verrà inserito nel naso fino a toccare un punto specifico, che il tutto durerà massimo 6/7 secondi e che la mamma o il papà cingeranno dolcemente il bambino da dietro e gli terranno ferma la fronte. Può essere doloroso, ma forse più che altro fastidioso. Infatti la lacrimazione successiva è una reazione allo stimolo e alla paura più che l’effetto di un dolore. Le considerazioni derivanti da questo secondo punto ci pongono diverse opzioni realizzabili concretamente da parte dei bambini/adolescenti stessi e delle loro famiglie. Per esempio partire dal rinforzare i fattori di protezione come una chiara ed onesta comunicazione ed un comportamento responsabile, dal giusto riconoscimento del disagio ma anche della conseguente attenuazione subito dopo il tampone/procedura diagnostica. Si possono quindi anche ridurre i fattori di rischio, rappresentati in primis dalla paura di non sapere cosa sta succedendo, dalla minimizzazione del malessere, dall’ansia di dover far tutto velocemente e senza fare domande. Anche durante questo difficile periodo della pandemia si può fare molto per la gestione del dolore nei bambini e negli adolescenti, ed ogni adulto ha la responsabilità – e anche il diritto – di agire per tutelare il più possibile i figli di tutti. Bibliografia Failo A, 2020, Mi fa ancora male. Trento: Erickson Eccleston, C., Blyth, F. M., Dear, B. F., Fisher, E. A., Keefe, F. J., Lynch, M. E., Palermo, T. M., Reid, M. C., & Williams, A. C. de C. (2020). Managing patients with chronic pain during the COVID-19 outbreak: considerations for the rapid introduction of remotely supported (eHealth) pain management services. Pain, 161(5), 889–893 Badawy, S. M., & Radovic, A. (2020). Digital Approaches to Remote Pediatric Health Care Delivery During the COVID-19 Pandemic: Existing Evidence and a Call for Further Research. JMIR Pediatrics and Parenting, 3(1), e20049 Papetti, L., Loro, P. A. D., Tarantino, S., Grazzi, L., Guidetti, V., Parisi, P., Raieli, V., Sciruicchio, V., Termine, C., Toldo, I., Tozzi, E., Verdecchia, P., Carotenuto, M., Battisti, M., Celi, A., D’Agnano, D., Faedda, N., Ferilli, M. A., Grillo, G., … Valeriani, M. (2020). I stay at home with headache. A survey to investigate how the lockdown for COVID-19 impacted on headache in Italian children. Cephalalgia : An International Journal of Headache, 40(13), 1459–1473 Parodi, I. C., Poeta, M. G., Assini, A., Schirinzi, E., & Del Sette, P. (2020). Impact of quarantine due to COVID infection on migraine: a survey in Genova, Italy. Neurological Sciences : Official Journal of the Italian Neurological Society and of the Italian Society of Clinical Neurophysiology, 41(8), 2025–2027. Nathan, N., Prevost, B., Sileo, C., Richard, N., Berdah, L., Thouvenin, G., Aubertin, G., Lecarpentier, T., Schnuriger, A., Jegard, J., Guellec, I., Taytard, J., & Corvol, H. (2020). The Wide Spectrum of COVID-19 Clinical Presentation in Children. Journal of Clinical Medicine, 9(9). Godfred-Cato, S., Bryant, B., Leung, J., Oster, M. E., Conklin, L., Abrams, J., Roguski, K., Wallace, B., Prezzato, E., Koumans, E. H., Lee, E. H., Geevarughese, A., Lash, M. K., Reilly, K. H., Pulver, W. P., Thomas, D., Feder, K. A., Hsu, K. K., Plipat, N., … Belay, E. (2020). COVID-19-Associated Multisystem Inflammatory Syndrome in Children - United States, March-July 2020. MMWR. Morbidity and Mortality Weekly Report, 69(32), 1074–1080. Palmas, G., Moriondo, M., Trapani, S., Ricci, S., Calistri, E., Pisano, L., Perferi, G., Galli, L., Venturini, E., Indolfi, G., & Azzari, C. (2020). Nasal Swab as Preferred Clinical Specimen for COVID-19 Testing in Children. The Pediatric Infectious Disease Journal, 39(9), e267–e270 Pondaven-Letourmy, S., Alvin, F., Boumghit, Y., & Simon, F. (2020). How to perform a nasopharyngeal swab in adults and children in the COVID-19 era. European Annals of Otorhinolaryngology, Head & Neck Diseases, 137(4), 325–327
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Search-ME - Erickson 5 Adolescenza
Di fronte a storie così complesse gli operatori devono essere creativi, costruire spazi di ascolto, saper accogliere rabbia e abbandono. Soprattutto in questo periodo.
Lavorare con i ragazzi adolescenti nell’ambito dei servizi che si occupano di tutela minori significa, molto spesso, avere a che fare con minori che si proiettano verso l’età adulta con alle spalle delle storie complesse e dolorose, caratterizzate da abbandoni, trascuratezza e traumi non sempre completamente curati. Sono ragazzi che reagiscono alle diverse esperienze di vita passata con rabbia, tristezza, apatia o nervosismo e che, anche nei casi in cui riconoscono che un aiuto potrebbe garantire loro dei benefici, faticano ad accoglierlo senza prima aver messo a dura prova chi tenta di offrirglielo. A questo si è inoltre aggiunta, negli ultimi mesi di emergenza sanitaria, la sfida connessa alla necessità di costruire delle relazioni con i ragazzi attraverso contatti “a distanza” e spesso mediati da uno schermo. Costruire una relazione, tra passato e futuro Anche quando ci sono dei familiari autenticamente preoccupati per loro, che cercano di sostenerli nel ricevere un aiuto esterno, quella spinta all’autonomia che è propria dell’adolescenza rischia di vanificare lo sforzo. Come possono gli operatori sociali entrare in relazione con questi ragazzi? Come possono sperare di costruire con loro un’autentica relazione d’aiuto che possa sostenerli nel fronteggiare la sfida del futuro, riparando alcuni eventi del loro passato? La storia di Marta Marta era una ragazza di 15 anni per la quale la scuola aveva segnalato al servizio una forte preoccupazione relativa ai suoi comportamenti: alternava infatti giornate in cui era particolarmente provocatoria nei confronti dei professori e dei compagni; ad altri in cui era quasi completamente apatica o, addirittura, interrompeva la frequenza delle lezioni. Quando ho incontrato Marta per la prima volta, ricordo che il colloquio presso il mio ufficio era durato pochissimo ed era stato costellato di insulti e parolacce nei miei confronti. Dopo quella volta Marta non si è più presentata ai colloqui e solo saltuariamente rispondeva alle mie telefonate. Non sapendo come poter entrare in relazione con lei, ho quindi iniziato, in accordo con la sua mamma e a fronte di un flebile assenso che mi aveva dato Marta telefonicamente, ad andare a casa sua per incontrarla. Sono stata a casa di Marta tutte le settimane per sei mesi. Inizialmente mi accoglieva in pigiama, con le tapparelle abbassate e la televisione accesa. Parlava molto poco e in alcuni momenti si arrabbiava molto e mi invitava ad uscire. Avevo quindi fatto un patto con lei: avrebbe potuto interrompere il colloquio nel caso in cui non si sentisse di portarlo avanti, ma avrebbe continuato a farmi salire in casa. Dopo circa due anni da quel primo incontro, Marta durante un colloquio in ufficio in cui mi raccontava della scuola superiore che stava frequentando e delle attività svolte presso il centro diurno, mi ha riportato quanto per lei fosse stato importante che io fossi andata a casa sua quando ci siamo conosciute. È stato faticoso entrare in relazione con Marta, aveva una storia complessa alle spalle e costruire dei rapporti di fiducia per lei era molto difficoltoso. Tante volte nei primi sei mesi di conoscenza con lei, mi sono ripetuta che avrei potuto segnalare in tribunale le mie preoccupazioni e proporre per lei degli interventi, ma sapevo che nessuno di questi avrebbe potuto sortire degli effetti senza che lei ci credesse. Uno spazio di ascolto autentico Lavorare con gli adolescenti significa riconoscerli, accoglierli in tutti gli aspetti (anche contraddittori) del loro carattere, offrire loro uno spazio di ascolto autentico, di vicinanza e accompagnarli nel vedere che gli adulti possono essere un supporto, un riferimento ed un sostegno, anche quando le loro storie li portano a pensarla diversamente. Bisogna essere operatori creativi nell’avere a che fare con i ragazzi adolescenti, uscire dagli schemi e immaginarsi delle strategie per costruire con loro una relazione che sia accogliente e che rispetti le loro esigenze. In questo periodo, anche l’utilizzo delle piattaforme per i contatti a distanza può diventare un’occasione per entrare in relazione con loro, in maniera differente dal passato. Raggiungerli nei loro spazi domestici, comunicare con loro rimanendo nella propria stanza o alla propria scrivania di casa, potrebbe rappresentare un’occasione per sperimentare vicinanza, senza essere intimoriti dalla possibilità che vedano il nostro animale domestico che ci si avvicina mentre parliamo. Tanti casi diversi Nel lavoro in Tutela Minori questa è forse una delle maggiori sfide che gli operatori sociali possono incontrare e che necessariamente richiede un notevole sforzo anche quando le energie e il tempo a disposizione sono pochi, mentre è alto il rischio di vivere dei fallimenti. Le modalità con cui le storie dei ragazzi arrivano ai Servizi sono estremamente differenziate: per alcuni l’autorità giudiziaria si sta occupando di valutare quanto i genitori siano in grado di prendersi cura di loro, per altri invece si sono aperti dei procedimenti di tipo amministrativo o penali, per comportamenti a rischio o per reati che hanno commesso; altri ancora invece arrivano su segnalazione delle scuole, dei vicini di casa, dei medici o dei servizi specialistici i quali, preoccupati per i loro comportamenti hanno ritenuto potesse essere necessario un supporto. Parola d’ordine: reciprocità Qualunque sia la cornice, rimane il fatto che gli operatori sociali siano chiamati ad avviare un lavoro che deve necessariamente coinvolgerli e renderli protagonisti dell’aiuto. Tanto è importante infatti che i minori vengano sempre coinvolti nei percorsi di presa in carico da parte dei professionisti, quanto risulta fondamentale che questo avvenga se i minori in questione sono degli adolescenti. Perché è solo attraverso la costruzione di una relazione di fiducia e fondata sulla reciprocità che con loro sarà possibile costruire un percorso che possano sentire come proprio e dal quale possano farsi coinvolgere.
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