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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Genitori e figli
Un momento importante nella relazione tra genitori e figli che può diventare occasione di crescita
Capiterà a tutti i genitori di chiedersi “quando?” e “come?” svelare ai bambini la verità su Babbo Natale. Inutile dire che se esiste la perfetta ricetta dei biscottoni gingerman da mettere sull’albero di Natale non esiste un’altrettanta ricetta per svelare il segreto più grande ai nostri bambini, sono troppe le variabili in gioco. Ma forse ancora una volta, coloro i quali si sono dedicati allo studio della psicologia dello sviluppo, ci possono dare degli spunti di riflessione da integrare con valori e modalità che sono diverse in ogni famiglia. Sembra chiaro, dalle ricerche fatte nell’ambito, che la maggior parte dei bambini scopre gradualmente e da solo la verità su Babbo Natale (circa il 54%). I bambini non sembranoriportare particolari sentimenti negativi dopo la scoperta e sembra che siano propensi a nutrire sentimenti di protezione nei confronti dei bambini che non sanno diventando quindi complici degli adulti nel mantenere il segreto. Dalle ricerche emerge che sono invece i genitori a riportare forti sentimenti negativi di tristezza e malinconia quando annunciano la realtà ai loro bambini. L’interpretazione di questo dato è strettamente di natura psicologica, per i genitori questo evento sembra infatti segnare la fine di un’epoca, la fine della fanciullezza e l’inizio del cammino che li condurrà ad affrontare assieme l’adolescenza prima, l’età adulta poi e quindi la trasformazione della famiglia e del ruolo genitoriale. La dottoressa Nadia Bruschweiler-Stern pediatra e psichiatra suggerisce di vivere il momento della scoperta come un’ennesima fase di confronto genitori-figli, in cui si rafforzano e si costruiscono legami e si condividono valori. La dottoressa consiglia di non negare la realtà quando i bambini pongono domande schiette e precise ma suggerisce di coinvolgerli nel ragionamento, chiedendo loro cosa pensano, quali sono gli indizi che hanno colto e che idea si sono fatti in merito. In questo modo il genitore può rendersi conto se si tratta solo piccoli dubbi e quindi sia magari il caso di posticipare la scoperta o se invece i ragionamenti siano davvero fondati e svelare il segreto risulti a quel punto la scelta più onesta che il bambino si aspetta.  Dire al bambino la verità, con delicatezza, coinvolgimento e intimità può rappresentare un momento significativo per la famiglia, un’opportunità per rafforzare sentimenti di fiducia reciproca. I genitori possono scegliere di accompagnare i propri bambini con il dialogo a vedere attraverso questa storia impossibile, scoprendo i valori che questi personaggi portano ogni anno nelle loro vite. Quell’uomo barbuto e cicciottello, quella donna vecchietta malandata rappresentano valori concreti come altruismo, sorpresa, complicità, importanza per le piccole cose e tempo per l’altro; valori che ci conducono oltre il consumismo che ci affanna permettendoci di trasformare il luccichio della magia in piccole azioni concrete. Con questa visione il Natale si arricchisce di quel senso di direzione che vogliamo poter dare alla nostra vita e alla nostra famiglia, nonostante la presenza di ostacoli che possono bloccarci.  Il benessere psicologico, secondo Winnicott, è legato alla capacità dell’individuo di vivere nel campo intermedio tra sogno e realtà, questo significa crescere in modo creativo e il mese di dicembre po' essere il pretesto per avvicinare anche chi sa al mondo dei sogni.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
L’impatto della nascita prematura del figlio sulla salute mentale dei genitori e sul funzionamento familiare dopo la dimissione ospedaliera del bambino
La nascita del bambino prima della 37^ settimana di gestazione è considerata prematura e i neonati prematuri sono classificati come estremamente pretermine (<28 settimane), molto pretermine (da 28 settimane a 31 settimane e 6/7 gg), moderatamente pretermine (da 32 settimane a 33 settimane e 6/gg) e tardo pretermine (da 34 a <36 settimane). In Italia nascono ogni anno oltre 25.000 prematuri (il 6,4% del totale), cioè bambini che vengono al mondo prima della 37^ settimana di età gestazionale.  Di questi il 75,6% è rappresentato da parti pretermine, dalla 34^ alla 36^ settimana di gestazione (Rapporto CeDAP 2021). Sia i bambini estremamente prematuri che quelli molto prematuri trascorrono mesi nelle Unità di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) e alcuni di loro vengono dimessi con la possibilità che, nel corso del tempo, riportino importanti disabilità fisiche e significative alterazioni dello sviluppo neurologico. Tutti aspetti che potrebbero cambiare la loro vita e quella del nucleo familiare di appartenenza. Partorire prematuramente e mettere al mondo un figlio gravemente malato è senz’altro uno degli eventi che più impattano sulle dinamiche familiari, nella vita dei genitori e sul successivo sviluppo emotivo ed affettivo del bambino. A tal riguardo, la maggior parte degli studi nell’ambito della prematurità ha messo in evidenza una diminuzione dello stress dei genitori nel corso del tempo, nonostante in alcuni casi emergano ancora elevati livelli di stress dopo 3-5 anni dalla dimissione TIN. Per esempio, i genitori che sperimentano livelli estremi di disagio durante la permanenza del bambino in TIN, dimostrano livelli di disagio più elevati a 2 anni dalla dimissione. Comunque, i maggiori elementi di rischio favorenti livelli più elevati di stress nei genitori con figli nati prematuramente sembrano essere un ridotto livello di istruzione delle madri, provenire come famiglia da contesti svantaggiati, la presenza di gravi problemi di salute riscontrabili nei bambini e la presenza di una nascita gemellare o più. La presenza nei genitori di elevati livelli di stress influenza negativamente anche la loro salute mentale. In particolare, i fattori di rischio di esiti avversi sulla salute mentale di genitori dei bambini prematuri risultano essere una precedente storia di depressione, la propria percezione di un ridotto attaccamento nei confronti del proprio bambino, uno scarso supporto sociale, l’aver avuto precedenti trattamenti di tipo psicologico, la presenza di ansia e l’età della mamma. Per quanto riguarda invece il carico assistenziale familiare, quest’ultimo risulta maggiore con la presenza di bambini con uno sviluppo neurologico compromesso dove tale carico aumenta ulteriormente con la presenza di vulnerabilità socioeconomiche del nucleo familiare. Nel contempo, la qualità di vita di questi genitori non sembra essere influenzata dal livello di disabilità del bambino, dai suoi bisogni di salute e dai risultati scolastici, ma dalla sua salute mentale, dal suo livello di felicità e dalla capacità dello stesso bambino di riuscire a relazionarsi adeguatamente con i propri pari. Diversi studi sul funzionamento familiare e sulla qualità delle relazioni (in considerazione, per esempio, del tasso di divorzio e del livello di soddisfazione coniugale) non hanno invece riscontrato differenze tra genitori di bambini nati pretermine e quelli nati a termine. Alcune ricerche hanno addirittura rilevato un impatto positivo dell’esperienza di prematurità sulla famiglie, rilevando quanto in alcuni contesti l’esperienza sembra avvicinare in maniera importante i diversi membri del nucleo, ridurre i conflitti in seno alla famiglia e favorire una maggiore organizzazione dove però - in particolare – sembra emergere la presenza di un membro che tende a prendere la maggior parte delle decisioni familiari. Questo elaborato è stato scritto prendendo spunto dall'articolo scientifico: Legge N, Popat H, Fitzgerald D. Examining the impact of premature birth on parental mental health and family functioning in the years following hospital discharge: A review. Journal of Neonatal-Perinatal Medicine, 2023;16(2):195-208. doi: 10.3233/NPM-221107
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Un progetto di ricerca e intervento psicologico di gruppo per aiutare le persone che hanno ricevuto la diagnosi di Sclerosi Multipla ad affrontare meglio questa situazione
Gli interventi psicologici rivolti ai malati di sclerosi multipla, in particolare ai neo-diagnosticati, sono in genere molto carenti in Italia; più in generale, sono carenti e spesso inesistenti nei riguardi di tutti i malati cronici. Questa mancanza deriva in primo luogo dalla frattura culturale, non ancora colmata, tra corpo e psiche, che caratterizza la formazione del personale sanitario. Ne deriva che strutture avanzatissime sul piano della cura di una malattia ignorano completamente gli aspetti psicologici, come se questi non riguardassero anche il trattamento della malattia che colpisce il corpo della persona: basti pensare all’adesione alle terapie, strettamente connessa con le modalità di adattamento psicologico. La seconda ragione, intrecciata con la precedente, risiede nella cronicità. Manca la consapevolezza che la malattia cronica, che accompagna il paziente per tutta l’esistenza, coinvolge in modo serio l’intera vita e quindi la totalità della persona e delle sue relazioni sociali. Non c’è una fase acuta in cui il corpo deve venire trattato, mentre la persona torna in seguito a fare la vita di prima, chiudendo una parentesi temporanea che lascia pochi strascichi o anche nessuno. C’è, al contrario, una condizione permanente che, nel caso della sclerosi multipla, tende a un progressivo peggioramento, con pesanti conseguenze sull’intera esistenza.   Presupposti e obiettivi del progetto “SM - Stare Meglio” Il progetto “SM - Stare Meglio” è nato dalla constatazione che gli interventi psicologici sono necessari ma nello stesso tempo purtroppo assenti. Necessari perché la malattia dura tutta la vita e pone una sfida enorme lungo gli anni. Necessari perché, in particolare dopo la diagnosi, le persone devono trovare strumenti per affrontare al meglio questa situazione senza inutili sofferenze aggiuntive, senza perdere tempo, imparando le strategie migliori, imboccando un percorso di sviluppo personale. Non tutto è risolto per sempre, perché la malattia evolve nel tempo e accompagna lo svolgersi della vita, ma è un inizio che pone buone basi per un buon adattamento anche nel futuro. Dall’impostazione teorica che considera la malattia una grande sfida non normativa allo sviluppo personale deriva, a livello pratico, la necessità di proporre l’intervento psicologico a tutti coloro che hanno avuto da poco la diagnosi di sclerosi multipla. L’obiettivo è di far diventare questo tipo di intervento prassi normale nella proposta terapeutica che un centro dedicato alla sclerosi multipla offre ai suoi pazienti, insieme alle terapie farmacologiche. Siamo ben consapevoli che questo non è facile, per le molte resistenze culturali e istituzionali da parte della sanità, di cui spesso la tanto invocata mancanza di risorse economiche non è che un paravento. Vi sono poi anche le resistenze che provengono dai pazienti stessi. Ma è un obiettivo irrinunciabile, in una situazione in cui non solo la malattia cronica in genere è in aumento, ma nello specifico le diagnosi di sclerosi multipla sono sempre più precoci e numerose, anche per una maggiore precisione diagnostica. La strada è certamente lunga; con il libro “Vivere con la sclerosi multipla” abbiamo voluto dare il nostro contributo per raggiungere un obiettivo difficile ma non impossibile. Non ci si può continuare a illudere di curare veramente i malati ignorando la loro psiche.   Mettere al centro la vita della persona malata Il progetto è fondato su una forte concezione teorica dello sviluppo come possibilità di crescita e adattamento che riguarda tutto il ciclo della vita dell'individuo, anche nelle situazioni critiche fortemente sfidanti come la malattia; in questo processo di sviluppo l’individuo svolge un ruolo attivo e non meramente reattivo. Come conseguenza di questa impostazione, il progetto si è proposto di prendere in considerazione aspetti centrali della vita delle persone: aspetti che riguardano qualunque persona, anche in condizioni di buona salute, ma che acquistano nella malattia cronica una rilevanza particolare. Non era nelle intenzioni focalizzare l’attenzione su aspetti settoriali, per quanto importanti; al contrario, si volevano affrontare i temi di fondo che riguardano la capacità del malato cronico, nel nostro caso del malato di sclerosi multipla, di fare fronte in modo positivo — di sviluppo e non di regressione, di adattamento e non di disadattamento — a una condizione esistenziale di malattia che lo accompagnerà per tutta la vita. Gli aspetti più particolari sono sempre stati considerati all’interno di un discorso più ampio; ad esempio, la gestione dei sintomi è stata esaminata nel quadro della promozione dell’autoefficacia nel perseguimento di obiettivi personali significativi, in grado di dare senso alla vita e di farla sentire degna di essere vissuta.  In questa prospettiva, l’intervento prende in considerazione la globalità dell’esperienza della persona nella sua unità psicofisica, fatta di corpo e di psiche, in relazione con gli altri. Ciò significa, anzitutto, considerare il corpo, le emozioni, la cognizione, nelle loro reciproche interazioni. Vengono di conseguenza proposte attività, come la respirazione e il rilassamento, che partono dal corpo in un percorso «dal basso verso l’alto», per migliorare lo stato psichico modificando quello fisiologico. Si lavora nel contempo sulla modificazione degli stati emotivi e sulla gestione dello stress attraverso il cambiamento delle strategie cognitive di interpretazione della realtà, in un percorso «dall’alto verso il basso», vale a dire dalla psiche alle emozioni e agli stati fisiologici. Ancora, si prendono in considerazione le relazioni interpersonali e le strategie di buona comunicazione con gli altri, in particolare con il personale sanitario e i familiari.  L’intervento non si limita a questi aspetti, pur importantissimi; esso si focalizza principalmente, e in via preliminare, sull’identità e su come perseguire in modo efficace una realizzazione e uno sviluppo personali che diano senso alla propria vita di persona malata.  Sono quindi gli aspetti esistenziali che vengono messi al centro di questo intervento, nella convinzione che dare un senso alla propria presenza nel mondo sia esigenza fondamentale di ogni essere umano, ancora più pressante quando la vita è profondamente sconvolta dalla malattia. Questi aspetti talvolta sono considerati erroneamente al di là dell’ambito di competenza dell’intervento psicologico, in quanto filosofici o «spirituali»; al contrario, essi riguardano ogni essere umano e sono al centro del nostro progetto di intervento. In esso, anche l’uso di strategie di promozione dell'autoefficacia viene inserito all’interno della ricerca di nuovi obiettivi significativi, capaci di ridare senso alla propria vita e di renderla degna di essere vissuta.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
Dal racconto alla scrittura, dal disegno al gioco: il potere delle storie nei contesti clinici ed educativi
Diversi autori, tra cui Jerome Bruner, hanno evidenziato quanto il racconto sia un organizzatore della realtà e come esista una dimensione narrativa della mente. Fin dall’infanzia la conoscenza di sé si struttura sotto forma narrativa; l’identità stessa può essere intesa come una storia costruita su sequenze, attribuzione di significati, tentativi di trasformazione evolutiva dei rapporti tra sé e il modo, previsione del possibile e del futuro. I bambini, le bambine e gli/le adolescenti, così come gli adulti, ricorrono alla narrazione per dare senso alle loro esperienze, per renderle “vivibili”, per condividere bisogni e difficoltà che incontrano nel loro percorso di crescita. Nel lavoro clinico con bambine/i e adolescenti la narrazione rappresenta un elemento importante per l’emergere di esigenze affettive e bisogni emotivi, oltre che per dare significato alle esperienze di vita nella cornice della storia di ciascuno/a. Per facilitare il processo narrativo in terapia si possono utilizzare diverse modalità, che variano in base all’età del bambino o della bambina e che possono essere adattate alla situazione specifica. Possiamo ricorrere al racconto libero, alla scrittura, al disegno, al gioco (Agosti e Seassaro, in Luberti e Grappolini, 2021), fino all’utilizzo delle fiabe per far emergere analogie e differenze con la propria storia (Bertaccini e Berti, in Bertacchi, Mammini e Anatra, 2022). I benefici dell’approccio narrativo nell'affrontare eventi traumatici L’approccio narrativo si dimostra utile anche nell’affrontare ed elaborare esperienze traumatiche. In un contesto di cura, infatti, è importante dedicare spazio e tempo alla ricostruzione narrativa degli eventi traumatici per due motivi principali. In primo luogo, sistemare e riorganizzare i vari aspetti del ricordo rappresenta già di per sé un processo elaborativo che consente a bambini/e e ragazzi/e di intervenire attivamente nella rilettura della propria autobiografia.  In secondo luogo, il racconto consente di riesporsi al trauma senza esserne ri-traumatizzati, attivando un progressivo processo di desensibilizzazione, scollegando i pensieri e i ricordi dalle emozioni negative soverchianti di paura, rabbia, colpa, ansia (Bertaccini e Berti, in Bertacchi, Mammini e Anatra, 2022). In questo modo le esperienze traumatiche possono essere ridefinite e trovare un significato nella propria storia, ridefinendosi all’interno di una concezione di Sé più ampia e positiva. Anche in un contesto educativo, ad esempio per interventi a scuola, l’utilizzo di un approccio narrativo può costituire il punto di partenza per un lavoro efficace con bambini/e ragazzi/e, in cui sperimentare le aree emozionali critiche dentro alla simbologia del gioco, alle metafore delle favole o nella narrazione di sé.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
Come impostare un percorso psicoterapeutico efficace con le neo-mamme
Come terapeuti ci troviamo sempre più a rispondere alla domanda di cura di donne che stanno affrontando una gravidanza o la fase del postparto e della crescita del loro bambino e si sentono sofferenti, in ansia, talvolta in un tunnel, angosciate e impaurite dai loro sintomi. Non basta essere psicoterapeute/i madri/padri per saper curare una donna che sta attraversando un momento di crisi in epoca perinatale. La comprensione e l’empatia che possono derivare “dall’esserci passate/i” non è sufficiente. Serve invece preparazione, studio, aggiornamento, supervisione perché in questo ambito è facile essere investiti dalle aspettative di cura e di aiuto di una donna che si sente disperata. È facile in questa situazione dimenticare le regole essenziali della psicoterapia che hanno a che fare con il setting e con la gestione delle potenti emozioni che circolano quando si entra nel mondo della perinatalità. Gravidanza, parto, postparto sollecitano infatti emozioni profonde e primitive, memorie esplicite ed implicite anche nei terapeuti che a loro volta sicuramente sono stati figli e in alcuni casi genitori. È importante tenere conto che le donne che vengono a chiederci aiuto stanno attraversando un momento di snodo della loro vita, madri si diventa e ci si resta per sempre qualsiasi cosa accada….è un cambiamento di “paradigma” che avviene nella vita della donna che comporta grandi rimaneggiamenti biologici, emotivi, affettivi cognitivi, comportamentali e sociali. Vengono fortemente sollecitati i sistemi di attaccamento e accudimento risvegliando emozioni profonde legate a come la donna stessa è stata accudita. Quando la donna si rivolge a noi in gravidanza dobbiamo tenere presente che si sta confrontando con l’emergere di emozioni, memorie, sensazioni che spesso si caratterizzano per la ambivalenza che sollecitano. L’ambivalenza è il sale delle vita affettiva e relazionale, le relazioni d’amore propongono sempre vissuti ambivalenti da gestire. La gestione dell’ambivalenza affettiva verso il feto prima e poi verso il bambino ci dà un primo indicatore di potenziali risorse e difficoltà in questa delicata fase di passaggio. Quando invece ci troviamo in prossimità del parto e nel periodo ad esso successivo, è importante considerare che nella donna si attivano echi di vissuti inerenti la separazione e l’intimità fisica ed affettiva da costruire con un essere che è totalmente in balia di un adulto, da cui dipende per la sua sopravvivenza fisica ed affettiva. La responsabilità è enorme e per alcune l’essere prima due in un corpo solo (simbiosi gravidica) e poi separati fisicamente ma in simbiosi affettiva (simbiosi postparto) può essere destabilizzante dal punto di vista emotivo, affettivo. In questo senso durante la gravidanza e nel postparto anche le donne che pensavano di sentirsi “pronte” per la maternità sono spesso sorprese, o addirittura sopraffatte, dall'ondata di emozioni e ricordi stimolati dalla nascita e dai requisiti necessari per prendersi cura di un bambino. Psicoterapia perinatale: un’opportunità di crescita La psicoterapia nel periodo perinatale offre alle donne un'opportunità eccezionale per rivedere i “nodi” della propria storia. Questi nodi tendono a “venire al pettine“ nel passaggio evolutivo che è il diventare genitori. Si aprono delle “finestre” che danno una grande possibilità progressiva e di potenziale crescita personale. Mentre la storia di queste due vite si sviluppa e si interseca, siamo alla confluenza di ricordi e relazioni, vecchie e nuove, con tutte le opportunità di ripetizione o riparazione È un’occasione per comprendere meglio come si funziona, come ciò è legato alla propria storia di figli (storia di attaccamento) che si riattualizza attraverso l'attuale relazione con il nuovo bambino, partner, famiglia allargata e amici... Soprattutto quando la donna inizia a prendersi cura del suo bambino e tenta di autoregolarsi, la storia delle sue origini viene rappresentata e incarnata mentre i ricordi impliciti ed espliciti vengono rivelati nei suoi pensieri, sentimenti, nel comportamento e nel corpo, evidenziando le storie di attaccamento sicuro, ansioso, ambivalente, disorganizzato. Proprio queste specificità perinatali offrono a noi terapeuti la possibilità, man mano che l’alleanza terapeutica si consolida e la terapia va avanti, di far cogliere la potente potenzialità trasformativa della terapia nel periodo perinatale e come ciò potrà avere un impatto sulla sua vita intima, ma anche sulla vita del bambino e sui rapporti di coppia genitoriale e coniugale e in generale sull’intera famiglia. Questo aspetto può essere un elemento motivante da non sottovalutare se utilizzato nei giusti modi e tempi. Come terapeuti dobbiamo avere ben presente che in questa particolare fase di vita nella terapia “abbiamo il vento in poppa” e possiamo navigare nel mare della psicoterapia più agevolmente grazie alla forte permeabilità psichica che caratterizza questo periodo. Tale permeabilità è una risorsa, ma può proporci anche diverse criticità cliniche. Psicoterapia perinatale: alcune criticità Se è vero infatti che questo è un momento propizio per iniziare una psicoterapia, lavorare terapeuticamente con le donne nel periodo perinatale presenta difficoltà legate tra gli altri fattori al setting e alle caratteristiche psicologiche di chi poi sviluppa dei sintomi. Il terapeuta può essere messo a dura prova da questo tipo di pazienti per l’alto livello di ansietà che spesso sfocia in vere e proprie crisi di panico o di angoscia, per le caratteristiche di perfezionismo che spesso caratterizzano le donne che stanno male nel periodo perinatale, e per l’aspetto luttuoso difficile da elaborare che connota il vissuto di alcune donne in questo passaggio evolutivo. Per le donne che durante questa fase di transizione stanno male il vissuto spesso è di fallimento e di non capacità, rispetto ad un’immagine di se come donna efficiente, capace organizzata e che ha “tutto sotto controllo”. Spesso lo scollamento tra aspettative e realtà è ampio. La donna che sta male nel periodo perinatale è spiazzata, è sopraffatta dall’emergere di una parte di sé poco conosciuta/misconosciuta incarnata dalla parte più fragile di sé che prende il sopravvento. Questa parte “fragile” di sé spesso è stata soffocata difensivamente dalla parte adultizzata, iper-razionale e rigida che lascia poco spazio alle proprie debolezze. Spesso sono donne con una spiccata propensione al perfezionismo, poco inclini a chiedere aiuto e ad accettarlo e questo può essere un ostacolo ad una solida alleanza di lavoro. Sarebbe invece importante una individuazione precoce del malessere ed una altrettanta sollecita presa in carico, che può iniziare a partire dalla gravidanza, quando il malessere si evidenzia già in questa fase. Invece spesso le donne arrivano dal clinico quando i sintomi sono diventati ingestibili e l’angoscia e l’ansia sono divenuti insostenibili. Questo può creare una situazione di urgenza/emergenza che può porre difficoltà ed indurre il clinico a sentirsi allarmato e sollecitato a fare, anziché poter prendersi il tempo per riflettere, contenere, capire. Il clinico deve poter tollerare la forte ansia/angoscia che talvolta circola nella relazione con queste pazienti. È importante ricordare che il nostro compito con queste donne è quello di aiutarle gradualmente ad entrare in contatto con le parti di sé e laddove si può, esplorandone insieme con cautela e gradualità la storia delle loro origini. Il compito può essere arduo e le insidie si dispiegano al terapeuta dalla fase iniziale della presa in carico e durante il percorso psicoterapeutico. Questo ed altri aspetti di specificità e criticità suggeriscono al clinico di procedere con attenzione, competenza ed umiltà In generale possiamo però dire che un approccio sensibile, empatico ma anche attento alle insidie tipiche del lavoro con queste pazienti, può offrire un immenso sostegno e sollievo a una neo mamma. Il rapporto con il terapeuta infatti modella, mette in parallelo e mette in atto il processo stesso che la madre deve intraprendere con il suo bambino: ricerca, sintonizzazione e coinvolgimento, in una relazione che fornisca sicurezza, coerenza, convalida, accettazione e crescita. Con il reciproco coinvolgimento, nel qui e ora, di un terapeuta adeguatamente formato, la neomamma può esplorare e comprendere le sue risposte ai cambiamenti della gravidanza e del post parto e la sua storia relazionale, mentre viene supportata, incoraggiata e normalizzata nel soddisfare i bisogni relazionali suoi e del suo bambino.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
Facciamo il punto sul nuovo metodo di trattamento transdiagnostico basato sul concetto di apertura radicale.
Che cos’è la RO DBT? Per quali disturbi è indicata la RO DBT? Quali sono i principi della RO DBT? Su quale modello si basa la RO DBT? Quali sono gli obiettivi della RO DBT? Quali sono le fasi del trattamento RO DBT?     Che cos’è la RO DBT? La RO DBT (Radically Open Dialectical Behaviour Therapy) è un nuovo metodo di trattamento transdiagnostico che si basa sul concetto dell’apertura radicale. L’apertura radicale è sia un modo di comportarsi, sia uno stato della mente. La RO DBT ritiene che il benessere emotivo nasce dalla compresenza di apertura, flessibilità e connessione sociale. Questo modo di comportarsi favorisce le relazioni perché modella l’umiltà e la disponibilità ad imparare da ciò che il mondo può offrire. L’apertura mentale richiede di sacrificare le convinzioni e autocostruzioni a cui siamo fortemente ancorati, processo che può rivelarsi alquanto doloroso.     Per quali disturbi è indicata la RO DBT? Il target principale di questo trattamento, in termini di tipologie di disturbi, è uno spettro di disturbi cronici caratterizzati da eccessiva inibizione o ipercontrollo, come l’anoressia nervosa, i disturbi ossessivo-compulsivi e la depressione refrattaria.     Quali sono i principi della RO DBT? La RO DBT presenta analogie e differenze con le terapie che l’hanno preceduta ed è supportata da vent’anni di esperienza clinica e di ricerca traslazionale. I principi fondamentali su cui si basa sono: Siamo tribali per natura: la nostra specie ha sviluppato capacità per la formazione di legami sociali duraturi, condivisione di risorse e cooperazione in gruppi o tribù, a fini di sopravvivenza; Il benessere psicologico è supportato da tre fattori compresenti: l’apertura (ricettività), la flessibilità e la connessione sociale. Apertura radicale rappresenta la confluenza di queste tre caratteristiche e costituisce il core della RO DBT; L’importanza del social signaling: si ritiene che i deficit nella segnalazione prosociale nei disturbi da ipercontrollo siano fonte primaria della solitudine dei pazienti; Differenze genotipiche e fenotipiche tra i gruppi di disturbi necessitano diversi approcci di trattamento; L’ipercontrollo è un paradigma multidimensionale che prevede le complesse transazioni tra aspetti biologici, ambientali e stili individuali di coping; Nei disturbi da ipercontrollo, i deficit e gli eccessi biocomportamentali irrigidiscono le risposte comportamentali riducendo la capacità di adattamento flessibile alle condizioni ambientali in continuo mutamento; Ci vuole forza di volontà per disattivare la forza di volontà; Il presupposto dell’apertura radicale è che non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo; Il segreto per uno stile di vita sano è coltivare una sana messa in discussione; L’apertura radicale e l’auto-indagine sono esperienziali e non possono essere coltivate esclusivamente su base intellettuale: i terapeuti in primis devono esercitare l’apertura radicale per poterla modellare per i pazienti.     Su quale modello si basa la RO DBT? La RO DBT trova fondamento nella teoria biosociale per i disturbi da ipercontrollo. Si parla di ipercontrollo maladattivo come risultato della convergenza di tre fattori, natura, cultura e coping, e coinvolge sia deficit percettivi (es. ricettività al cambiamento), sia deficit regolatori (es. espressione delle emozioni non genuina o inibita nel contesto appropriato). In questi casi lo stile di coping socio-emotivo adottato è rigido, evitante il rischio e distaccato/vigile, limitante delle opportunità di apprendimento da parte dei rinforzi sociali positivi.     Quali sono gli obiettivi della RO DBT? Gli obiettivi principali della RO DBT sono: identificazione collaborativa di terapeuta e paziente dei deficit di social signaling e dei fattori che impediscono al soggetto di vivere secondo i suoi valori e realizzare i propri obiettivI; riduzione dei deficit di social signaling nel paziente ipercontrollato e l’aumento di apertura, flessibilità e connessione sociale, perseguiti secondo la seguente gerarchia: Riduzione dei comportamenti potenzialmente letali Riparazione delle rotture dell’alleanza risoluzione dei deficit di social signaling legati a tipici modelli o schemi comportamentali ipercontrollati       Quali sono le fasi del trattamento RO DBT? Il protocollo di trattamento ambulatoriale RO DBT consiste in sessioni settimanali di terapia individuale della durata di un’ora e in concomitanti skills training settimanali di apertura radicale, per una durata complessiva di circa trenta settimane. Le skills training vengono di norma iniziate durante la terza settimana di RO DBT individuale. A seconda dei casi, è incoraggiata la consultazione telefonica con i terapeuti al di fuori del normale orario di lavoro, cosa preziosa per creare senso di connessione nei soggetti distaccati o socialmente isolati, più che per i pazienti ipercontrollati. A seconda delle necessità, è possibile estendere il numero di sedute individuali o ripetere sedute di skills training. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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