IT
I mini gialli dei dettati 2
Carrello
Spedizioni veloci
Pagamenti sicuri
Totale:

Il tuo carrello è vuoto

|*** Libro Quantità:
Articoli e appuntamenti suggeriti

Tematica
Argomento
Utile in caso di
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Non vi è alcun filtro disponibile, allarga la tua ricerca per ottenere più risultati
Non vi è alcun filtro disponibile, allarga la tua ricerca per ottenere più risultati
Filtra
Filtra per
Tematica
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Argomento
Utile in caso di
Risultati trovati: 19
Search-ME - Erickson 1 Lavoro sociale
Intervista a Jonathan Scourfield, docente di Lavoro Sociale alla Cardiff University
Può sembrare una questione ovvia, ma diverse ricerche mostrano che nei servizi per i minori e le famiglie, gli operatori tendono a coinvolgere soprattutto le madri. I motivi che portano a questa situazione sono diversi, a partire dal fatto che la cura dei figli viene spesso concepita come una prerogativa femminile. Invece, nei percorsi di tutela, il coinvolgimento dei padri è indispensabile nell’interesse dei minori. Professor Scourfield, qual è la relazione che si instaura tra padre e figlio? «Sono ormai numerosi gli studi che hanno indagato la relazione tra le modalità dell’essere padre e gli esiti sui figli e il loro sviluppo, in una duplice direzione: da un lato una “buona” paternità è associata a un benessere emotivo del figlio che perdura sino all’età adulta; dall’altro, vi sono alcuni esiti critici legati alla paternità.  Ad esempio, alcune ricerche dimostrano come figli di padri con percorsi di criminalità abbiano una più alta probabilità di compiere reati». L’influenza dei padri sul benessere dei figli è l’argomentazione fondamentale per promuoverne e sostenerne la partecipazione. Come comportarsi quando il padre può avere un’influenza negativa? «In questi casi è fondamentale un’attenta valutazione. Sarebbe un errore, infatti, escluderlo definitivamente e a priori dalla riflessione. Nonostante questi padri pongano i propri figli in situazioni di rischio, potrebbero avere anche il potenziale per il cambiamento. I padri dovrebbero quindi essere coinvolti nei piani di cura dei figli: le indagini mostrano che sono davvero poche le situazioni in cui la completa separazione dei bambini dai propri padri corrisponde all’interesse del minore». Perché i padri vengono poco coinvolti nei percorsi di tutela dei propri figli? «Non esiste un’unica risposta. L’ostilità e la riluttanza volte a mascherarne la vulnerabilità, una concezione della cura come qualcosa che attiene alla dimensione femminile (concezione presente nei uomini quanto negli operatori), sono solo alcuni dei fattori che ostacolano la partecipazione dei padri. Esiste quindi ampio spazio per migliorare il lavoro con i padri, per fare davvero la differenza nella vita dei bambini e dei ragazzi, ma ci dev’essere la consapevolezza che i servizi hanno ancora una lunga strada da percorrere, partire dalle fondamenta della cultura delle organizzazioni basata primariamente sul coinvolgimento delle madri».
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Tutela dei minori
I dati dimostrano che la violenza domestica può nascondere altre forme di maltrattamento ai danni dei bambini e degli adolescenti che vi assistono
A partire dagli anni Settanta, con il prezioso contributo dei movimenti femministi, emerge in maniera pubblica e accademica il tema della violenza degli uomini sulle donne nelle relazioni intime e familiari. Da spazio relazionale di sicurezza, rifugio, crescita e supporto, il contesto familiare può diventare anche luogo di maltrattamento, sopraffazione e morte, non solo per le donne vittime ma anche per i figli che lo abitano. Il diritto delle bambine e dei bambini, delle adolescenti e degli adolescenti alla tutela e alla protezione da ogni forma di violenza è enunciato chiaramente per la prima volta dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989. Da qui il concetto di trauma interpersonale infantile assume una forte visibilità in ambito scientifico e la violenza perpetrata in ambito familiare viene concepita come esposizione a eventi traumatici cumulativi e prolungati nel tempo.  Soltanto nel 2002 l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la violenza ai danni dell’infanzia un problema di salute pubblica, con gravi esiti sulla salute fisica e mentale a breve, medio e lungo termine, pubblicandolo per la prima volta nel Rapporto Mondiale su violenza e salute. La violenza domestica viene definita come un fenomeno trasversale a tutti i Paesi del mondo — a prescindere dal gruppo sociale, economico, religioso o culturale — e perpetrabile attraverso le modalità più disparate.  Questa violenza nasconde al suo interno un’altra forma di maltrattamento a danno dei minori, definita violenza assistita, che consiste nell’essere testimoni, proprio malgrado, della sopraffazione e dell’aggressività tra i genitori, che si configura come fattore di rischio per altri tipi di maltrattamento condizionando talora la struttura della loro personalità in età adulta. In Italia è il CISMAI – Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia - il primo ad avviare una riflessione sul fenomeno. Secondo la definizione che ne dà il CISMAI, la violenza assistita non deriva unicamente da ciò a cui un bambino assiste in maniera diretta, ma anche da ciò che sperimenta e percepisce in maniera indiretta, ad esempio attraverso l’ascolto o venendone a conoscenza a posteriori o avvertendo l’esistenza di un pericolo reale per sé e per gli altri per lui significativi, quali madre e fratelli. Stando ai dati di una corposa indagine campionaria sul maltrattamento infantile in Italia, la violenza assistita rappresenta la seconda forma di maltrattamento più diffusa nel nostro Paese. A conferma della gravosa dimensione del fenomeno vi sono anche i dati ISTAT relativi al 2020 che mostrano una vertiginosa salita dei numeri a seguito dell’impatto della pandemia da Sars-Cov2. Tra le vittime che si sono rivolte al numero nazionale 1522 in suddetta annualità, vi sono ben 2.951 figli che hanno assistito alla violenza ma non l’hanno subita direttamente, e 829 che hanno sia assistito che fatto esperienza diretta.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Soltanto percorsi di cura che coinvolgano l’intera famiglia, tenendo conto della situazione complessiva e mettendo al centro dell’attenzione il minore, possono risultare funzionali in situazioni di grave conflittualità familiare
È molto probabile che adolescenti esposti da anni a situazioni di grave conflittualità familiare (o imprigionati in situazioni relazionali gravemente disfunzionali, che poi esitano in pesante conflittualità e processi separativi estremamente difficili) si presentino all’attenzione dei Servizi con comportamenti devianti e/o quadri psicopatologici che comportano l’incanalamento in percorsi di cura determinati dal «sintomo». Le situazioni più comuni che si riscontrano sono quelle di adolescenti suicidari, dipendenti da sostanze stupefacenti, affetti da sintomatologie ossessivocompulsive e così via. Inquadrando i ragazzi in percorsi di cura legati al «sintomo», tuttavia, rischiamo di dimenticare che si tratta di ragazzi che, immersi in situazioni di grave conflittualità familiare, hanno trovato strategie per sopravvivere a situazioni insostenibili e potremmo essere indotti a progettare percorsi di cura che sottovalutano l’importanza della famiglia che hanno alle spalle e che possono costituirsi come ulteriore fattore di rischio in queste già delicate situazioni. Deve essere, invece, ribadita con forza la necessità di attivare percorsi di cura familiari, che mettano al centro i minori, ma prevedano un forte coinvolgimento degli adulti. Prese in carico frammentate, che non partano da una lettura unificata del problema e non condividano un progetto di aiuto coerente, sono da ritenersi particolarmente controindicate, in quanto passibili di aumentare la conflittualità che già caratterizza queste difficili situazioni. All’interno dei percorsi di cura che devono essere attivati in questi casi, gli adolescenti possono essere davvero dei protagonisti importanti. Possono capire, riflettere, interloquire in modo utile con i loro genitori, con una profondità che spesso stupisce anche l’operatore. Ma da soli non ce la fanno, hanno bisogno che i genitori capiscano, almeno un po’, che diano il loro contributo, magari limitato. Dietro ad atteggiamenti aggressivi e ribelli, magari squalificanti l’intervento dell’adulto, possono essere davvero generosi e capaci di valorizzare quello che i genitori riescono a mettere in campo. Pensiero, energie, creatività, capacità di dar vita a relazioni di partnership, propensione a collaborare in rete quando altri operatori sono presenti sulla scena sono requisiti indispensabili per intervenire efficacemente in questi casi. È, inoltre, fondamentale non dimenticare di monitorare la quantità e la qualità del pericolo cui l’adolescente è esposto, sia in termini di possibili violenze a lui dirette, sia in termini di comportamenti a rischio da lui direttamente agiti. In alcuni casi, infatti, è possibile che la gravità della situazione richieda la messa in atto di interventi protettivi e di tutela e che il percorso di aiuto, pur essendo irrinunciabile, da solo non sia sufficiente.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Un diritto riconosciuto da oltre trent’anni dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
L’ascolto e la partecipazione dei bambini e dei ragazzi alle procedure giudiziarie o amministrative che li riguardano sono diritti sanciti dalla legislazione internazionale e nazionale. La Convenzione internazionale sui diritti dell’Infanzia, approvata a New York il 20 novembre 1989 e recepita dal nostro ordinamento giuridico mediante la legge n. 176 del 1991, annovera tra i diritti esigibili dalle persone minori di età il diritto a esprimere opinioni e a essere ascoltate. L’art. 12 della suddetta Convenzione infatti recita: «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale». Tale articolo riconosce in modo dettagliato a tutti i bambini e ragazzi il diritto di esprimere la propria opinione sulle questioni che li riguardano, come ad esempio i legami e la vita familiare, l’educazione, la scuola, il tempo libero e tutti i provvedimenti per il benessere attivati in loro favore in caso di necessità. L’articolo non prevede limiti di età per l’ascolto e la partecipazione dei bambini e dei ragazzi, né fornisce indicazioni su chi dovrebbe valutare la maturità del bambino e quali criteri utilizzare. Affinché il diritto di ascolto e di partecipazione dei bambini e ragazzi sia esigibile è fondamentale che gli adulti (genitori, operatori sociali, insegnanti, manager di servizi di welfare, policy makers…) si attivino per creare le condizioni favorevoli a garantire la partecipazione e l’ascolto dei più piccoli e rispettino il dovere di tenere in considerazione opinioni e pensieri di bambini e ragazzi nei processi decisionali che riguardano il loro benessere. Per queste ragioni, il diritto di ascolto e di partecipazione riconosciuto alle persone minori di età può essere ricondotto alla categoria dei diritti relazionali.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Tutela dei minori
Ruolo, aspettative e fatiche dei protagonisti di un affido minorile, un progetto che, per sua natura, richiede la partecipazione e la collaborazione di tutti
L’affido è un intervento relazionale che fonda le sue radici da un lato nelle difficili e complesse situazioni di sofferenza di una famiglia e dall’altro nell’apertura di un’altra famiglia in una dimensione di reciprocità, cooperazione e dono al sociale. Compito degli operatori è in primo luogo quello di aiutare queste due famiglie, sebbene si trovino in posizioni differenti, a riconoscersi entrambe interessate a una comune finalità: il benessere dei bambini e dei ragazzi coinvolti. A partire da questo riconoscimento è importante che le due famiglie, assieme agli operatori, imparino a mantenersi in relazione e a ragionare assieme su come fare per raggiungere la finalità condivisa. Il prodotto emergente dall’affido sarà il benessere dei bambini e dei ragazzi che ne sono coinvolti: un risultato che è un «bene relazionale», perché nasce dalla capacità di due famiglie e degli operatori di stare in relazione, ragionare assieme e connettere le loro azioni per raggiungere una comune finalità quale, appunto, una migliore condizione di vita dei minori. La dimensione relazionale dell’affido La dimensione relazionale dell’affido porta a dover riconoscere la necessità di promuovere processi di costruzione e realizzazione del progetto all’insegna della partecipazione. In letteratura, fin dagli anni dell’entrata in vigore della normativa di riferimento (Legge 184/83), troviamo indicazioni sulla necessità di avviare percorsi di collaborazione tra operatori e famiglie per la realizzazione di interventi di affido. Un intervento di affido nasce in una complessa trama di relazioni; quindi, intervenire in maniera sostitutiva ai compiti della famiglia del minore non significa che tale famiglia sparisca dalla scena o perda il diritto di partecipare. L’affido è infatti un intervento previsto normativamente in maniera temporanea e il suo esito dovrebbe essere il rientro del minore nella propria famiglia di origine. Le fatiche dei differenti protagonisti dell’affido: bambino, famiglia di origine, famiglia affidataria e operatori sociali L’affido porta con sé diverse aspettative e fatiche dei differenti attori in gioco. Per il bambino l’affido, anche se viene deciso nel suo interesse superiore, è sempre in una certa misura un trauma. Significa lasciare, seppur temporaneamente, la propria famiglia per andare incontro a delle persone fino ad allora sconosciute e a un futuro incerto; significa fare necessariamente i conti con un importante conflitto di lealtà, dove da un lato c’è una famiglia accogliente e in grado di garantirgli condizioni di maggiore benessere, dall’altro c’è la propria famiglia che rappresenta le proprie radici, la propria storia e identità. Per la famiglia di origine fare i conti con l’affido significa fare i conti con le proprie incapacità genitoriali e le proprie difficoltà: confrontarsi con operatori e con un’altra famiglia considerata per alcuni versi maggiormente in grado di garantire un ambiente di vita adatto ai propri figli. Anche per la famiglia affidataria l’incontro con la famiglia di origine non è semplice: accogliere un bambino in affido significa accogliere anche tutta la sua storia, le sue radici e, in una certa misura, la sua famiglia, il che comporta necessariamente cercare e darsi nuovi equilibri. Non vanno dimenticate, inoltre, le fatiche degli operatori, responsabili della tutela dei minori e della facilitazione del complesso intreccio di relazioni che si crea attorno all’affido. Tutto porta a considerare come già nel DNA di tale intervento ci sia scritto che per poter pianificare e realizzare l’affido familiare di un bambino o di un ragazzo è necessario muoversi nell’ottica della promozione della partecipazione, facilitare l’incontro dell’interesse delle persone a garantire il benessere dei minori e riconoscere che le modalità di realizzazione dell’affido, nell’interesse superiore del minore, non possono che emergere dal ragionamento, dalla riflessione e dalla collaborazione delle due famiglie coinvolte e, finanche, del minore stesso.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Tutela dei minori
La pandemia ha portato alla luce la necessità di rafforzare la lotta alla povertà e il sistema di servizi che di essa si occupa nel nostro Paese
Un milione e trecentomila bambini in Italia vivono sotto la soglia della povertà, in una condizione di vulnerabilità che impedisce pari opportunità già all’ingresso nella vita, poiché limita sul nascere la probabilità di accedere a un processo di sviluppo integrale, oltre che di salute fisica e mentale. Molteplici indagini e molte ricerche, da prospettive disciplinaridiverse, mettono in luce che le disuguaglianze non si trasmettono per via ereditaria,ma ambientale, si riproducono a scuola e nei diversi ambienti sociali e sono influenzate dal modo in cui le figure genitoriali esercitanola loro funzione. Da alcuni anni l’Unione Europea, in diverse raccomandazioni, utilizza il termine “disuguaglianza” per mettere in luce il fatto che la povertà pregiudica lo sviluppo del bambino su diversi piani: quello psicologico, indebolendo l’autostima; quello cognitivo, ostacolando il raggiungimento delle abilità scolastiche; quello sociale, limitando la capacità di stare in gruppo. È ormai forte l’evidenza empirica che la condizione socioeconomica della famiglia di origine sia un fattore determinante dell’abbandono scolastico precoce. Dalle statistiche risulta che nel nostro Paese il tasso medio di abbandono scolastico tra i 18 e i 24 anni era del 13,1% nel 2020, ben al di sopra del target previsto la dalla strategia Europa 2030 del 9%, soprattutto considerando i divari territoriali “ampi e persistenti”. La povertà quindi è causa di dispersione scolastica e ha un impatto severo sullo sviluppo dei singoli e delle comunità. La correlazione tra disinvestimento in educazione e stagnazione economica è ampiamente riconosciuta e dunque la sfida per il sistema di welfare dei bambini e delle famiglie, i servizi zero-sei e la scuola, compresa l’Università, è alta.  Diversi studi - tra cui quello proposto dall’Istituto degli Innocenti sull’indice del benessere delle bambine e dei bambini nelle Regioni italiane e quello del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza - confermano la rilevanza e la persistenza temporale della questione dei divari territoriali. Questi studi mettono a disposizione informazioni utili a comprendere le condizioni in cui vivono i bambini e gli adolescenti nelle Regioni italiane al fine di migliorare la capacità di tutela e di effettiva promozione dei diritti dell’infanzia su tutto il territorio nazionale.  I dati di questi studi evidenziano la presenza di numerose e profonde diseguaglianze regionali a 360°, sia nella situazione dei minori stessi, sia nell’accesso e nella qualità dei servizi educativi, sociali, di assistenza e di salute offerti alle persone di minore età e alle loro famiglie. Si tratta quindi di perseguire un ideale di giustizia sociale che è sia causa che effetto della disuguaglianza delle opportunità.  È necessario a tal fine proporre una politica della vulnerabilità basata sul controllo delle condizioni che espongono le persone alla possibilità di essere ferite e al miglioramento delle condizioni di interdipendenza che assicurano una risposta ai bisogni dei bambini e delle persone adulte. La finalità è arricchire l’esperienza, espandere le capacità, soprattutto genitoriali, sostenere l’interdipendenza tra le persone e le famiglie, e tra genitori e figli nelle famiglie, grazie alla trasformazione dei loro legami sociali, in modo da condividere con le famiglie il potere di decidere e di agire, evitando di individualizzare questa cura e includendola in reti di solidarietà e di cittadinanza. È fuori di dubbio che esista una geografia delle disuguaglianze sociali, in cui difficoltà maggiori si rilevano in presenza di servizi istituzionali e reti di solidarietà informali particolarmente deboli. La pandemia e il confinamento hanno rivelato i tanti nervi scoperti del sistema sanitario, del sistema di protezione sociale e della struttura amministrativa del Paese e hanno fatto emergere le disuguaglianze in tutta la loro violenza, rendendo evidente la necessità di rafforzare la lotta alla povertà e il sistema di servizi che di essa si occupa.
Leggi di più
;