Sempre più spesso nel settore del welfare si parla di «lavoro di comunità». Con questa espressione, si intende far riferimento a due situazioni distinte. Da un lato, si intende la capacità delle comunità locali di intraprendere autonomamente forti iniziative per la soluzione di propri problemi o innestare processi di cambiamento importanti. Dall’altro, si indica la capacità di singoli operatori o servizi sociali di promuovere progetti di attivazione, sviluppo o rigenerazione comunitaria. In questo secondo senso, il lavoro di comunità è un preciso metodo professionale, ad alto spessore relazionale.
L’elemento imprescindibile per un vero lavoro di comunità è la partecipazione. Il coinvolgimento reale delle persone, senza imposizioni dall’alto, ma lasciando spazio a un processo aperto, negoziale, paritario. Non è possibile, infatti, pensare di risolvere i problemi collettivi di una comunità intera se non facendo leva sulle capacità della stessa comunità di fronteggiare i propri problemi.
Ma la nostra società attuale, caratterizzata da un sistema economico disgregante, aiuta a generare un senso di comunità oppure è necessario rifondare il nostro sistema economico per riuscire a regolare i rapporti sociali in maniera diversa? Risponde Fabio Folgheraiter, docente universitario, esperto di welfare e promotore del convegno “Progettare comunità” organizzato a Trento in questo mese di dicembre dal Centro Studi Erickson: «Nel campo del welfare, noi diciamo che proprio per il fatto che il nostro sistema socioeconomico e la nostra cultura tendono a isolare le persone e le famiglie, cioè a rompere le relazioni, c'è ancora più bisogno di tessere legami. Le iniziative che si propongono tale obiettivo hanno seguito: la gente ormai ha fame di incontri e relazioni umanamente significative. E certamente il fatto poi che la gente possa stare assieme e fare assieme cose importanti per il loro benessere contrasta la cultura dominante improntata all'individualismo».