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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Didattica
L’immagine di una scuola che si apre al territorio non è nuova, si ricollega all’idea di John Dewey che nel 1916, in Democrazia e educazione, scriveva: «la scuola stessa diventa una forma di vita sociale, una comunità in miniatura, una comunità che ha un’interazione continua con altre occasioni di esperienza associata al di fuori delle mura della scuola». L’obiettivo ultimo della scuola è porre l’alunno e l’alunna al centro del progetto educativo, creando le condizioni ottimali per garantire loro il successo scolastico e la loro piena realizzazione, come persone e come cittadini e cittadine.  Ciò presuppone che una scuola allarghi il proprio orizzonte formativo e operativo al contesto sociale, economico e territoriale, esercitando verso di esso un ruolo attivo e propositivo. Per fare ciò è necessario che la scuola stabilisca un legame biunivoco con il territorio, attingendo da esso in termini culturali e finanziari, e proponendosi, a propria volta, come soggetto in grado di rispondere alle richieste provenienti dal contesto.  Una scuola che interagisce con il territorio è innovativa lungo tre direttrici:  il tempo, che si dilata oltre l’orario scolastico tradizionalmente inteso; lo spazio dell’insegnamento e quello delle relazioni che si arricchiscono della partecipazione di soggetti molteplici (famiglie, enti locali, enti del terzo settore, aziende, ecc.); la didattica che, in questa nuova visione, si orienta verso il superamento dei modelli trasmissivi e si apre a scenari di sperimentazione che superano lo spazio fisico dell’aula. Per quanto riguarda la didattica, l'insegnamento e le esperienze di apprendimento che hanno luogo al di fuori dei confini delle mura dell'aula hanno una serie di benefici per bambine, bambini e adolescenti. Quando ad alunne ed alunni viene chiesto di mettere in pratica "nel mondo reale" ciò che hanno imparato stando seduti in un banco di scuola, il risultato è un'esperienza di apprendimento incentrata su di loro. È un’esperienza che migliora l'apprendimento e promuove lo sviluppo personale e sociale. La ricerca dimostra che bambine, bambini ed adolescenti impegnati in esperienze di apprendimento al di fuori della classe tendono ad avere livelli più alti di motivazione, ricordano i contenuti in modo più vivido, e hanno migliori risultati dal punto di vista dell’apprendimento. Le esperienze di apprendimento al di fuori della classe sono forme di apprendimento esperienziale (Dewey, 1897). Queste esperienze sono radicate nel semplice principio che "l'esperienza è il miglior insegnante". In questo quadro, l'apprendimento fuori dall'aula è un processo attivo, in cui alunni ed alunne incontrano problemi autentici, costruiscono nuove ipotesi, cercano soluzioni reali e interagiscono con gli altri per dare un senso al mondo che li circonda. Fuori dalla scuola, alunni ed alunne incontrano il mondo nel suo insieme, nella sua complessità, e quindi l’insegnante, le alunne e gli alunni devono assumere sguardi molteplici, e modalità di interazione diverse, non importa quale paio di "lenti" disciplinari indossi l’insegnante. L'apprendimento esperienziale è infatti intrinsecamente interdisciplinare; l’insegnante di materia umanistica o scientifica si trova quindi costretto a considerare i modi in cui le altre discipline potrebbero arricchire il suo approccio disciplinare al particolare tema, questione o problema incontrato nel territorio.
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Search-ME - Erickson 2 Didattica
L’apprendimento esperienziale, la collaborazione, la dimensione affettiva, la creatività sono tutti elementi che qualificano il percorso educativo
L’Indice della Povertà educativa e l’analisi di Save the Children condotta insieme all'Università di Tor Vergata riportano alcuni dati importanti sui fattori che stimolano la resilienza e aiutano i ragazzi ad emanciparsi dalle situazioni di disagio sociale ed economico. In ambito educativo, vengono considerati “resilienti” gli studenti che ottengono risultati scolastici elevati anche provenendo da famiglie con un background socio-economico svantaggiato. Tra questi fattori ci sono l’aver frequentato un asilo nido (+39% di probabilità), una scuola ricca di attività extracurriculari (+127%), dotata di infrastrutture adeguate (+167%) o caratterizzata da relazioni positive tra insegnanti e studenti (+100%). Se dunque le attività extra-curriculari e le relazioni positive tra insegnanti e studenti svolgono un ruolo determinante, significa che la scuola può incidere positivamente quando non si limita ad essere solo un ente che eroga formazione, ma si concepisce come parte di un territorio e di una società con cui intrattiene un dialogo e opera in maniera sinergica per accompagnare i ragazzi ad affrontare la vita. Anche l’OCSE sottolinea che la resilienza non è frutto di un singolo intervento, ma di un approccio che agisce sulle molteplici situazioni che riguardano il benessere dei bambini. A livello nazionale, il movimento Avanguardie Educative di INDIRE ha approfondito questo tema all’interno del suo manifesto e ha individuato tra i sette orizzonti dell’innovazione educativa proprio la messa a sistema delle relazioni che intercorrono tra la scuola e i diversi attori che operano nel territorio con l’obiettivo di integrare l’offerta e le modalità formative e far in modo che la scuola diventi una risorsa per la comunità stessa. Il rapporto tra la scuola e il territorio si esplicita nell’allargamento dei confini scolastici in una prospettiva spazio-temporale: da un lato incontrando altri contesti per offrire ai ragazzi esperienze di vita e opportunità culturali complementari; dall’altro accogliendo realtà esterne per ampliare il tempo e il modo in cui i ragazzi vivono gli spazi della scuola. Per essere veramente un luogo di cultura e di aggregazione la scuola ha bisogno di portare dentro altri linguaggi e altri punti di vista. Come scrive in un bell’articolo Sasà Striano, attore e scrittore nato nei Quartieri Spagnoli che lavora con le scuole e con le carceri, “occorre inserire nella scuola altri elementi, altri soggetti, altre professionalità per dare energia e per portare la realtà”. In questo modo i ragazzi possono sviluppare competenze di cittadinanza, che sono allo stesso tempo antidoto ai fenomeni di bullismo e nutrimento per la crescita di cittadini consapevoli. In questa direzione si muove anche il progetto finanziato da Fondazione Con i bambini e coordinato da Zaffiria[5] che si propone contrastare la povertà educativa aumentando l’accessibilità alle offerte culturali-educative (ludoteche, centri bambini, scuole) aprendole al territorio; sperimentando strategie operative che trasformino i beneficiari in protagonisti grazie a processi di coprogettazione e cogestione (riattivazione del capitale sociale con il community-based welfare) centrati sulla creatività.  La R&S Erickson riconoscendo il valore di questo approccio e analizzando i progetti che scuole e realtà sociali stanno portando avanti, ha identificato i capisaldi dell’innovazione didattica ed elaborato delle linee guida.  Per noi l’innovazione è funzionale alla qualità della proposta formativa e in questo senso l’apprendimento esperienziale, la collaborazione, la dimensione affettiva, la creatività sono tutti elementi che concorrono a qualificare il percorso educativo e a fare dell’esperienza scolastica un’occasione per scoprire i talenti e accompagnare i ragazzi verso la loro realizzazione.
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Search-ME - Erickson 3 Pedagogia
I modelli esistenti di scuola dell’infanzia nel bosco e le loro caratteristiche comuni
A partire dagli ultimi anni, anche in Italia si è assistito a un modesto ma crescente interesse per quei progetti educativi che pongono al centro la natura e che rispondono al bisogno di riallacciare un legame con essa. Di scuola dell’infanzia nel bosco esistono fondamentalmente due modelli: la scuola nel bosco classica e la scuola nel bosco integrata. Nella scuola nel bosco classica i bambini trascorrono tutta la mattinata nel bosco o in mezzo alla natura, in un’area specifica e con confini circoscritti. In generale i bambini frequentano questa scuola cinque giorni a settimana per tre o quattro ore e mezzo al giorno considerate sufficienti per la vita educativa in una comunità sociale. Alcune scuole nel bosco offrono per uno o due giorni a settimana anche programmi e assistenza ai bambini durante il pomeriggio. Negli ultimi anni tuttavia si osserva sempre di più la tendenza ad allungare l’orario d’apertura per andare incontro alle richieste dei genitori. La scuola nel bosco integrata è una scuola dell’infanzia a tempo pieno, dotata di edifici e stanze proprie che prevedono attività nel bosco tutte le mattine. In queste scuole i bambini trascorrono la mattinata nel bosco e il pomeriggio nell’edificio o nelle aule della scuola. Accanto a questi due modelli di scuola nel bosco si trovano oggi altre forme nate con l’obiettivo di integrare il bosco nella quotidianità delle scuole dell’infanzia in diversi Paesi. Troviamo per esempio: «le settimane con progetti nel bosco» o «le giornate regolari e sistematiche di bosco». Nonostante nessuna scuola nel bosco sia uguale all’altra e non esista un modello definito a priori è possibile ricavare alcune caratteristiche a cui la pedagogia del bosco si ispira. I punti nodali per la pedagogia del bosco sono: Salute e motricità Il bosco offre una varietà di stimoli naturali attraverso i quali i bambini imparano a prendere consapevolezza del loro corpo e della loro forza. Vivere il ritmo delle stagioni e i fenomeni naturali Vivendo costantemente in spazi aperti, il bambino affronta in modo spontaneo e naturale il cambiamento delle stagioni, apprende le diverse caratteristiche e qualità di primavera, estate, autunno e inverno. Attivazione della percezione sensoriale attraverso esperienze primordiali Nella nostra abituale realtà tutti quanti usiamo solo una piccola parte delle capacità dei nostri sensi. Il bosco e la natura ci invitano invece ad abitare in essi attraverso un approccio multisensoriale. Apprendimento globale e gioco libero Nel gioco libero, ossia senza la guida di un adulto, i bambini possono sviluppare nuove idee e pensieri, imparando a rapportarsi con gli altri e a negoziare le regole scendendo a compromessi. Educazione ambientale Nella scuola nel bosco avviene attraverso due modalità: attraverso i racconti e le conoscenze sull’ambiente che gli educatori comunicano quotidianamente, da un lato; attraverso esperienze che i bambini possono fare spontaneamente e autonomamente, dall’altro. Possibilità di conoscere e apprendere i limiti della propria corporeità, promuovere l’autostima e l’autonomia I bambini, mettendosi alla prova fisicamente, arrivano a conoscere i propri limiti. Ogni successo rinforza la loro autostima e dà loro la possibilità di valutare meglio le proprie capacità. Sperimentare lo scorrere del tempo e il silenzio Il silenzio, così raro nella nostra società, diventa occasione per concentrarsi, fermarsi, ascoltare. Anche il tempo viene percepito diversamente, in modo più spontaneo e con un approccio più tranquillo. Apprezzamento della convivenza e promozione dell’atteggiamento sociale I bambini imparano a tenersi in considerazione l’uno con l’altro, ad aspettare, ad ascoltarsi, ad accettare debolezze e forze individuali e sviluppano molto velocemente un forte sentimento di appartenenza al gruppo.
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Search-ME - Erickson 4 Pedagogia
Mi chiamo Chiara, faccio l'insegnante di sostegno e ho capito che il mio lavoro è quello giusto.
Mi chiamo Chiara, faccio l'insegnante di sostegno e mentre scrivo queste parole, mi riempio di orgoglio e penso che sia giusto così. Durante questi giorni chiusa in casa, ho riflettuto tanto sul mio lavoro e ho capito che lo amo,che ne ho bisogno, che mi manca. Penso a quanto è intenso respirare l'adolescenza, che è energia vitale, incomprensibile e incompresa. E poi penso alle mie responsabilità. Ogni giorno mi ritrovo a maneggiare materia viva, magma incandescente di vulcani che non sanno da dove cominciare a pensare. Sono folli, passionali, veri e la cosa più bella è che mi sento un po' folle anch'io, esattamente quanto loro. Penso a tutte le volte che sono tornata a casa stanca la sera, la testa piena di pensieri, il cuore leggero. Penso che questo mio cuore, che fino a poco tempo fa era attaccato a quel banco, su quella sediolina che spostavo scomodamente, di continuo, adesso sta dietro ad una webcam, come se fosse in gabbia. Col cuore io ci lavoro, e quanto è difficile far capire a tutti che non si tratta di retorica! Il cuore mi serve esattamente quanto lavagna e gesso ed è importante mettercelo sempre, nel bene e nel male. Durante questi giorni chiusa in casa, ho capito che il mio lavoro è quello giusto. Mi manca entrare in classe e fare una battuta stupida, mi manca fare un po' l'acida, rendermi conto che tanto il gioco non regge e poi scoppiare a ridere insieme a tutti i ragazzi.  Mi manca chiedere loro "Come stai?", intromettermi nei piccoli problemi di cuore, mi mancano i sorrisi delle ragazze, i loro commenti: "Che belle unghie, professoré", "Ma quella gonna non si abbina col maglione, professoré". E poi mi manca lui, il mio alunno, che è diventato parte di me. "Lasciami stare oggi!" e poi... "Professoré hai rotto!" Non riuscire ad aiutarlo veramente è straziante. Durante questi giorni chiusa in casa ho capito che mi sento inutile. Preparo lezioni di continuo, adatto, semplifico, facilito. Ma sentire i ragazzi in chat o vederli in videochiamata non è sufficiente. Mettermi a disposizione non è sufficiente. Fare schemi, mappe e sintesi e disegni non basta.  Non riesco a vedere lo sguardo del mio alunno mentre li guarda, non riesco a sapere se li guarda e fare stalking su WhatsApp non si può... "Come stai?", "Vieni nella videochiamata di Francese, non ti vedo!", "Cosa hai fatto ieri sera?". Spunta blu. Visualizzato senza risposta. L'utente ha chiuso la videochiamata. All'università il mio professore di Inglese diceva: you can`t put people in a box, non si possono mettere le persone nelle scatole. Non si può pretendere di definirle in categorie e figuriamoci se si può mettere una classe intera in una scatola, o un bambino con disabilità, che ha tutto un mondo dentro, altro che scatola di cartone!  La classe, luogo sacro fatto di relazione, ora è fatto di pigiami e occhi stropicciati, insofferenza, noia e noi ce ne accorgiamo, ma stiamo col cuore in gabbia e non possiamo farci nulla. La classe è inclusione, socializzazione, relazione. E la mia classe, quella di cui io, insegnante di sostegno, mi sento parte, è la classe della relazione d'aiuto, del contatto. Del contatto delle mani, del contatto degli occhi, del contatto dei cuori. Il punto è che chi più ha bisogno del tuo aiuto, non lo chiede. Mai. Non sa farlo, oppure pensa che non sia necessario. Però tu lo capisci, devi capirlo. Il più delle volte, chi ha bisogno di aiuto alza lo sguardo al cielo e si perde in nuvole di pensieri. E tu devi tenere la guardia alta perché, se ci stai attento, il fumo che esce dalle orecchie si vede e le nuvole di pensieri pure. Quelle nuvole dicono che a scuola non ci vorrebbero stare, perché preferirebbero sdraiarsi sul divano e chattare su WhatsApp o guardare cose stupide su TikTok, ma della scuola hanno bisogno e, loro malgrado, l`amano. E noi non possiamo starcene col cuore in gabbia, a rigurgitare su di loro quello che abbiamo imparato all'università. Ho il giusto orgoglio per affermare che voglio fare l`insegnante di sostegno, non voglio fare il foglietto illustrativo, né il libretto d'istruzioni. Voglio essere guida, faro, figura utile e non indispensabile.  Voglio tornare in classe, in fondo all'aula, stare nell'ombra a veder muoversi tutta quella luce, perché dall'ombra è più facile vedere chi ha bisogno di te, per poi, al momento giusto, saper scomparire. Ed è questa la chiave del mio lavoro. Durante questi giorni chiusa in casa ho capito tanto del mio lavoro. Ho capito che lo amo perché non carica il mio ego, ma mi aiuta ad esserci per poi scomparire e non aspetto altro, più che mai.  Chiara Anna Montesardo ha 29 anni ed un’insegnante di sostegno e si specializzerà tra qualche giorno. Vive a Manduria, e quest’anno è in servizio presso una scuola secondaria di primo grado. 
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Search-ME - Erickson 5 Pedagogia
La riflessione di un’insegnante sull’urgenza di guardare ai social network da una nuova prospettiva
Fine luglio. Precaria, ergo disoccupata. Scorro distratta e svogliata le storie Instagram dal mio smartphone, seduta sul dondolo della casa al mare dei miei e incappo in una storia fighissima di Serena, una mia studentessa che ha iniziato a seguirmi sui social alla fine dell'anno scolastico. Non si fa! Direbbero i ben pensanti, ma la scuola è finita, chissà se lì ci tornerò più e la didattica a distanza ha scombussolato tutto. Ma poi, alla fine, che male c'è? È una serata estiva qualunque e mi annoio, ma mi accorgo che la mia noia adulta è una dolce compagnia, che consola una giornata particolarmente faticosa, non è un'inquietante mancanza di qualcosa. Quindi, mi gusto le storie di Serena con tenerezza e penso a come possano sentirsi gli adolescenti, che l'inquietudine ce l'hanno sempre a portata di mano, così come la costante mancanza di qualcosa. Se anche loro ora sono sdraiati su un dondolo, di certo chattano, guardano video, condividono contenuti dal loro smartphone. Poi assistono all'ostentazione del bello e della perfezione sui i social, scorrono tante storie fighissime su Instagram, proprio come quelle di Serena, o dell’ultima influencer di turno, fatte di vacanze, serate, spiagge, stili di vita spinti spesso oltre le reali possibilità economiche: locali, alcolici, vestiti sempre diversi ogni sera. Il tutto in barba al social distancing, ma questa è un'altra storia. Empatizzo con loro e con la piccola me, pensando a come si sarebbe sentita la me adolescente, isolata e annoiata nel giardino della casa al mare dei suoi che però lei, insofferente, aveva soprannominato "Casa nella prateria", a causa di un certo pruriginoso isolamento estivo. Sono giovane e mi considero abbastanza social, ma capisco che è tutto cambiato: i ragazzi cercano attenzioni e approvazione, ma necessitano intento di estremo e silenziosissimo controllo, hanno bisogno di essere accompagnati da guide esperte e non giudicanti. Da qui l'urgenza tutta nuova di vedere i social network da una nuova prospettiva, tutta educativa. Queste cose inutili sono roba seria! Una questione che da giovani insegnanti dovremmo affrontare in maniera sempre più massiva e consapevole. È importante che i ragazzi abbiano una concreta e reale competenza digitale, sì, proprio come quella che gli adulti non hanno. Non si tratta solo di imparare ad accendere e spegnere un PC o copiare e incollare da Wikipedia un articolo sulla barbabietola da zucchero per poi spacciarlo al professore come ricerca. Si tratta di avere la piena consapevolezza delle potenzialità e dei pericoli legati all'uso di una connessione Internet: il diritto a proteggere la propria privacy, il rischio di essere adescati in chat, il revenge porn, il cyberbullismo. Non scandalizziamoci: per capire un problema, bisogna conoscerlo. E per insegnare o meglio guidare i nostri studenti verso l'acquisizione di una competenza è necessario prima di ogni cosa verificare i prerequisiti, e quindi osservare, osservare tanto. Dunque, che male c'è se Serena ha iniziato a seguirmi su Instagram? La seguo anch’io, così la osservo meglio e capisco tanto di lei, del suo mondo, del tipo di attenzione che vuole attirare. Internet e i social network sono una realtà ormai imprescindibile che non possiamo più demonizzare, dobbiamo conviverci, usarli insieme ai nostri ragazzi, scoprirne le diverse funzionalità. Infine, dovremmo spiegare loro “la differenza, se c'è, tra la vita reale e la vita al cellulare”, come dice il cantautore Brunori SAS in Lamezia Milano. Dovremmo conoscere il linguaggio persuasivo dei social e la struttura del loro fascino così programmato, ma non prima di aver conosciuto i nostri ragazzi, capire ciò che vedono e cosa potrebbero provare nel vederlo. Più che indignarci per la loro condotta e dire che i tempi sono cambiati, spieghiamo come essere pienamente padroni dello strumento digitale, come si può giocare coi social, senza subirli. Spieghiamo che è sempre tutto così artificiale, tutto molto più vuoto di quanto credano, che la vita sarà anche fatta dalle storie Instagram di Serena, ma che quella più bella è fatta di gioie che nascono dagli incontri reali e da piccoli sacrifici quotidiani che ripagano molto di più di un centinaio di visualizzazioni. Ecco, se io non avessi seguito Serena su Instagram, sicuramente non avrei visto le sue storie fighissime e non avrei scritto delle righe da giovane insegnante super-social che si interroga su questa nuova responsabilità educativa. Quindi adesso che Serena ha iniziato a seguirmi, che male c'è?
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Search-ME - Erickson 6 Pedagogia
Mi piacerebbe che la “scoperta” della didattica virtuale come risposta all’emergenza diventasse anche una ri-scoperta, al ritorno in classe, di un attivismo didattico e pedagogico
Siamo alla terza settimana, in qualche regione la quarta, di scuole chiuse. Il coronavirus imperversa. Ai nostri ragazzi tocca non solo stare a casa da scuola ma anche stare a casa e basta. Questo isolamento e assenza dalle strade quotidiane costa molto a noi, ma ancora di più a loro. E più si va avanti nel tempo più costerà. Ma anche insegnerà nuovi e antichi valori dell’esistenza, come il dolore, la speranza, la resilienza assieme alla rabbia, alla noia, all'anomia. In questo periodo sono tornato a modo mio a lavorare: decine di messaggi Facebook, molte telefonate, ho letto l’iradiddio di idee, visto materiali i più vari inviati da insegnanti.  Detesto questa maledetta pensione che mi vorrebbe “in quiescenza”. Quindi fin che posso parlo e scrivo, appassionato dallo straordinario (inatteso e unico nella storia) evento collettivo di apprendimento sul campo che la grandissima parte degli insegnanti sta facendo per rispondere all’emergenza, inventandosi cose di tutti i colori per salvare una relazione con i loro bambini e ragazzi.  Uno slancio pedagogico vero, che rende questa fase opposta rispetto alla tradizione: impariamo facendo non ascoltando, lavoriamo più che a scuola, non riusciamo a levarci via l’assenza. Di loro. Per questo ho chiamato questa fase non quella “ufficiale” di didattica a distanza, ma della didattica della vicinanza. Lo scopo dell’uso di queste strepitose (ma anche pericolose) macchine virtuali è apparso a moltissimi centrato sul ricreare la vicinanza ai ragazzi più che scimmiottare la scuola normale (e peggio tradizionale) ma fatta con il computer. Insomma didattica della vicinanza non (tanto o solo) per evitare che i ragazzi perdano l’anno scolastico ma per evitare che si perdano davanti all’assenza di un mondo di relazioni, scambi, conoscenze condivise date dall’emergenza Covid-19. Perché si impara insieme, insieme si cresce, chiusi in casa si sfiorisce. Ma l’emergenza e la virtualità ci obbligano a ripensare criticamente alle nostre tradizionali didattiche, altrimenti possono diventare solo noiose e trite lezioni. Forse questa fase avrà l’effetto che dopo, tornati a scuola, si sia migliori. Miracolo dei momenti di crisi. D’altra parte le più grandi innovazioni didattiche e pedagogiche sono figlie di crisi: Jean Itard e il suo fanciullo selvaggio, Maria Montessori e i suoi bambini disabili, Decroly e i figli dei minatori belgi, Celestin Freinet e i bambini campagnoli della Provenza, Don Milani con il suo I care. Abbiamo una storia, non veniamo dal nulla. Mi piacerebbe quindi che la “scoperta” della didattica virtuale come risposta all’emergenza diventasse anche una ri-scoperta (al ritorno in classe) di un attivismo didattico e pedagogico che in questi anni è andato perduto per modelli quantitativi di apprendimenti direttivi, precocismi, schede su schede e lezioni frontali a tutto spiano. Dal fast allo slow In queste settimane, presi dall’ansia amorevole di coprire l’assenza, moltissimi insegnanti hanno forse esagerato. Col cuore, si intende, non per cinismo. Con quello che gli insegnanti erano prima, adattato alle macchine. Da qui forse troppe lezioni virtuali ancora frontali, e troppi compiti mai questa volta “per casa”. Ha accompagnato questo rischio di una scuola fast l’irrompere magico dell’uso di queste macchine grasse e veloci di contenuti, facilmente copiabili e accessibili, una sterminata mole di documentari, giochetti, foto, testi, immagini e così via tali da far correre il rischio di una bulimia didattica. Presi dalla tristezza di sentirli a casa smarriti, forse troppi insegnanti hanno annegato i loro ragazzi nel troppo. E si sono fatti sedurre dalla quantità mostruosa che Internet ci offre. Con il rischio non di navigare ma di annegare nelle onde del tanto. Tipico e umanissimo atteggiamento in stile Candy Candy: dargli tanto e di più. Sta capitando anche nelle scuole francesi (me lo dicono colleghi dell’esagono), e il rischio è quello di ragazzi affannati per ore davanti allo schermo, genitori imbarazzati a fare con loro troppi compiti. Mi permetto quindi, con l’umiltà del vecchio maestro, di suggerire alcuni pensieri anche igienici e per me necessari man mano che l’emergenza continua e la solitudine a casa persiste: Create eventi didattici fatti in modo che i ragazzi vi facciano domande, non invece in cui si chiedono risposte. Cioè una didattica interattiva della ricerca comune non del travaso di saperi. Il momento è questo: una comunità in cammino non un gregge controllato dal cane pastore. Fateli parlare tra di loro. Scambiarsi stati d’animo, ma anche ironia, tristezza, gioia di vedersi, scambio di cosa si è imparato da questo evento. Non è difficile, lo facciamo anche noi con i nostri amici e parenti quando li chiamiamo per sapere come stanno. Rompete lo schema tayloristico di una materia dopo l’altra, mettetevi d’accordo tra di voi per non sovrapporvi l’uno con l’altro a riempire i ragazzi di troppi compiti. È ora di azioni più multidisciplinari possibili, quanto meno di una relazione pensata tra diverse discipline. Tenete fuori il più possibile i genitori. Non per cattiveria e neppure perché anche loro sono affaticati, ma perché babbo e mamma sono utili magari ad aprire le macchine, ma le attività nelle classi virtuali possibili sono buone se i ragazzi si sentono liberi e capaci di autonomia, altrimenti creiamo nuove inutili dipendenze. Valutate sempre, ma non come rito stanco della scuola dei voti (quante chiacchiere su questo tema). I ragazzi hanno bisogno di sapere come va, di fare domande su se stessi, come sul mondo. La didattica della vicinanza aiuta a creare belle strategie di autovalutazione. Non preoccupatevi della pagelle, alimentate tra di voi e loro la valutazione formativa, che valuta sia loro che voi, perché tutti in questa nuova esperienza didattica stiamo imparando, e anche i ragazzi ci insegnano. Avrete tempo dopo di fare una sintesi numerica complessiva, ma adesso conta il rinforzo non il giudizio, la scoperta dell’errore come leva per migliorare non il suo stigma numerico, la differenza di performances come valore non come scala. Cercate insomma di fare una scuola slow, non solo più lenta ma anche più profonda, gustosa, che non riempia per forza di immagini, video, scritti, ma solo quelli giustamente necessari. Il resto se lo cerchino loro, da soli. Attenzione a chi non ce la fa Vedo ancora molte difficoltà nei confronti dei ragazzi con disabilità e di quelli che non hanno a casa supporti informatici sufficienti. Sarebbe paradossale e vergognoso che l’emergenza facesse male a chi ha più bisogno. Dunque Per i nostri ragazzini con disabilità: non è questione solo degli insegnanti di sostegno, non lasciateli nell’isolamento, create eventi dove siano tutti presenti e coinvolti, qualche roba di individuale può anche andar bene, ma questo è il momento della cooperazione tra ragazzi dove tutti aiutano tutti. Guai alla formazione di aule virtuali h. Ne fanno già troppe e scuola. Per i ragazzini in difficoltà economiche e senza strumenti: cercate tutti i modi di procurarveli, anche con le collette, nessuna scuola è giustificata a rassegnarsi. Chiamate il sindaco, il parroco, il volontariato, i ricchi pieni di rimorsi per le evasioni fiscali del passato (se ce ne sono). O ci salviamo insieme o siamo tutti perduti. Ho scritto queste cose all’alba di un lunedì un po’ livido. Sto imparando anch’io perchè per quanto abbia studiato questo nuovo è nuovissimo anche per me. Quindi è normale che io possa aver detto anche qualche sciocchezza, che in qualche punto io sia troppo lirico e poco prosaico, che altri abbiano idee diverse ma comunque interessanti da confrontare. È il momento di non perderci tutti e di restare soli davanti al nostro video, di scambiarci fraternamente saggezze e sciocchezze. Perché la Pedagogia è così: l’arte delle prove ed errori in un orizzonte di comune umanità: non salvare l’anno scolastico ma l’educazione democratica come necessario patrimonio per il futuro in questo martoriato paese.
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