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Educare alla pace è un lavoro quotidiano: ecco come si può fare in classe, concretamente

Due insegnanti di scuola primaria, Eva Pigliapoco e Ivan Sciapeconi, raccontano attività ed esperienze fatte in classe in questo periodo sul tema dell’educazione alla pace

Fino a poco tempo fa, quello della pace era percepito come un valore forse un po’ astratto, universalmente condivisibile certo, ma non prioritario da trattare a livello educativo. Con lo scoppio della guerra in Ucraina la sensibilità è aumentata, ci siamo resi conto un po’ tutti dell’importanza fondamentale della pace come condizione indispensabile di vita e abbiamo iniziato a riflettere maggiormente sulla necessità educativa rispetto a questo argomento.

Ma come si educa concretamente alla pace? E come si può fare educazione alla pace quando a parlare sono le armi? 

Ascoltiamo le voci di Eva Pigliapoco e Ivan Sciapeconi - insegnanti di scuola primaria, formatori e autori - che ci raccontano le esperienze che hanno fatto in classe in questo periodo.

Eva Pigliapoco, che quest’anno lavora con due classi quarte e due classi quinte alla scuola “Pascoli” di Modena, spiega così il concetto di “educazione alla pace”: «A volte a scuola si pensa di aver lavorato sulla pace perché si è dedicato del tempo a disegnare colombe, a colorare la bandiera della pace oppure a cantare o a scrivere dettati e poesie. Sono tutte attività buone, però perché possano incidere su bambini e bambine vanno inserite in un contesto di senso molto più ampio. Il contesto di senso è quello della quotidianità scolastica, che è fatta anche di fatica, come quando si deve scegliere come gestire i conflitti tra alunni e alunne, o quando si lavora per aiutarli a sviluppare il controllo delle loro reazioni emotive e a crescere emotivamente».
Che tipo di lavoro fate in classe da questo punto di vista? «A scuola utilizziamo da sempre il circle time: si tratta di un metodo che dà anche l’occasione per risolvere eventuali conflitti. Con il circle time tutti quanti, disposti in cerchio, prendono la parola a turno senza essere interrotti. Quando hanno finito il loro intervento, la passano al vicino. È un metodo che insegna a riflettere, a non rispondere d’impulso, ad ascoltare gli altri. Normalmente dedichiamo al circle time l’ultima ora della settimana. Un’altra attività che facciamo è quella dell’angolo della pace: in un angolo della classe, bambini e bambine che hanno litigato tra loro si trovano per risolvere insieme le loro conflittualità».
Come sono cambiate le attività in classe da quando è scoppiata la guerra in Ucraina in febbraio? «Nel circle time sono venute fuori diverse domande sulla guerra da parte di bambini e bambine. Alcuni di loro hanno detto come si sentivano. In queste situazioni il ruolo dell’adulto diventa più dialogico, fornisce il suo punto di vista, non sempre dà risposte certe. In classe abbiamo anche parlato nello specifico di questa guerra, con informazioni di tipo geopolitico. Come scuola, stiamo partecipando a una raccolta dei beni di prima necessità destinati alla popolazione ucraina».

Ivan Sciapeconi, che quest’anno segue due classi quinte alla scuola “Pascoli” di Modena, esprime così il suo punto di vista su come trattare l’argomento guerra-pace in classe: «Noi adulti per primi facciamo fatica a capire questa guerra e la guerra in generale perché la guerra è una cosa incomprensibile. Quello che dovremmo riuscire a fare, secondo me, è cercare di evitare la retorica, le semplificazioni e di dare una spiegazione che non abbiamo. Perché gli adulti devono restare affidabili. Una cosa molto semplice che possiamo fare, e che può portare a un recupero di serenità, è mostrarsi attivi, cioè stare dalla parte della solidarietà, darsi da fare per raccogliere dei beni di prima necessità. Far vedere che dietro questa guerra c’è la possibilità di uscita, di dare una mano in senso positivo».
Quanto può essere utile, con i bambini più grandicelli, dare informazioni su quanto sta accadendo? «I bambini hanno grandi capacità di comprensione, le spiegazioni vanno sempre bene, naturalmente tarate in base all’età. Però le spiegazioni dei fatti da sole non bastano, sia perché sono molto complesse, sia perché fanno rimanere nella tragedia. In queste situazioni bisogna dare speranza. La migliore educazione alla pace che possiamo fare è l’educazione alla cooperazione».

Sciapeconi riferisce di un’esperienza vissuta in aula quest’anno, in una classe quinta. «La guerra in Ucraina è iniziata quando qui da noi era Carnevale. I miei alunni di quinta si sono posti il problema: ma possiamo festeggiare mentre i nostri coetanei sono sotto le bombe? È partita una discussione, qualcuno ha detto che la guerra non è uno scherzo. Qualcun altro ha detto: “Proprio perché la guerra non è uno scherzo dobbiamo utilizzarlo come slogan di Carnevale” e così hanno organizzato dei flash mob e altre attività in cui hanno utilizzato questo slogan. Mi è parso un modo assolutamente positivo di rispondere a questa situazione».

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