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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Adolescenza
Come molte categorie fragili anche i giovani caregiver sono penalizzati e ulteriormente svantaggiati a causa dell’attuale emergenza sanitaria
I giovani caregiver sono bambini/e e adolescenti, talvolta non ancora maggiorenni, impegnati regolarmente in attività di cura rivolte ai propri familiari (genitori, nonni, sorelle e fratelli, ecc.). I bisogni dei familiari possono comprendere malattie croniche, disabilità e anche fragilità sociali e psicologiche che determinano la necessità di supervisione e assistenza costante e, talvolta, quotidiana. Occuparsi di faccende domestiche, supportare emotivamente e somministrare dei farmaci sono solo alcune delle attività che svolgono i giovani caregiver. Le responsabilità di cura influiscono significativamente sul loro sviluppo psico-fisico generando considerevoli difficoltà nella transizione verso l’età adulta. Un’indagine svolta nel 2019 ha evidenziato che su un campione di 424 studenti/esse, di alcune scuole secondarie di primo grado del Comune di Milano, il 6% è costituito da potenziali caregiver. Come è cambiata la vita dei giovani caregiver durante l’epidemia? La pandemia da Covid-19 sta influenzando significativamente le nostre vite generando ansia e preoccupazione per la salute personale e dei propri cari. Secondo una ricerca inglese questi sentimenti sono sentiti maggiormente dai giovani caregiver, i quali vivono fortemente la paura di un peggioramento delle condizioni di salute dei propri cari e di essere loro stessi causa del contagio. Motivo di ulteriore ansia è destata dalla eventualità, da parte loro, di ammalarsi. Ciò inficerebbe a loro la possibilità di svolgere i compiti di cura. Le restrizioni sociali imposte dai governi hanno l’effetto di produrre ulteriore isolamento sociale e un incremento del carico di lavoro dei giovani caregiver. Avendo meno opportunità aggregative e di sviluppare legami significativi e, talvolta, dovendo adempiere alla didattica a distanza, i caregiver rischiano di ridurre sensibilmente il tempo dedicato a sé stessi, il quale è fondamentale per la crescita armonica e per la prevenzione degli esiti negativi dovuti al caregiving. Questo, di conseguenza, aumenterebbe per loro il carico di lavoro. Trascorrendo più tempo a casa potrà esserci maggiore probabilità di richiesta nell’occuparsi di altri familiari bisognosi di attenzioni, come per esempio fratelli e sorelle. Tale circostanza in Italia si è presentata in molte occasioni a causa del ricovero di uno o di entrambi i genitori. Quali sono i bisogni dei giovani caragiver? Un gruppo di giovani caregiver, riuniti da un network inglese di associazioni, ha stilato un documento per richiedere maggiori attenzioni nei loro confronti e di tutti coloro che vertono nella medesima situazione. I giovani caregiver hanno espresso chiaramente la necessità di essere “visti”, soprattutto in questa fase di emergenza sanitaria. Essere ascoltati in modo genuino e senza giudizi e tenere in considerazione la loro opinione sono alcune delle richieste espresse dal gruppo inglese di ragazzi/e con responsabilità di cura. Secondo il loro punto di vista almeno una parte del benessere può essere ugualmente raggiunto in questa fase di restrizioni con semplici azioni messe in pratica da operatori sociali e insegnanti. Alla base delle loro richieste è possibile cogliere il desiderio di prendere parte ad una relazione di aiuto che si basi sulla fiducia e reciprocità in cui possano sentirsi liberi di dare voce a preoccupazioni, bisogni e speranze. Ad esempio, il gruppo dei giovani caregiver inglesi esorta i professionisti a fissare degli appuntamenti telefonici e/o video chiamate settimanali, parlandone direttamente con loro, e non solamente con i genitori, per accertarsi delle loro condizioni e per affrontare insieme la questione dei carichi del lavoro di cura e dell’andamento scolastico. Anche in questa fase di emergenza sanitaria, anzi soprattutto ora, è fondamentale identificare e dare voce a coloro che sono sempre nell’ombra nonostante svolgano un ruolo cruciale per la propria famiglia.
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Metodo Montessori e anziani fragili Tutela dei minori
La pandemia ha portato alla luce la necessità di rafforzare la lotta alla povertà e il sistema di servizi che di essa si occupa nel nostro Paese
Un milione e trecentomila bambini in Italia vivono sotto la soglia della povertà, in una condizione di vulnerabilità che impedisce pari opportunità già all’ingresso nella vita, poiché limita sul nascere la probabilità di accedere a un processo di sviluppo integrale, oltre che di salute fisica e mentale. Molteplici indagini e molte ricerche, da prospettive disciplinaridiverse, mettono in luce che le disuguaglianze non si trasmettono per via ereditaria,ma ambientale, si riproducono a scuola e nei diversi ambienti sociali e sono influenzate dal modo in cui le figure genitoriali esercitanola loro funzione. Da alcuni anni l’Unione Europea, in diverse raccomandazioni, utilizza il termine “disuguaglianza” per mettere in luce il fatto che la povertà pregiudica lo sviluppo del bambino su diversi piani: quello psicologico, indebolendo l’autostima; quello cognitivo, ostacolando il raggiungimento delle abilità scolastiche; quello sociale, limitando la capacità di stare in gruppo. È ormai forte l’evidenza empirica che la condizione socioeconomica della famiglia di origine sia un fattore determinante dell’abbandono scolastico precoce. Dalle statistiche risulta che nel nostro Paese il tasso medio di abbandono scolastico tra i 18 e i 24 anni era del 13,1% nel 2020, ben al di sopra del target previsto la dalla strategia Europa 2030 del 9%, soprattutto considerando i divari territoriali “ampi e persistenti”. La povertà quindi è causa di dispersione scolastica e ha un impatto severo sullo sviluppo dei singoli e delle comunità. La correlazione tra disinvestimento in educazione e stagnazione economica è ampiamente riconosciuta e dunque la sfida per il sistema di welfare dei bambini e delle famiglie, i servizi zero-sei e la scuola, compresa l’Università, è alta.  Diversi studi - tra cui quello proposto dall’Istituto degli Innocenti sull’indice del benessere delle bambine e dei bambini nelle Regioni italiane e quello del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza - confermano la rilevanza e la persistenza temporale della questione dei divari territoriali. Questi studi mettono a disposizione informazioni utili a comprendere le condizioni in cui vivono i bambini e gli adolescenti nelle Regioni italiane al fine di migliorare la capacità di tutela e di effettiva promozione dei diritti dell’infanzia su tutto il territorio nazionale.  I dati di questi studi evidenziano la presenza di numerose e profonde diseguaglianze regionali a 360°, sia nella situazione dei minori stessi, sia nell’accesso e nella qualità dei servizi educativi, sociali, di assistenza e di salute offerti alle persone di minore età e alle loro famiglie. Si tratta quindi di perseguire un ideale di giustizia sociale che è sia causa che effetto della disuguaglianza delle opportunità.  È necessario a tal fine proporre una politica della vulnerabilità basata sul controllo delle condizioni che espongono le persone alla possibilità di essere ferite e al miglioramento delle condizioni di interdipendenza che assicurano una risposta ai bisogni dei bambini e delle persone adulte. La finalità è arricchire l’esperienza, espandere le capacità, soprattutto genitoriali, sostenere l’interdipendenza tra le persone e le famiglie, e tra genitori e figli nelle famiglie, grazie alla trasformazione dei loro legami sociali, in modo da condividere con le famiglie il potere di decidere e di agire, evitando di individualizzare questa cura e includendola in reti di solidarietà e di cittadinanza. È fuori di dubbio che esista una geografia delle disuguaglianze sociali, in cui difficoltà maggiori si rilevano in presenza di servizi istituzionali e reti di solidarietà informali particolarmente deboli. La pandemia e il confinamento hanno rivelato i tanti nervi scoperti del sistema sanitario, del sistema di protezione sociale e della struttura amministrativa del Paese e hanno fatto emergere le disuguaglianze in tutta la loro violenza, rendendo evidente la necessità di rafforzare la lotta alla povertà e il sistema di servizi che di essa si occupa.
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Metodo Montessori e anziani fragili Tutela dei minori
I dati dimostrano che la violenza domestica può nascondere altre forme di maltrattamento ai danni dei bambini e degli adolescenti che vi assistono
A partire dagli anni Settanta, con il prezioso contributo dei movimenti femministi, emerge in maniera pubblica e accademica il tema della violenza degli uomini sulle donne nelle relazioni intime e familiari. Da spazio relazionale di sicurezza, rifugio, crescita e supporto, il contesto familiare può diventare anche luogo di maltrattamento, sopraffazione e morte, non solo per le donne vittime ma anche per i figli che lo abitano. Il diritto delle bambine e dei bambini, delle adolescenti e degli adolescenti alla tutela e alla protezione da ogni forma di violenza è enunciato chiaramente per la prima volta dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989. Da qui il concetto di trauma interpersonale infantile assume una forte visibilità in ambito scientifico e la violenza perpetrata in ambito familiare viene concepita come esposizione a eventi traumatici cumulativi e prolungati nel tempo.  Soltanto nel 2002 l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la violenza ai danni dell’infanzia un problema di salute pubblica, con gravi esiti sulla salute fisica e mentale a breve, medio e lungo termine, pubblicandolo per la prima volta nel Rapporto Mondiale su violenza e salute. La violenza domestica viene definita come un fenomeno trasversale a tutti i Paesi del mondo — a prescindere dal gruppo sociale, economico, religioso o culturale — e perpetrabile attraverso le modalità più disparate.  Questa violenza nasconde al suo interno un’altra forma di maltrattamento a danno dei minori, definita violenza assistita, che consiste nell’essere testimoni, proprio malgrado, della sopraffazione e dell’aggressività tra i genitori, che si configura come fattore di rischio per altri tipi di maltrattamento condizionando talora la struttura della loro personalità in età adulta. In Italia è il CISMAI – Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia - il primo ad avviare una riflessione sul fenomeno. Secondo la definizione che ne dà il CISMAI, la violenza assistita non deriva unicamente da ciò a cui un bambino assiste in maniera diretta, ma anche da ciò che sperimenta e percepisce in maniera indiretta, ad esempio attraverso l’ascolto o venendone a conoscenza a posteriori o avvertendo l’esistenza di un pericolo reale per sé e per gli altri per lui significativi, quali madre e fratelli. Stando ai dati di una corposa indagine campionaria sul maltrattamento infantile in Italia, la violenza assistita rappresenta la seconda forma di maltrattamento più diffusa nel nostro Paese. A conferma della gravosa dimensione del fenomeno vi sono anche i dati ISTAT relativi al 2020 che mostrano una vertiginosa salita dei numeri a seguito dell’impatto della pandemia da Sars-Cov2. Tra le vittime che si sono rivolte al numero nazionale 1522 in suddetta annualità, vi sono ben 2.951 figli che hanno assistito alla violenza ma non l’hanno subita direttamente, e 829 che hanno sia assistito che fatto esperienza diretta.
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Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Soltanto percorsi di cura che coinvolgano l’intera famiglia, tenendo conto della situazione complessiva e mettendo al centro dell’attenzione il minore, possono risultare funzionali in situazioni di grave conflittualità familiare
È molto probabile che adolescenti esposti da anni a situazioni di grave conflittualità familiare (o imprigionati in situazioni relazionali gravemente disfunzionali, che poi esitano in pesante conflittualità e processi separativi estremamente difficili) si presentino all’attenzione dei Servizi con comportamenti devianti e/o quadri psicopatologici che comportano l’incanalamento in percorsi di cura determinati dal «sintomo». Le situazioni più comuni che si riscontrano sono quelle di adolescenti suicidari, dipendenti da sostanze stupefacenti, affetti da sintomatologie ossessivocompulsive e così via. Inquadrando i ragazzi in percorsi di cura legati al «sintomo», tuttavia, rischiamo di dimenticare che si tratta di ragazzi che, immersi in situazioni di grave conflittualità familiare, hanno trovato strategie per sopravvivere a situazioni insostenibili e potremmo essere indotti a progettare percorsi di cura che sottovalutano l’importanza della famiglia che hanno alle spalle e che possono costituirsi come ulteriore fattore di rischio in queste già delicate situazioni. Deve essere, invece, ribadita con forza la necessità di attivare percorsi di cura familiari, che mettano al centro i minori, ma prevedano un forte coinvolgimento degli adulti. Prese in carico frammentate, che non partano da una lettura unificata del problema e non condividano un progetto di aiuto coerente, sono da ritenersi particolarmente controindicate, in quanto passibili di aumentare la conflittualità che già caratterizza queste difficili situazioni. All’interno dei percorsi di cura che devono essere attivati in questi casi, gli adolescenti possono essere davvero dei protagonisti importanti. Possono capire, riflettere, interloquire in modo utile con i loro genitori, con una profondità che spesso stupisce anche l’operatore. Ma da soli non ce la fanno, hanno bisogno che i genitori capiscano, almeno un po’, che diano il loro contributo, magari limitato. Dietro ad atteggiamenti aggressivi e ribelli, magari squalificanti l’intervento dell’adulto, possono essere davvero generosi e capaci di valorizzare quello che i genitori riescono a mettere in campo. Pensiero, energie, creatività, capacità di dar vita a relazioni di partnership, propensione a collaborare in rete quando altri operatori sono presenti sulla scena sono requisiti indispensabili per intervenire efficacemente in questi casi. È, inoltre, fondamentale non dimenticare di monitorare la quantità e la qualità del pericolo cui l’adolescente è esposto, sia in termini di possibili violenze a lui dirette, sia in termini di comportamenti a rischio da lui direttamente agiti. In alcuni casi, infatti, è possibile che la gravità della situazione richieda la messa in atto di interventi protettivi e di tutela e che il percorso di aiuto, pur essendo irrinunciabile, da solo non sia sufficiente.
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Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Un diritto riconosciuto da oltre trent’anni dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
L’ascolto e la partecipazione dei bambini e dei ragazzi alle procedure giudiziarie o amministrative che li riguardano sono diritti sanciti dalla legislazione internazionale e nazionale. La Convenzione internazionale sui diritti dell’Infanzia, approvata a New York il 20 novembre 1989 e recepita dal nostro ordinamento giuridico mediante la legge n. 176 del 1991, annovera tra i diritti esigibili dalle persone minori di età il diritto a esprimere opinioni e a essere ascoltate. L’art. 12 della suddetta Convenzione infatti recita: «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale». Tale articolo riconosce in modo dettagliato a tutti i bambini e ragazzi il diritto di esprimere la propria opinione sulle questioni che li riguardano, come ad esempio i legami e la vita familiare, l’educazione, la scuola, il tempo libero e tutti i provvedimenti per il benessere attivati in loro favore in caso di necessità. L’articolo non prevede limiti di età per l’ascolto e la partecipazione dei bambini e dei ragazzi, né fornisce indicazioni su chi dovrebbe valutare la maturità del bambino e quali criteri utilizzare. Affinché il diritto di ascolto e di partecipazione dei bambini e ragazzi sia esigibile è fondamentale che gli adulti (genitori, operatori sociali, insegnanti, manager di servizi di welfare, policy makers…) si attivino per creare le condizioni favorevoli a garantire la partecipazione e l’ascolto dei più piccoli e rispettino il dovere di tenere in considerazione opinioni e pensieri di bambini e ragazzi nei processi decisionali che riguardano il loro benessere. Per queste ragioni, il diritto di ascolto e di partecipazione riconosciuto alle persone minori di età può essere ricondotto alla categoria dei diritti relazionali.
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Metodo Montessori e anziani fragili Tutela dei minori
L’importanza del riconoscimento dell’identità dei minori, il dialogo con la comunità ucraina per impostare percorsi di affido condivisi e i suggerimenti per superare i fraintendimenti culturali
Chi sono i bambini che stanno arrivando dall’Ucraina? Sono bambini. Lo affermiamo sin dal principio perché uno dei primi rischi che corrono questi bambini è quello che entrino nello spazio istituzionale che stiamo predisponendo per loro come bambini e che ne escano come profughi, rifugiati, minori non accompagnati, bambini traumatizzati, ecc., cioè con una sovrastruttura che copre l’identità primaria dell’essere bambini. Questo fenomeno, cosiddetto della capture istituzionale (Lacharité, 2017), è un fenomeno che fa sì che le persone, una volta entrate nel dispositivo istituzionale dell’aiuto, non vengano più viste per ciò che sono, ma solo per il problema che portano, così come identificato dall’insieme delle norme che governano quello spazio istituzionale. Affermare che sono bambini significa quindi riconoscere che il loro primo diritto è il diritto di essere riconosciuti bambini. A sua volta, ciò significa porre al centro l’approccio dei bisogni: il bambino è per definizione un soggetto in crescita che, nella sua normalità, ha dei bisogni definiti evolutivi in quanto, nella misura in cui sono soddisfatti, permettono l’evoluzione dello stesso processo di crescita.  Questi bisogni sono l’altra faccia dei diritti. La Convenzione internazionale dei diritti dei bambini del 1989 ha infatti costruito la definizione di diritti proprio sulla base del riconoscimento dei bisogni dei bambini: un diritto è tale perché corrisponde a un bisogno fondamentale e transculturale del bambino. Molti recenti studi nell’ambito delle neuroscienze hanno inoltre dimostrato che la soddisfazione del bisogno è ciò che permette la formazione delle capacità sociali, emotive, cognitive, affettive, ecc. Sono bambini, ancora, ossia persone da 0 a 18 anni: un arco evolutivo molto lungo nel quale si affrontano fasi e compiti evolutivi completamente diversi. Accogliere un neonato è altro dall’accogliere un bambino di 8 anni o un’adolescente di 17 o una bambina, magari con disabilità, di 3 anni.Riconoscere il bambino, la sua età, la sua specifica condizione, significa riconoscere Ilja, Natalia, Anastasia, Igor… in termini giuridici, significa anche garantire il riconoscimento della loro identità, tema che le Raccomandazioni UNICEF-UNHCR e quelle del Ministero dell’Interno, di recente emanazione, sottolineano a causa dell’assoluta importanza del tracciamento di questi bambini per evitare i rischi di sparizione e tratta. Come operatori e ricercatori sociali sappiamo che il riconoscimento giuridico è il primo passo per rendere esigibile il diritto al riconoscimento della singolarità di ogni persona nella sua identità personale e culturale. In questo contesto, un tema che si è imposto alla nostra attenzione da subito, riguarda i bambini che provengono dai cosiddetti “orfanotrofi”, in quanto ciò non significa che questi bambini siano automaticamente orfani e tanto meno che non abbiano un rapporto con almeno una figura genitoriale e ancor meno che siano adottabili. La situazione di questi bambini è quindi molto peculiare perché probabilmente sono abituati a vivere in un contesto comunitario di tipo istituzionale (ciò che non significa che questa sia la soluzione migliore per loro, ma che è quella abituale appunto), ossia in una tipologia di accoglienza fuori famiglia che in Italia non è più attiva dal 2006, quando, grazie alla legge 149/2001, sono stati chiusi tutti gli istituti. D’altro canto, i rappresentanti della comunità ucraina che vivono in Italia hanno espresso, anche nelle sedi istituzionali, viva preoccupazione rispetto a eventuali procedimenti adottivi indebiti come anche rispetto alla soluzione dell’affido familiare. Chiarito che in situazione di guerra non è consigliabile procedere con adozioni, la domanda che resta è come rendere esigibile il diritto alla personalizzazione dell’accoglienza anche per questi bambini per i quali è evidentemente importante garantire la continuità dei legami con le figure genitoriali eventualmente presenti, con gli educatori e i pari dell’istituto. In sintesi: sembra che ci troviamo dinanzi a una contrapposizione tra il rifiuto dell’affido da parte della comunità ucraina e la cultura positiva dell’affido e della deistituzionalizzazione che si sta portando avanti in Italia, soprattutto a partire da quanto indicato nelle Linee di indirizzo nazionali sull’affidamento familiare (MLPS, 2017). Per evitare l’acuirsi della tensione all’interno di questa apparente contrapposizione, può essere utile declinare concretamente il diritto alla personalizzazione superando i termini generici e standardizzati di affido in famiglia o in piccola comunità versus istituto, in maniera concretamente corrispondente ai bisogni e alle possibilità evolutive di ogni bambino, così da andare oltre una logica semplicistica e binaria e tentare una logica partecipativa che sappia coinvolgere nelle scelte che riguardano i bambini sia i bambini stessi, sia le figure di riferimento delle comunità ucraine, anche a partire dall’esplicitazione dei seguenti elementi, che possono essere alla base di alcuni fraintendimenti culturali, su cui può essere generativo aprire il dialogo: i bambini non sono di proprietà di nessuno, nemmeno dei genitori naturali o biologici. Genitori affidatari, biologici, adottivi, educatori delle comunità o degli istituti sono solo i custodi temporanei dei bambini rispetto ai quali esercitano una forma di responsabilità, non di potere, come già sosteneva Maria Montessori; garantire percorsi personalizzati vuol dire in primis avviare un processo di analisi dei bisogni di ogni bambino, orientato non all’analisi stessa, ma alla costruzione di un progetto: nonostante non sappiamo per quanto tempo questi bambini resteranno in Italia, è abbastanza evidente che non si tratterà di tempi così brevi da poter giustificare che un bambino resti in Italia senza un progetto personalizzato;  l’affido familiare è una “piattaforma di interventi” e prevede forme molto leggere come anche forme di permanenza residenziale in una famiglia esterna al nucleo di origine. Tante forme intermedie sono possibili, quando si cerca, con onestà e rispetto dei diritti del bambino, di rendere esigibile il diritto alla personalizzazione e alla continuità degli affetti. Quindi, ad esempio, anche per i bambini per cui si valuta che la soluzione più appropriata sia rimanere nel contesto delle relazioni preesistenti, va garantito un diritto alla personalizzazione delle cure in termini di disponibilità di vestiario, progetto scolastico, rapporto con un adulto di riferimento, vicinanza solidale di almeno una famiglia con cui poter trascorrere alcune ore al giorno o almeno alla settimana o nel periodo estivo, ecc. All’opposto, se si valuta per alcuni di questi bambini l’appropriatezza del collocamento in affido familiare, va comunque garantita la continuità con i legami precedenti, quindi sarà necessario prevedere un piano di visite perlomeno settimanali ai compagni e agli educatori dell’istituto da cui sono provenuti, un piano di incontri online con eventuali figure genitoriali rimaste in Ucraina o presenti sul suolo italiano in altri località, ecc.  Riferimenti utili Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, 2022, Nota in ordine alla emergenza generata dall’arrivo di minori ucraini e dalle loro necessità di accoglienza, www.minoriefamiglia.org Autorità Garante per l’infanzia,2022, Seguire le vie istituzionali, https://www.garanteinfanzia.org/ucraina-lautorita-garante-aiutare-i-minorenni-vanno-seguite-le-vie-istituzionali-0 Iosa, R., 08.03.2022, Per una pedagogia del ritorno. A proposito dei bambini e ragazzi ucraini in fuga in Italia, https://www.proteofaresapere.it/news/notizie/pedagogia-ritorno-proposito-bambini-ragazzi-ucraini-fuga-italia-raffaele-iosa Lacharité C. (2017), L’ethnographie institutionnelle : une approche critique de la recherche sur les rapports entre les personnes et les institutions, in « Les Cahiers du CEIDEF », vol. 5, Trois-Rivières, QC, Éditions du CEIDEF.  Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS) (2018), Linee di Indirizzo Nazionali sull’affidamento familiare, Roma, https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/infanzia-e-adolescenza/focus-on/minorenni-fuori-famiglia/Documents/Linee_indirizzoaffidamentofamiliare.pdf Ministero dell’Interno, 2022, Piano minori stranieri non accompagnati provenienti dall’Ucraina. Tavolo affido, 2022, Nota del tavolo nazionale affido in merito ai minori provenienti dall’ Ucraina https://www.tavolonazionaleaffido.it/2022/03/12/nota-del-tavolo-nazionale-affido-in-merito-ai-minori-provenienti-dallucraina/ UNHCR e UNICEF, 2022, Crisi Ucraina – Raccomandazioni dell’UNHCR e UNICEF a tutela della protezione di bambini e bambine in fuga, https://www.datocms-assets.com/30196/1647270370-crisi-ucraina-advocacy-points-child-protection-140322-fin.pdf
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