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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Psicologia
Il CIGI è un metodo da utilizzare in contesti residenziali psichiatrici che si è mostrato efficace nel ridurre l’intensità assistenziale e sviluppare forme di autonomia personale
Il CIGI (Combined Individual and Group Intervention) è un intervento disegnato per un uso nei contesti residenziali psichiatrici a diversa intensità assistenziale che segue le indicazioni dell’OMS sulla riabilitazione psicosociale e sull’empowerment delle persone con disturbi mentali. L’OMS definisce la riabilitazione psicosociale “un processo orientato al raggiungimento di un livello ottimale di funzionamento indipendente in persone con disturbi mentali” che aiuta una persona a “saper scegliere dove vivere, lavorare, studiare con il minimo aiuto professionale, tenuto conto del livello di partenza” e che prevede “sia un lavoro di miglioramento delle abilità personali sia cambiamenti ambientali”. Questi principi sono stati ripresi successivamente nel documento OMS sull’empowerment, nel quale viene ribadito il valore terapeutico della partecipazione dell’utente alle decisioni che riguardano la propria vita, la propria salute e la scelta degli obiettivi da raggiungere. In linea con le indicazioni dell’OMS, il CIGI promuove la partecipazione delle persone con disturbi mentali all’autogestione di una parte dell’intervento riabilitativo, combinando un lavoro con il singolo utente e un intervento di gruppo sul contesto di riferimento. Nel caso di persone che sono ospiti di strutture residenziali, il contesto di riferimento è rappresentato principalmente dagli altri ospiti con disturbi mentali e dallo staff. Le strutture per persone con disturbi mentali in Italia In Italia, in base ai dati del Sistema Informativo Salute Mentale vi sono 2.346 strutture residenziali - pubbliche o private in convenzione con i Dipartimenti di Salute Mentale - nelle quali sono ospitate in totale 32.515 persone. In queste strutture, che ospitano fino a 20 persone con disturbi mentali e bassa autonomia funzionale per una durata media di 816 giorni, possono svilupparsi sia relazioni facilitanti il percorso riabilitativo che situazioni conflittuali, di fatto stressanti sia per gli ospiti che per gli operatori. La presenza continua di personale – il 78% delle persone si trova in strutture ad alta intensità assistenziale con operatori presenti h24 – può in alcuni casi ostacolare l'acquisizione da parte degli ospiti di quelle abilità utili nella vita quotidiana e a lungo andare può rallentare il passaggio a soluzioni abitative più indipendenti e il ritorno a casa degli utenti. Inoltre, lo scetticismo degli operatori in merito alle capacità di persone con disturbi mentali di lunga durata di partecipare a programmi riabilitativi intensivi può portare le equipe a coinvolgere poco gli ospiti nella scelta di obiettivi individuali, aumentando il rischio di attività passivizzanti. Caratteristiche principali del CIGI Il CIGI parte dalla convinzione che anche persone con disturbi mentali associati ad alto livello di compromissione nelle abilità di vita indipendente possano diventare più autonome e raggiungere obiettivi personali importanti dal loro punto di vista, se messe nelle condizioni di decidere su aspetti rilevanti della propria vita ed essere parte attiva nel contesto di riferimento. L’intervento si sviluppa su due livelli da svolgersi contemporaneamente: un livello individuale, che coinvolge il singolo utente con un operatore di riferimento, e un livello di gruppo, che prevede incontri tra ospiti e operatori, riunioni di soli ospiti autogestite e riunioni organizzative/di revisione tra pari dell’equipe. Le principali componenti del CIGI derivano a loro volta da interventi di provata efficacia. La parte individuale è stata sviluppata a partire dal VADO – Valutazione di Abilità e Definizione di Obiettivi (Morosini et al., 1998), mentre la parte di gruppo si basa anche su alcune componenti dell’intervento psicoeducativo familiare (Falloon, 1993). Gli effetti dell’intervento, utilizzato in strutture residenziali e gruppi appartamento del DSM di Modena (8 strutture, N=55) per due anni sono stati molto positivi in termini di riduzione della disabilità e dell’intensità assistenziale richiesta rispetto a quanto osservato in un gruppo di controllo che riceveva un intervento riabilitativo standard (5 strutture, N=41). In particolare, rispetto all’inizio dell’intervento, il 31% delle persone in strutture CIGI vs. 0 persone in strutture di controllo dopo due anni risiedevano in strutture a più bassa intensità assistenziale o erano tornate a vivere a casa propria. Anche esperienze successive di uso nella routine – seppure non documentate in modo sistematico – confermano l’utilità dell’approccio nei contesti residenziali e semi-residenziali. Il libro sul CIGI Il manuale “CIGI - Intervento riabilitativo combinato nei contesti residenziali psichiatrici” è centrato sullo sviluppo di programmi riabilitativi empowerment-oriented in contesti residenziali ad alta e media intensità e fornisce inoltre indicazioni per un uso del CIGI in contesti abitativi a intensità assistenziale bassa o quasi assente e nei centri diurni. Una parte specifica del manuale, inoltre, è dedicata alla formazione e all’auto-formazione delle equipe all’intervento. Nel manuale inoltre sono riportati tutti gli strumenti necessari per realizzare l’intervento, liberamente scaricabili dal sito della Erickson utilizzando un codice incluso nel manuale. Completa il volume un’Appendice con esempi d’uso degli strumenti e testimonianze di operatori e utenti. L’intervento CIGI può risultare utile per ripensare gli interventi e le condizioni abitative da garantire alle persone con disturbi mentali, soprattutto a quelle con più bassa autonomia funzionale, e per facilitare la transizione a forme di residenzialità più leggera o del tutto autonoma.
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Search-ME - Erickson 2 Genitori e figli
Un momento importante nella relazione tra genitori e figli che può diventare occasione di crescita
Capiterà a tutti i genitori di chiedersi “quando?” e “come?” svelare ai bambini la verità su Babbo Natale. Inutile dire che se esiste la perfetta ricetta dei biscottoni gingerman da mettere sull’albero di Natale non esiste un’altrettanta ricetta per svelare il segreto più grande ai nostri bambini, sono troppe le variabili in gioco. Ma forse ancora una volta, coloro i quali si sono dedicati allo studio della psicologia dello sviluppo, ci possono dare degli spunti di riflessione da integrare con valori e modalità che sono diverse in ogni famiglia. Sembra chiaro, dalle ricerche fatte nell’ambito, che la maggior parte dei bambini scopre gradualmente e da solo la verità su Babbo Natale (circa il 54%). I bambini non sembranoriportare particolari sentimenti negativi dopo la scoperta e sembra che siano propensi a nutrire sentimenti di protezione nei confronti dei bambini che non sanno diventando quindi complici degli adulti nel mantenere il segreto. Dalle ricerche emerge che sono invece i genitori a riportare forti sentimenti negativi di tristezza e malinconia quando annunciano la realtà ai loro bambini. L’interpretazione di questo dato è strettamente di natura psicologica, per i genitori questo evento sembra infatti segnare la fine di un’epoca, la fine della fanciullezza e l’inizio del cammino che li condurrà ad affrontare assieme l’adolescenza prima, l’età adulta poi e quindi la trasformazione della famiglia e del ruolo genitoriale. La dottoressa Nadia Bruschweiler-Stern pediatra e psichiatra suggerisce di vivere il momento della scoperta come un’ennesima fase di confronto genitori-figli, in cui si rafforzano e si costruiscono legami e si condividono valori. La dottoressa consiglia di non negare la realtà quando i bambini pongono domande schiette e precise ma suggerisce di coinvolgerli nel ragionamento, chiedendo loro cosa pensano, quali sono gli indizi che hanno colto e che idea si sono fatti in merito. In questo modo il genitore può rendersi conto se si tratta solo piccoli dubbi e quindi sia magari il caso di posticipare la scoperta o se invece i ragionamenti siano davvero fondati e svelare il segreto risulti a quel punto la scelta più onesta che il bambino si aspetta.  Dire al bambino la verità, con delicatezza, coinvolgimento e intimità può rappresentare un momento significativo per la famiglia, un’opportunità per rafforzare sentimenti di fiducia reciproca. I genitori possono scegliere di accompagnare i propri bambini con il dialogo a vedere attraverso questa storia impossibile, scoprendo i valori che questi personaggi portano ogni anno nelle loro vite. Quell’uomo barbuto e cicciottello, quella donna vecchietta malandata rappresentano valori concreti come altruismo, sorpresa, complicità, importanza per le piccole cose e tempo per l’altro; valori che ci conducono oltre il consumismo che ci affanna permettendoci di trasformare il luccichio della magia in piccole azioni concrete. Con questa visione il Natale si arricchisce di quel senso di direzione che vogliamo poter dare alla nostra vita e alla nostra famiglia, nonostante la presenza di ostacoli che possono bloccarci.  Il benessere psicologico, secondo Winnicott, è legato alla capacità dell’individuo di vivere nel campo intermedio tra sogno e realtà, questo significa crescere in modo creativo e il mese di dicembre po' essere il pretesto per avvicinare anche chi sa al mondo dei sogni.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Le condizioni per un buon lavoro psicoterapeutico con pazienti LGBTQIA+, una popolazione che tende ad accedere meno ai servizi di cura in ambito medico e psicologico
La scelta di intraprendere un percorso terapeutico non è mai semplice. Un vortice di paure, pregiudizi, incognite porta le persone a chiedere aiuto anche molto tempo dopo l’insorgere del problema; in alcuni casi, una richiesta di aiuto non arriva mai. Questo è ancora più vero per la popolazione LGBTQIA+ poiché al disagio psicologico si associa la paura del giudizio, lo stigma, la minaccia di una rivittimizzazione, il timore di dover «confessare» qualcosa che può essere visto o, peggio ancora, viene vissuto come sbagliato. Non è possibile far prescindere un buon intervento terapeutico dalla preparazione del clinico circa le caratteristiche specifiche della popolazione LGBTQIA+ che, infatti, si contraddistingue per aspetti socio-culturali e problematiche specifiche: per esempio il coming out, una maggiore vulnerabilità a incorrere in alcune malattie fisiche (come per esempio malattie cardiovascolari, polmonari o oncologiche), la possibile presenza di episodi di vita anche traumatici, legati all’omofobia e al bullismo, la mancanza di esempi sociali rispetto alla vita di coppia omosessuale o bisessuale, la mancanza di conoscenze sulla sessualità gay o lesbica. Le persone che appartengono a una minoranza sessuale, infatti, presentano specifiche caratteristiche individuali, culturali, sociali, interpersonali, religiose, politiche, che non possono essere sovrapposte a quelle della popolazione eterosessuale. A noi piace pensare che il terapeuta che prende in carico la popolazione LGBTQIA+, oltre a essere un professionista della salute mentale, debba anche essere in qualche modo un antropologo e un sociologo. Solo così potrà interpretare l’esperienza personale del paziente nella sua complessità e unicità e fare della terapia un successo. Perciò la questione dell’omosessualità va studiata in tutte le sue implicazioni e sfaccettature, non solo ai fini terapeutici ma anche come indispensabile momento di formazione personale per il terapeuta stesso. Molti specialisti, infatti, sostengono di essere liberi da certi condizionamenti culturali legati all’omosessualità e più in generale all’orientamento sessuale, ma è possibile che alcuni di questi emergano inconsapevolmente nel lavoro terapeutico. Come insegniamo ai nostri allievi della scuola di specializzazione in psicoterapia, ogni terapeuta dovrebbe prendersi del tempo per guardarsi dentro e riconoscere la possibile presenza di stereotipi o pregiudizi omofobici (spesso normo accettati e per questo non chiaramente manifesti alla propria consapevolezza). Dovrebbe prendersi del tempo per lavorare sui propri possibili pensieri, credenze, emozioni, o atteggiamenti di chiusura verso un mondo che le principali fonti di trasmissione culturale ci hanno descritto come sbagliato, marginale, negativo. Qui sotto si trovano alcune domande che speriamo possano essere da guida per implementare l’autoriflessione. Domande utili per i terapeuti con pazienti LGBTQIA+ Credi che l’orientamento sessuale possa o debba essere cambiato, soprattutto se è il paziente a chiederlo perché lo percepisce come egodistonico? Quale training di formazione specifico hai fatto per lavorare con pazienti appartenenti a una minoranza sessuale? Quali libri hai letto sulla psicologia/psicoterapia con pazienti LGBTQIA+? Che lavoro hai fatto su te stesso per individuare eventuali tuoi pregiudizi omofobi? Quando hai frequentato l’ultima volta un workshop/seminario di aggiornamento sulla psicoterapia con pazienti LGBTQIA+? Hai frequentato posti di ritrovo politici o ludici rivolti alla popolazione LGBTQIA+? Se non si dà seguito a quanto viene suscitato in queste domande, la terapia con i pazienti LGBTQIA+ avrà un risultato parziale, attribuibile alle mancate conoscenze e riflessioni del terapeuta stesso. Non si tratta di essere gay friendly (atteggiamento di variabile apertura al mondo LGBTQIA+), ma si tratta di essere gay informed (essere informati e consapevoli del mondo LGBTQIA+).
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Lo psicologo Gabriele Melli ripercorre le tappe dell’evoluzione della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) dagli anni Novanta a oggi, spiegando diversità e caratteristiche dell’approccio odierno
La Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) è un approccio d’intervento di rinomata efficacia e che racchiude al suo interno strategie diverse e integrate per ridurre la sofferenza delle persone. Non si tratta di un approccio “monolitico”, al contrario si è sviluppato e si è delineato attraversando tre diverse generazioni o ondate, come descritto nel libro edito da Erickson “Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo comportamentale. Modelli clinici e tecniche d'intervento” (a cura di G. Melli e C. Sica, 2018). La prima generazione è quella che nasce nei primi decenni degli anni Novanta con la Terapia Comportamentale che, grazie alle conoscenze su apprendimento, condizionamento classico e operante, poneva l’attenzione sul comportamento. Mentre la seconda generazione si basava sui principi della Terapia Cognitiva che dava enfasi allo studio dei pensieri e dei processi cognitivi per poter intervenire su essi modificando, di conseguenza, le emozioni dolorose e i comportamenti. Grazie ad autori di spicco come Beck ed Ellis, la modificazione del processo cognitivo era lo strumento principale e la chiave d’accesso per la riduzione della sofferenza. Ė arrivata poi la terza fase della TCC, costituita da un gruppo di interventi (tra cui ACT, CFT, MCT, DBT e MBCT) che verranno rappresentati al decimo Congresso Internazionale di Psicoterapia Cognitiva (International Congress of Cognitive Psychotherapy - ICCP, che si terrà dal 13 al 16 maggio 2021 a Roma) con relatori internazionali come Hayes, Arntz e Wells. Il fatto che sia iniziata una nuova fase non sta a indicare, come il termine potrebbe suggerire, che siano stati annullati e accantonati gli assunti di base precedentemente identificati; infatti la terza generazione ha semplicemente inserito, oltre a quelle già esistenti, nuove variabili di cambiamento: la metacognizione, l’accettazione, la mindfulness, i valori personali. L’attuale TCC è, quindi, più aperta all’investigazione dell’ampio range degli approcci umanistici, esistenziali, analitici e delle tradizioni spirituali. Piuttosto che focalizzarsi sul contenuto dei pensieri e sulle esperienze interne, le terapie della terza fase sono focalizzate sui processi e sulle funzioni legati al modo in cui una persona entra in relazione con le proprie esperienze interne (pensieri, spinte all’azione, sensazioni). L’intervento non è finalizzato direttamente alla riduzione dei sintomi, lo scopo è aumentare i livelli di accettazione, apertura e disponibilità rispetto all’esperienza interna ed esterna, per poi poter individuare delle strategie di fronteggiamento più flessibili ma orientate all’efficacia e alle priorità di vita. Non risulta più centrale la sola psicopatologia ma il benessere e la ricchezza psicologica, per la crescita dell’intera persona.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Un progetto di ricerca e intervento psicologico di gruppo per aiutare le persone che hanno ricevuto la diagnosi di Sclerosi Multipla ad affrontare meglio questa situazione
Gli interventi psicologici rivolti ai malati di sclerosi multipla, in particolare ai neo-diagnosticati, sono in genere molto carenti in Italia; più in generale, sono carenti e spesso inesistenti nei riguardi di tutti i malati cronici. Questa mancanza deriva in primo luogo dalla frattura culturale, non ancora colmata, tra corpo e psiche, che caratterizza la formazione del personale sanitario. Ne deriva che strutture avanzatissime sul piano della cura di una malattia ignorano completamente gli aspetti psicologici, come se questi non riguardassero anche il trattamento della malattia che colpisce il corpo della persona: basti pensare all’adesione alle terapie, strettamente connessa con le modalità di adattamento psicologico. La seconda ragione, intrecciata con la precedente, risiede nella cronicità. Manca la consapevolezza che la malattia cronica, che accompagna il paziente per tutta l’esistenza, coinvolge in modo serio l’intera vita e quindi la totalità della persona e delle sue relazioni sociali. Non c’è una fase acuta in cui il corpo deve venire trattato, mentre la persona torna in seguito a fare la vita di prima, chiudendo una parentesi temporanea che lascia pochi strascichi o anche nessuno. C’è, al contrario, una condizione permanente che, nel caso della sclerosi multipla, tende a un progressivo peggioramento, con pesanti conseguenze sull’intera esistenza.   Presupposti e obiettivi del progetto “SM - Stare Meglio” Il progetto “SM - Stare Meglio” è nato dalla constatazione che gli interventi psicologici sono necessari ma nello stesso tempo purtroppo assenti. Necessari perché la malattia dura tutta la vita e pone una sfida enorme lungo gli anni. Necessari perché, in particolare dopo la diagnosi, le persone devono trovare strumenti per affrontare al meglio questa situazione senza inutili sofferenze aggiuntive, senza perdere tempo, imparando le strategie migliori, imboccando un percorso di sviluppo personale. Non tutto è risolto per sempre, perché la malattia evolve nel tempo e accompagna lo svolgersi della vita, ma è un inizio che pone buone basi per un buon adattamento anche nel futuro. Dall’impostazione teorica che considera la malattia una grande sfida non normativa allo sviluppo personale deriva, a livello pratico, la necessità di proporre l’intervento psicologico a tutti coloro che hanno avuto da poco la diagnosi di sclerosi multipla. L’obiettivo è di far diventare questo tipo di intervento prassi normale nella proposta terapeutica che un centro dedicato alla sclerosi multipla offre ai suoi pazienti, insieme alle terapie farmacologiche. Siamo ben consapevoli che questo non è facile, per le molte resistenze culturali e istituzionali da parte della sanità, di cui spesso la tanto invocata mancanza di risorse economiche non è che un paravento. Vi sono poi anche le resistenze che provengono dai pazienti stessi. Ma è un obiettivo irrinunciabile, in una situazione in cui non solo la malattia cronica in genere è in aumento, ma nello specifico le diagnosi di sclerosi multipla sono sempre più precoci e numerose, anche per una maggiore precisione diagnostica. La strada è certamente lunga; con il libro “Vivere con la sclerosi multipla” abbiamo voluto dare il nostro contributo per raggiungere un obiettivo difficile ma non impossibile. Non ci si può continuare a illudere di curare veramente i malati ignorando la loro psiche.   Mettere al centro la vita della persona malata Il progetto è fondato su una forte concezione teorica dello sviluppo come possibilità di crescita e adattamento che riguarda tutto il ciclo della vita dell'individuo, anche nelle situazioni critiche fortemente sfidanti come la malattia; in questo processo di sviluppo l’individuo svolge un ruolo attivo e non meramente reattivo. Come conseguenza di questa impostazione, il progetto si è proposto di prendere in considerazione aspetti centrali della vita delle persone: aspetti che riguardano qualunque persona, anche in condizioni di buona salute, ma che acquistano nella malattia cronica una rilevanza particolare. Non era nelle intenzioni focalizzare l’attenzione su aspetti settoriali, per quanto importanti; al contrario, si volevano affrontare i temi di fondo che riguardano la capacità del malato cronico, nel nostro caso del malato di sclerosi multipla, di fare fronte in modo positivo — di sviluppo e non di regressione, di adattamento e non di disadattamento — a una condizione esistenziale di malattia che lo accompagnerà per tutta la vita. Gli aspetti più particolari sono sempre stati considerati all’interno di un discorso più ampio; ad esempio, la gestione dei sintomi è stata esaminata nel quadro della promozione dell’autoefficacia nel perseguimento di obiettivi personali significativi, in grado di dare senso alla vita e di farla sentire degna di essere vissuta.  In questa prospettiva, l’intervento prende in considerazione la globalità dell’esperienza della persona nella sua unità psicofisica, fatta di corpo e di psiche, in relazione con gli altri. Ciò significa, anzitutto, considerare il corpo, le emozioni, la cognizione, nelle loro reciproche interazioni. Vengono di conseguenza proposte attività, come la respirazione e il rilassamento, che partono dal corpo in un percorso «dal basso verso l’alto», per migliorare lo stato psichico modificando quello fisiologico. Si lavora nel contempo sulla modificazione degli stati emotivi e sulla gestione dello stress attraverso il cambiamento delle strategie cognitive di interpretazione della realtà, in un percorso «dall’alto verso il basso», vale a dire dalla psiche alle emozioni e agli stati fisiologici. Ancora, si prendono in considerazione le relazioni interpersonali e le strategie di buona comunicazione con gli altri, in particolare con il personale sanitario e i familiari.  L’intervento non si limita a questi aspetti, pur importantissimi; esso si focalizza principalmente, e in via preliminare, sull’identità e su come perseguire in modo efficace una realizzazione e uno sviluppo personali che diano senso alla propria vita di persona malata.  Sono quindi gli aspetti esistenziali che vengono messi al centro di questo intervento, nella convinzione che dare un senso alla propria presenza nel mondo sia esigenza fondamentale di ogni essere umano, ancora più pressante quando la vita è profondamente sconvolta dalla malattia. Questi aspetti talvolta sono considerati erroneamente al di là dell’ambito di competenza dell’intervento psicologico, in quanto filosofici o «spirituali»; al contrario, essi riguardano ogni essere umano e sono al centro del nostro progetto di intervento. In esso, anche l’uso di strategie di promozione dell'autoefficacia viene inserito all’interno della ricerca di nuovi obiettivi significativi, capaci di ridare senso alla propria vita e di renderla degna di essere vissuta.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Domande e risposte sul programma mirato a sostenere i genitori nella gestione degli aspetti comportamentali del bambino.
Cos’è il parent training? Cos’è il parenting? Quali sono gli stili genitoriali? Quali sono i punti di forza e debolezza per sviluppare una resilienza familiare? Come si svolge l’assessment iniziale con i genitori? Parent training individuale o di gruppo? Come si struttura un programma di parent training? Quali sono gli obiettivi del parent training? Che ruolo gioca l’alleanza terapeutica nell’intervento con il bambino?     Cos’è il parent training? Il parent training è un programma mirato a sostenere la coppia genitoriale nella gestione degli aspetti comportamentali del bambino. Si è diffuso negli anni Sessanta del XX secolo e fonda le sue basi teoriche sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale. L’efficacia del parent training è stata documentata nel modificare gli aspetti comportamentali più disfunzionali del bambino (i comportamenti problema). Tali interventi insegnano ai genitori a generare un cambiamento attraverso l’acquisizione di strategie comportamentali, l’applicazione dei principi dell’apprendimento sociale e del condizionamento operante, lo sviluppo di abilità di monitoraggio genitoriale e la corretta applicazione di rinforzi e conseguenze naturali per i comportamenti dei figli. Il parent training consente di analizzare e modificare lo stile relazionale e le risposte dei genitori che influiscono sui comportamenti dei bambini. Così il parent training, lavorando sulle abilità di gestione e problem solving dei genitori, finisce per rafforzare anche il loro senso di competenza e di autoefficacia e per favorire il benessere generale della famiglia.     Cos’è il parenting? Con il termine “stile genitoriale” o “parenting” si intende l’insieme di comportamenti che i genitori mettono in atto all’interno della relazione con i figli. Il parenting si delinea come un costrutto complesso in cui giocano un ruolo fondamentale le specifiche caratteristiche di personalità del bambino e del genitore, che costituiscono ciò che viene definito il sistema genitore-bambino. Uno stile di parenting negativo è caratterizzato dalla presenza di comportamenti eccessivamente controllanti e intrusivi, da regole troppo rigide o al contrario del tutto assenti e dalla tendenza di indurre sensi di colpa nei figli; Uno stile di parenting positivo è caratterizzato da responsività, disponibilità emotiva, sensibilità ed empatia, prevedibilità, capacità di sintonizzazione con il bambino, incoraggiamento all’individualità, all’autoregolazione e all’assertività, attraverso un comportamento supportivo.     Quali sono gli stili genitoriali? La REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) individua quattro principali stili genitoriali all’interno di un continuum, non da intendersi come rigida classificazione: Stile improntato su affetto e fermezza, che rende possibile un dialogo costruttivo tra genitore e bambino. Stile improntato su alti livelli di affetto, ma bassi livelli di fermezza, che è caratterizzato da un sistema debole di regole, in cui il bambino non percepisce il ruolo di guida del genitore, costruendosi l’idea di poter fare ciò che vuole. Stile improntato su bassi livelli di affetto, ma alti livelli di fermezza, che porta i genitori a pretendere un’obbedienza incondizionata, a criticare aspramente la personalità dei figli focalizzandosi sui comportamenti negativi. Stile improntato su scarso affetto e scarsa fermezza, tipico dei genitori che tendono a sostituire le manifestazioni d’affetto con regali frequenti, nella credenza che una maggior affettività possa rendere il bambino debole e non autonomo.     Quali sono i punti di forza e debolezza per sviluppare una resilienza familiare? La resilienza familiare fa riferimento alle risorse e capacità di coping, cioè di fronteggiamento delle situazioni, introdotte dalla famiglia in momenti di stress o forte crisi, per preservare un buon livello di funzionamento. I fattori di rischio, che possono aumentare la possibilità che si presentino comportamenti problematici, sono: vulnerabilità di natura biologica, psicologica, sociale o situazioni temporanee di stress, come età dei genitori, basso livello socioculturale, difficoltà economiche o instabilità del rapporto di coppia; I fattori protettivi che favoriscono la resilienza familiare sono: stile genitoriale improntato su affetto e fermezza, buona coesione familiare, atteggiamento fiducioso e ottimista, aspettative realistiche e sistema di credenze adeguate rispetto a potenzialità e limiti del bambino. Inoltre, risultano fondamentali il coinvolgimento e sostegno affettivo della famiglia allargata, le risorse della rete sociale di supporto.     Come si svolge l’assessment iniziale con i genitori? L’efficacia di un intervento di parent training dipende innanzitutto da un buon assessment iniziale, che può già essere considerato come prima fase dell’intervento. Attraverso questo, infatti, il genitore può identificare i suoi pensieri ricorrenti e le situazioni più difficili che vive quotidianamente: la sola maggiore consapevolezza può rappresentare un fattore determinante per favorire un processo di ridimensionamento dei pensieri negativi, per non sentirsi gli unici al mondo a sperimentare quelle situazioni e per ridurre il senso di colpa nel non riuscire a gestire alcuni comportamenti. Sono diverse le aree indagate durante l’assessment. Durante il colloquio: analisi della richiesta, storia di sviluppo del bambino e del comportamento disfunzionale, credenze legate al comportamento disfunzionale, attribuzioni positive e negative riguardo il bambino, strategie adottate, stile genitoriale prevalente, senso di efficacia percepita, situazione famigliare, aspetti socioculturali, aspettative riguardo l’efficacia dell’intervento; Tramite test e questionari: livello di stress genitoriale, pratiche genitoriali e clima famigliare, stile di parenting, stile attributivo, competenze e aspetti psicologici del bambino; Tramite un’analisi funzionale ABC (antecedent-behavior-consequence): analisi dell’interazione genitore-bambino, analisi degli antecedenti al comportamento disfunzionale, analisi delle reazioni e delle strategie adottate dal genitore.     Parent training individuale o di gruppo? Il parent training può essere condotto in sessioni individuali di coppia o in sessioni di gruppo, dove vengono coinvolte circa 4-5 famiglie. I principi e gli obiettivi sono gli stessi. Tra i vantaggi del parent training di gruppo, ricordiamo la possibilità di affrontare le difficoltà educative e l’acquisizione di competenze attraverso un clima di collaborazione e condivisione delle esperienze personali. Questo clima favorisce lo scambio di esperienze pratiche ma anche la gestione di difficoltà emotive. La composizione del gruppo dev’essere quanto più possibile omogenea, per età e per problematiche presentate dai figli, come anche per le caratteristiche dei genitori.     Come si struttura un programma di parent training? Il programma prevede dai 4 ai 10 incontri a cadenza bimensile. Ogni incontro è strutturato in 3 parti: introduzione dell’argomento e presentazione dei punti salienti su cui verterà l’incontro; esercitazione pratica in cui i genitori mettono in scena della situazione e provano ad applicare strategie per tentare di risolvere la situazione; breve riassunto e proposta di esercizi da fare a casa.     Quali sono gli obiettivi del parent training? I programmi di parent training si pongono l’obiettivo di rendere i genitori agenti di cambiamento nella vita dei loro figli e nelle loro abitudini comportamentali. L’obiettivo del parent training non è solo quello di fornire ai genitori le strategie per la soluzione di un problema, ma anche di supportare il bambino e incoraggiarlo nel momento in cui agisce in modo efficace. Uno degli obiettivi del parent training è quello di aiutare i genitori a riconoscere e sfruttare le risorse del bambino.     Che ruolo gioca l’alleanza terapeutica nell’intervento con il bambino? Il primo passo per un trattamento efficace è incoraggiare una buona alleanza terapeutica, ossia una relazione collaborativa. L’alleanza terapeutica rappresenta il fattore aspecifico maggiormente predittivo per un intervento efficace. Essa si compone di tre elementi: la condivisione di obiettivi tra genitori e terapeuta; la definizione dei reciproci compiti perché si realizzi il cambiamento; il legame affettivo della relazione terapeutica, caratterizzato da fiducia e rispetto. Nel caso del parent training, c’è una condivisione dell’intenzionalità di base fra genitori e terapeuta, il cui obiettivo comune è modificare i comportamenti negativi del bambino, formando una squadra che lavora insieme per raggiungerlo. Ciò contribuisce al successo terapeutico. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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