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I mini gialli dei dettati 2
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Metodo Montessori e anziani fragili Didattica
Corporeità e dimensione ludica sono le chiavi per la costruzione di contesti educativi equi
Abbiamo ripetuto quanto il gioco sia il canale di comunicazione preferenziale per il bambino: è il suo modo di aprirsi agli altri e di trasformare il mondo. Ogni essere umano, qualunque sia la condizione socio-economica o il background culturale, conosce la dimensione del gioco: si tratta di un bisogno primario dell’uomo. Come insegna Huizinga: «Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà, ma non si può negare il gioco». Per questo acquisire competenze intorno al senso e al significato delle manifestazioni spontanee del gioco è un atto democratico, di apertura  verso ogni individuo: qualunque bambino, se accompagnato nell’esplorazione del proprio gioco, può maturare competenze e, soprattutto, riconoscere una dimensione di benessere per sé stesso, con gli altri.  Essere consapevoli delle qualità educative del gioco è una importante azione di contrasto alla povertà educativa che dovrebbe essere patrimonio di educatrici/educatori, insegnanti, operatori sociali e genitori.  Le Indicazioni nazionali ci dicono che «l’educazione alla cittadinanza viene promossa attraverso esperienze significative che consentano di apprendere il concreto prendersi cura di sé stessi, degli altri e dell’ambiente e che favoriscano forme di cooperazione e solidarietà» (Comitato scientifico nazionale per le indicazioni nazionali del Ministero dell’istruzione, 2012, p. 6). Che cosa meglio del gioco spontaneo e cooperativo si muove verso questa direzione già a partire dall’infanzia?  Se si parte fin da piccolissimi a valorizzare le specificità di ciascuno in un’ottica di possibile fioritura futura delle risorse di tutti, potremo dire che da educatori avremo contribuito a diminuire lo svantaggio sociale di partenza da cui alcuni bambini partono fin dalla nascita. In quest’ottica si può strutturare un intervento con approccio psicomotorio in un servizio 0-6 anni, nella convinzione che corporeità e dimensione ludica, capisaldi della filosofia psicomotoria, siano chiavi rivelatrici per la costruzione di contesti educativi equi. I contesti di deprivazione non solo materiale ma anche educativa possono essere causa di disagi di vario tipo nei bambini.  Lavorando in quartieri di marginalità ci è capitato di notare come alcuni educatori individuino molto precocemente fragilità particolari in bambini che vivono situazioni di povertà materiale ed educativa. Capita che i genitori di questi bambini vengano immediatamente indirizzati ai servizi sanitari del territorio per una prima valutazione neuro-psichiatrica. Si parla di bambini che nella maggior parte dei casi non verrebbero presi in carico dai servizi pubblici di neuropsichiatria a livello terapeutico è risaputo inoltre quanto i servizi di neuropsichiatria siano in grande sofferenza a livello nazionale con lunghissime liste d’attesa per la presa in carico. In situazione di deprivazione economica e socio-culturale la soluzione dovrebbe risiedere in offerta di stimoli educativi continuativi a questi bambini, prima che le fragilità si trasformino in disagi persistenti, a partire dalla scuola e aprendosi alle opportunità che sempre più il Terzo settore cerca di costruire sui territori. Parliamo ad esempio di bambini esposti a più di due lingue ma in una situazione non adeguatamente monitorata che generalmente mostrano immaturità dal punto di vista linguistico. Come psicomotricisti ci siamo molto interrogati su questo tema e dalla nostra prospettiva professionale riteniamo che un adeguato accompagnamento allo sguardo psicomotorio dentro la scuola possa sostenere educatrici ed educatori ad aumentare le risorse professionali per rispondere prontamente a bambini in difficoltà a causa di ipo-stimolazione a livello sociale, educativo, culturale. Quali sono quindi gli obiettivi della proposta psicomotoria a scuola? Accrescere competenze di educatrici ed educatori a scuola nel riconoscere segnali predittivi di possibile disagio educativo (scuola dell’infanzia). Accrescere la competenza di dialogo con il territorio per il sostegno di bambini ipo-stimolati: se stimolati correttamente, è possibile prevenire il futuro manifestarsi di disagi di vario tipo. Attivare uno sguardo particolare sul lavoro di raccordo tra scuola dell’infanzia e scuola primaria. Supportare il collegio nell’ottimizzare le risorse già presenti nel corpo docente. @media (max-width: 576px){ .me-text ul li { font-size: 19px !important; line-height: 28px !important; } .me-text ol li { font-size: 19px !important; line-height: 28px !important; } } .me-text ul li { font-size: 22px; line-height: 34px; } .me-text ol li { font-size: 22px; line-height: 34px; }
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Search-ME - Erickson 1 Lavoro sociale
Non guardare solo al problema sanitario, ma prendersi a cuore anche la persona e il suo benessere. Principi non semplici in questo periodo storico
Quando una persona entra in ospedale le si chiede di fare un grandissimo sforzo: adattarsi ai tempi veloci e dinamici della struttura, spesso incompatibili con i tempi della vita. Questo sforzo lo fa il cosiddetto paziente, ma anche la sua famiglia. Sì, perché l’ospedale agisce su tempistiche che spesso non tengono conto del fatto che quando una persona entra in ospedale ha subito o sta subendo un cambiamento importante e alle volte inaspettato della sua vita. Questo non significa avere poca sensibilità o sbagliare, significa avere una finalità chiara e specifica che spesso non coincide con ciò che un paziente e la sua famiglia riescono ad affrontare con rapidità e chiarezza, come richiesto da una logica che per sua natura ha come obiettivo l’eliminazione del problema. Un problema di vita In questo contesto è però fondamentale porre attenzione al fatto che un problema sanitario (tecnico) può diventare un problema di vita, come viene definito dall’approccio relazionale. Il problema di vita, a differenza di quello sanitario in senso stretto, non può essere risolto, ma può essere fronteggiato attraverso l’azione libera, intenzionale dei soggetti impegnati verso una finalità condivisa (Folgheraiter, 2007). Cura e prendere a cuore Svolgere il ruolo di assistente sociale in ospedale significa riuscire a coniugare, o almeno lavorare insieme agli altri professionisti per unire due logiche molto importanti per il benessere della persona (paziente) che gli anglosassoni distinguono con i termini curing e caring (Folgheraiter, 1998). Con il primo termine, curing, gli anglosassoni si riferiscono a un un’idea del curare intesa come guarire. Quindi, ci si riferisce a una cura che tenta di eliminare il problema ed è intuibile come nell’ambito sanitario prioritariamente si pone l’attenzione alla patologia da rimuovere. Vanno però fatte delle precisazioni: non è detto che una determinata patologia possa essere curata in questo senso, e soprattutto anche se questo non è possibile non significa che la persona non possa continuare a vivere. Pensiamo ad esempio a tutte le patologie croniche. Ed è questa consapevolezza a portarci alla seconda accezione di cura, il caring: con questo stile di cura si mira ad assistere qualcuno con l’intenzione di «prenderselo a cuore», di avere premura di quella persona e del suo, seppur appaia relativo, benessere (Folgheraiter 2009). Questa intenzione di cura è espressa dal termine care, e vede il soggetto che la mette in atto esprimere attenzione, impegno, coinvolgimento personale diretto (Folgheraiter 2016) per raggiungere un traguardo giudicato «buono» per la persona, in questo caso il nostro paziente. L’arte di prendersi cura Coniugare queste logiche non significa mettere un pizzico di curing e un pizzico di caring come se fossero sale e pepe, ma significa comprendere quale finalità sta guidando l’azione dei soggetti coinvolti. Molte situazioni che incontrano gli operatori sanitari possono essere trattate seguendo in modo efficace la logica del curing, individuando la causa del problema ed eliminandola. In altre invece questa logica non può essere utilizzata, anzi, utilizzarla sarebbe addirittura controproducente e svilente per chi la mette in atto. In queste situazioni la finalità stessa dell’azione dei soggetti coinvolti è diversa, l’obiettivo non è quello di eliminare il problema tecnico, guarendo, ma è quello di affrontare un problema di vita, che non è eliminabile ma può essere fronteggiato da tutti i soggetti coinvolti nel raggiungimento di una finalità condivisa (Folgheraiter, 2017; Raineri, 2004). Pensiamo ad esempio alla situazione di una persona che viene trasportata d’urgenza in pronto soccorso, le viene diagnosticato un ictus e per questo viene ricoverata in un reparto ospedaliero. Si trova a dover affrontare, assieme ai propri cari, una vita diversa: da un giorno all’altro non è più in grado di camminare in autonomia, di prepararsi il pranzo, necessita di un aiuto per lavarsi, ecc. e a partire dalla degenza in ospedale è necessario ri-organizzare la vita. Seguendo la metodologia relazionale, affrontare un problema di vita significa proprio affrontare una situazione dove la difficoltà non può essere eliminata, ma può essere affrontata; dove la persona che affronta le conseguenze dell’ictus, i suoi familiari, i professionisti coinvolti collaborano con lo scopo di garantire al soggetto uno stato di benessere, seppur relativo. Il paziente di questo esempio avrà sicuramente bisogno delle terapie che gli verranno prescritte, ma avrà bisogno anche della messa in campo di azioni legate al caring. La terapia medica è importante anche nelle situazioni che vengono segnalate al servizio sociale ospedaliero, ma non è sufficiente: è una parte del lavoro che viene fatto per il ben-essere della persona. Il fatto che la terapia non sia sufficiente non è sinonimo di fallimento, ma significa agire valutando la situazione nel suo complesso e i professionisti sociali e sanitari che collaborano in ospedale hanno il delicato compito di lavorare con creatività e reattività in questo senso, valorizzando e stimolando vicendevolmente le competenze di tutti i soggetti coinvolti nella cura. Caring e curing ai tempi del coronavirus Tutto ciò vale, e probabilmente acquista anche maggior valore, in questo momento storico, in cui stiamo affrontando un’emergenza che non è solamente sanitaria. A causa del coronavirus gli ospedali sono sovraffollati, ma permane la necessità di pianificare assieme agli altri soggetti coinvolti delle progettualità assistenziali, rese ancora più ancora complesse dallo scenario che abbiamo di fronte. Gli aspetti rilevanti da tenere in considerazione sono proprio la creatività e la reattività già nominate. Come operatori, come pazienti, come caregiver stiamo dimostrando la capacità di adattarci a una situazione di difficoltà, mai affrontata e nemmeno immaginata. In un periodo di questo tipo viene messa alla prova e allo stesso tempo valorizzata la capacità di fronteggiamento degli operatori e di tutte le persone con cui questi si relazionano, in primis pazienti e familiari.
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Search-ME - Erickson 2 Lavoro sociale
L’importanza di saper realizzare cambiamenti di emergenza ed evolutivi
Il lavoro sociale ha come finalità la realizzazione di cambiamenti. Chi opera nel lavoro sociale deve tener conto della necessità di cambiamenti rapidi, e della necessità di cambiamenti evolutivi lenti. I primi riguardano esseri umani che devono salvare la loro vita. Chi sta affogando ha bisogno di essere portato in salvo al più presto. Alle spalle del salvataggio c’è un’organizzazione dei salvataggi. Chi opera può trovarsi imbrigliato, intrappolato, nell’organizzazione che potrebbe non essere adeguata alle esigenze dei tempi, dovendo a sua volta tener conto di un’impalcatura di regole e di una normativa un po’ polverosa. Per questo diciamo che chi opera nel lavoro sociale deve essere un equilibrista: deve mantenere un equilibrio, anche caratteriale, fra due tipi di cambiamento a cui il suo operare può e deve contribuire. È l’equilibrio professionale. Il tempo del cambiamento del salvataggio sembrerebbe essere solo e unicamente quello dell’immediatezza. È davvero così? Non sempre. Chi opera nel lavoro sociale con un ruolo professionale deve tener conto dell’apparato istituzionale. Non deve usare solo l’acceleratore, ma anche le diverse marce dell’auto, e quindi anche il freno e la frizione. Senza dimenticare il volante e le segnalazioni luminose. Per accelerare, a volta è bene rallentare. L’apparato complesso che nella nostra metafora è l’automobile ha bisogno di cambiare evolvendo. Anche chi sta affogando dovrebbe cambiare evolvendo, per non ritrovarsi nelle condizioni che portavano all’annegamento. I due cambiamenti, quello dell’immediatezza e quello dell’evoluzione, devono contaminarsi. Il primo permette l’altro. Il primo riesce meglio avendo fiducia nell’altro. E contribuendo alla sua realizzazione: alla fiducia va aggiunta la capacità di attendere, la pazienza. Evolviamo lentamente e cambiamo profondamente se non ci accontentiamo della sopravvivenza immediata. L’evoluzione deve procedere come fa chi si arrampica in montagna, facendo roccia. Deve sentirsi quadrupede, e muovere un piede o una mano solo avendo le altre tre membra ben salde. Il cambiamento di chi fa roccia fa un uso prudente, parsimonioso, dell’immediatezza. Deve essere un’immediatezza ponderata. Sembra un paradosso. È il paradosso in cui vive e può svilupparsi il lavoro sociale: chi ha un ruolo professionale deve farsi carico del doppio cambiamento, quello del pronto soccorso e quello dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. L’efficienza e l’efficacia dell’immediatezza del pronto soccorso va documentata in modo da favorire il cambiamento evolutivo dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. È una tappa di percorso delicata e insidiosa. L’apparato istituzionale, vedendo efficienza ed efficacia, potrebbe ritenere che non ci sia bisogno di alcun cambiamento. È così. Il cambiamento evolutivo è sorprendente a posteriori. Nel suo svolgimento è inavvertito. Chi ha un ruolo professionale dovrebbe stare nel tempo dell’immediatezza e in quello del cambiamento evolutivo. Evitando di scegliere l’uno o l’altro. L’uno e l’altro. Meglio: uno è nell’altro. Non è un compito facile. Non si impara in una formazione formale. È una pratica, una capacità, che nella nostra cultura si è sovente nascosta nelle donne. Consiste in quelle pratiche di routine che sembrano sempre uguali, ma coinvolgono gradualmente la partecipazione attiva dell’altro, come ad esempio un essere umano che sta crescendo. Aiutano e permettono un cambiamento evolutivo grazie alla sicurezza fornita da gesti, orari, suoni e parole, che sembrano sempre uguali. I “quadri” dell’apparato istituzionale possono assumere queste capacità? La risposta non dovrebbe ridursi alla scelta fra il sì e il no. Siamo accecati dallo stereotipo che ci fa vedere in chi dirige un guardiano inflessibile, e quindi un po’ rigido, dell’ordine stabilito una volta per tutte, senza fantasie e avventure. Ogni stereotipo contiene qualche verità e nello stesso tempo impedisce di vedere qualche verità. Nel lavoro sociale è importante allenarsi al discernimento, per non essere accecati dagli stereotipi. Essendo il lavoro sociale un lavoro di filiera, il discernimento è facilitato e reso possibile. Una filiera è composta da diverse produzioni che si collegano l’una all’altra, trasmettendosi ciascuno la propria produzione. Questa viene accolta e integrata, a volte con apposito trattamento, in una nuova produzione a sua volta trasmessa. La suddivisione del tempo, nella filiera, diventa uno strumento fondamentale per non polarizzare la propria vita in “sconfitto”/“vincente”. C’è chi vive il momento di sconfitta, e chi, in quello stesso momento, è vincente. In un altro momento i ruoli potrebbero essersi scambiati le parti. La suddivisione del tempo nella filiera non inchioda nessuno a un momento. Nella notte dei tempi, e non solo, gli esseri umani hanno alzato lo sguardo. Di giorno si sono orientati con il sole. Di notte con le stelle. Gli esseri umani, essendo nomadi imperfetti e operosi, si sono organizzati guardando in alto. Allargando l’orizzonte e cercando un punto di riferimento alto, in cui poter riporre fiducia. Può sembrare strano e paradossale: questa organizzazione spaziale è organizzazione mentale. La mente di un essere umano ha sviluppato al suo interno un’organizzazione più ampia e complessa rispetto agli altri esseri viventi. Per riconoscere, occorre ricordare. E possiamo farlo in maniera individuale e solitaria, con scarsi risultati rispetto a nostro costante bisogno di appartenenza. Gli esseri umani sono nomadi operosi sociali. Dobbiamo, quindi, avere memoria aperta alla condivisione. È una memoria nomade. Deve avere un bagaglio di conoscenze e sapere utilizzare quelle adatte alla specificità del contesto. Senza la presunzione di possedere tutte le conoscenze utili. L’incontro con l’altro è apertura alle sue conoscenze. Banalizzando, se andiamo in un posto e cerchiamo una certa strada, domandiamo a chi ci sembra del posto. Nelle pieghe della storia dell’umanità si nascondono quegli esploratori di terre che non conoscevano e che visitavano con bagaglio leggero e la speranza di trovare una popolazione autoctona a cui poter domandare. Chi conosceva quel posto poteva dire come difendersi da pericoli, come affrontare il freddo e il caldo, come nutrirsi, e forse poteva offrire un riparo per la notte. In cambio, l’autoctono poteva ricevere notizie. Tra le parti si sviluppava un insegnamento linguistico reciproco, aiutato da gesti, oggetti, segnali che diventavano condivisi. È il cambiamento evolutivo, bellezza!
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Search-ME - Erickson 3 Lavoro sociale
In questo periodo di emergenza coronavirus sono tanti gli operatori del sociale e del sanitario che stanno lavorando, “riscoprendo” il loro ruolo e quello dei servizi.
Sono uno dei tanti operatori del sociale e del sanitario che in questo periodo di emergenza coronavirus stanno lavorando, perché molti dei nostri servizi non possono chiudere. Ci sono persone che stanno passando una parte della loro esistenza nei nostri servizi e quando sentono lo slogan #iorestoacasa pensano a come trascorreranno questo tempo lì: casa per loro è proprio il nostro posto di lavoro. Provo a cogliere l’invito di Fabio Folgheraiter, che chiama tutti noi che ci occupiamo di social work al dovere scientifico e morale di riflettere in questo momento particolare. Per farlo provo a proporre 5 ri-scoperte di lavoro sociale, pensate in questo tempo “sospeso”. Riscoprire la squadra nella nostra vita da mediano. Ogni giorno abbiamo negli occhi le immagini degli operatori della sanità con i segni delle mascherine, con i segni di una giornata in cui sono stati emotivamente violentati: sono le nostre prime linee, sono quelli che il mondo dei social arriva velocemente a chiamare “eroi” o “angeli”. Qualcuno di noi operatori sociosanitari sta provando timidamente ad alzare la mano dicendo “ehi ci siamo anche noi”, le seconde linee, quelle nelle comunità per disabili, quelli nelle RSA, quelli che devono convincere i minori a stare in casa. Vorrei che ri-scoprissimo di far parte della stessa squadra di un sistema sanitario e sociale con diversi servizi, professionisti con ruoli e funzioni che si integrano. Lo stiamo vedendo che siamo nella stessa squadra quando le mascherine si esauriscono in ospedale come nelle comunità, lo vediamo quando gli operatori si contagiano in ospedale come in RSA. Ne usciremo, ne siamo certi, un po’ malconci, ma con la convinzione che abbiamo e dobbiamo avere un sistema, una squadra di professionisti sociali e sanitari che sanno rispondere ai bisogni delle persone. Da oggi in poi la narrazione dovrà essere quella di far parte di una grande squadra. Riscoprire le nostre radici in Don Milani: “Sortirne tutti assieme, non uno di meno”. Ci ha fatto “rabbrividire” la prima posizione del premier britannico Boris Johnson: “abituatevi a perdere i vostri cari’. Abbiamo riscoperto in maniera chiara, forse ancora di più quando lottavamo qualche mese fa con chi tentava di definire chi può accedere ai servizi e chi no (ricordate la lotta contro i 10 anni di residenza per accedere ai servizi?).  Il valore è e rimane l’universalità dei servizi alla persona: se un essere umano sta male, ha bisogno, si aiuta senza “se” e senza “ma”. Questo stiamo vedendo succedere negli ospedali, questo abbiamo visto succedere in mare, questo vediamo succedere nei nostri servizi. Mi è piaciuto molto il post di Mauro Berruto, allenatore di pallavolo, che vi consiglio di leggere: rimanda al signor Boris Johnson l’immagine della scultura Enea, Anchise e Ascanio di Gian Lorenzo Bernini. Quella scultura rappresenta “non uno di meno”. Riscoprire che siamo intelligenti, noi operatori e anche i nostri utenti.  Per intelligenza intendo la capacità di adattarsi in maniera funzionale ai cambiamenti. Per anni abbiamo sostenuto l’importanza del setting, del non cambiare le routine, altrimenti i nostri utenti si sarebbero scompensati, dell’importanza della quotidianità scandita. Tutti temi che conosco bene e che credo fortemente siano fondati, ma tendo a chiedermi se non siano resistenze al cambiamento.  La situazione che stiamo vivendo, certo intrinsecamente destrutturante, ci ha fatto riscoprire la capacità degli operatori di re-inventarsi servizi in meno di una settimana, con risultati eccellenti.  Anche le persone che accogliamo hanno dato risposte di adattamento che non ci saremmo aspettati. Certo non tutte, ma c’è anche chi ha percepito la storicità del momento, aiutando ad accompagnare se stesso e gli operatori nelle nuove situazioni, avvertendo e trasmettendo fiducia e sviluppando un senso di autoefficacia. Riscoprire i confini delle nostre comunità. In questi giorni si è parlato molto di tempo: tempo “sospeso”, il prima e il dopo, l’attesa. I decreti governativi hanno però inciso molto anche sullo spazio, sui nostri spazi vitali: le comunità residenziali hanno visto restringere i propri confini. Sento che in questi giorni le persone che vivono la comunità dove lavoro si sentono private della libertà: non possono scegliere. Dal punto di vista contingente questo creerà inevitabilmente dei problemi da gestire (ad esempio, legati al convivere in spazi ristretti).  Ma se guardiamo un po’ più da lontano, possiamo misurare da quello che succede in questi giorni quanto il nostro lavoro sia effettivamente orientato alla libertà delle persone, di quanto ampi siano i nostri confini quando diciamo che i nostri utenti debbano essere attivi e partecipi nella comunità. Riscoprire i nostri colleghi.  Lavorare in questo periodo ci fa scoprire parti nostre e parti dei nostri colleghi che non conoscevamo. Citando Stefano Benni in Saltatempo, ho “scoperto una cosa molto semplice: che ci sono responsabilità che uno accetta con coraggio e decisione e altre che ti cadono addosso, pesanti e incomprensibili, e tu devi affrontare le seconde proprio come le prime”. Sto conoscendo molti copioni diversi miei e dei miei colleghi e vorrei descriverne alcuni prendendo spunto da Enzo Jannacci con la sua Quelli che, scritta nel 1975 ma sempre attualissima, per proporre la nostra personale Quegli operatori che... Quelli che speriamo non succeda niente agli utenti Quelli che vengo al lavoro, tutto il tempo a casa non resisto Quelli che di mestiere ti spengono il cero Quelli che il virus non ci risulta Quelli che l’animazione a mille Quelli che fanno la videochiamata con l’utente Quelli che da tre anni fanno un lavoro d'equipe convinti d'essere stati assunti da un'altra ditta Quelli che ci credono senza “se” e senza “ma” Quelli che ma siamo in ferie, in cassa integrazione, in permesso, o lavoriamo? Quelli che per principio non per i soldi Quelli che stanno in malattia fino a metà aprile Quelli che non abbandonano la nave Quelli che è tutta un’esagerazione Quelli che organizzano tutto Quelli che organizzeranno quando sarà tutto finito Quelli che fanno un mestiere come un altro Quelli che aspettano la fine ridendo e scherzando Quelli che Venezia sott’acqua, il Virus, e l’anno bisesto Quelli che nell’imprevedibile si realizza un senso profondo di verità e anche, persino, di “utilità” professionale Quelli che andrà tutto bene.
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Search-ME - Erickson 4 Lavoro sociale
Ripartiamo dalla bellezza degli spazi in cui lavorare, progettare, giocare per condizionare in modo positivo l’esperienza del vivere
Ho trovato il senso di questa dicotomia umana in una frase attribuita ad una donna straordinaria: Edith Stein. “Ogni persona deve scegliere se camminerà nella luce dell’altruismo creativo o nel buio dell’egoismo distruttivo”. (Sinclair J.,Edith Stein .Una rosa d’inverno) Questo della luce è un tema ricorsivo in molti personaggi più o meno famosi e anche molto diversi fra loro: potremmo considerarla una metafora della Bellezza. Mauro Berruto è stato allenatore della nazionale di Pallavolo. Gli viene proposto di formare una squadra con un gruppo di ospiti di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Detta una sola condizione: l’attività si deve svolgere non in una palestra qualsiasi ma nel Palasport di Montichiari, bellissimo. Volevo creare intorno a quegli uomini delle condizioni di eccellenza: la rete, quella bella, i palloni ufficiali, le magliette di allenamento preparate negli spogliatoi, tutte le luci accese. Insomma tutto era perfetto, pulito, ordinato, luminoso. Ci allenammo per circa sei mesi pieni di emozioni che crescevano di allenamento in allenamento. Mai una defezione, mai una rinuncia. Io, in qualità di allenatore ero parte della coreografia: la differenza lo aveva fatto il luogo, la sua bellezza li aveva trasformati. Un report indicava che le necessità di psicofarmaci di quelle persone erano clamorosamente diminuite. Avevo imparato che la bellezza di ciò che ci circonda incide sul nostro comportamento. Adriano Olivetti eredita dal padre una fabbrica che nella sua austerità è molto bella ma lui ha altre idee: dice che non vuole lavorare nel buio e che lo spazio deve essere adatto per gli operai e non viceversa. La luce deve entrare in fabbrica. La bellezza si esprime perché entra luce. Afferma che “bisogna reintrodurre la bellezza nella società in vari modi e uno di questi è portare la bellezza negli oggetti ma che per produrre bellezza è necessario lavorare in un luogo di bellezza. Se devi tornarci è bene che il luogo sia bello! Ma non basta perché è convinto che sia necessario andare oltre l’orizzonte del possibile e la Bellezza è un orizzonte del possibile e quindi è necessario che l’uomo viva in armonia anche con il paesaggio e possa prendersi cura del territorio. Cambiano gli attori, le finalità, i tempi e i luoghi, ma il filo conduttore è sempre lo stesso: un’attenzione particolare nella costruzione e nella gestione degli spazi in cui vivere, lavorare, progettare, giocare. In altre parole è fondamentale aver cura del contesto. “L’essere umano sviluppa un progetto appoggiato da un paesaggio, che è un contesto capace di interagire, fornendo una base di appoggio ampia e quindi capace di sostenere un progetto ampiamente evolutivo” come afferma Andrea Canevaro. Credo che una buonissima “base d’appoggio” possa essere la Bellezza che rende possibile la sensazione positiva di benessere che può condizionare positivamente l’esperienza del vivere. Ma c’è di più: la bellezza ha in sé anche la forza di contrastare la rassegnazione, la paura “non ci può salvare, non ci può redimere, né tanto meno può eliminare il dolore o mettere a freno la morte. La bellezza ci salverà e ci salva tutt’ora dal mostro della disperazione. (Z.Bauman, A.Heller, La bellezza (non) ci salverà). Ma c’è anche un nesso fra bellezza e giustizia: C’è un legame che non può essere disgiunto, e ciò che è bello, se vuole essere etico e non cosmetico, non può prescindere dalla tensione costante ad essere anche giusto" (Murgia M. Futuro interiore.) Insomma, per andare oltre la sofferenza e per non avere più bisogno di eroi, bisogna affidarsi alla Bellezza.
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Search-ME - Erickson 5 Disabilità
Utilità e applicazioni della «pratica del prestare attenzione»
Che cos’è la mindfulness? La risposta più semplice a questa domanda potrebbe essere: la pratica del prestare attenzione, sapere dov’è e poter scegliere dove dirigerla. Potremmo anche dire che la mindfulness è una forma di «meditazione di consapevolezza» ampiamente praticata da millenni, anche se negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera esplosione dell’interesse e delle ricerche a riguardo. A chi può essere utile? La mindfulness ha molte applicazioni pratiche in cui si dimostra assai utile, compresi i seguenti ambiti: salute mentale: prevenzione delle ricadute nella depressione, ansia, disturbo di panico, stress, regolazione emotiva e promozione dell’intelligenza emotiva, miglioramento della qualità del sonno, disturbi di personalità, dipendenze; neurologico: cambiamenti strutturali e funzioni nel cervello, neurogenesi, miglioramento del funzionamento esecutivo, miglioramento della circolazione sanguigna e possibile prevenzione della demenza; clinico: gestione del dolore, controllo dei sintomi, fronteggiamento di malattie come il cancro, benefici metabolici, alterazioni ormonali e cambiamenti nella funzione e nella riparazione genetica; prestazionale: sport, studio e leadership; spirituale: pace profonda, percezione netta (insight), unità. Come si pratica? La scansione corporea è l’esercizio di consapevolezza più praticato e, in genere, il migliore per cominciare. Consiste nel prendere consapevolezza di ciascuna parte del corpo, partendo dai piedi, e lasciando che l’attenzione resti lì per un po’, percependo tutto quel che c’è da percepire. Altre forme di «meditazione di consapevolezza» includono: l’attenzione al respiro e l’ascolto consapevole. Si può praticare la meditazione di consapevolezza anche con gli altri sensi, compresi il gusto e l’olfatto. Come iniziare? Per chi si accosta alla mindfulness per la prima volta, una buona «dose iniziale» potrebbe essere un esercizio di 5 minuti per due volte al giorno. La durata dell’esercizio può essere portata a 10, poi a 15, poi a 20 fino anche a 30 minuti o più. Per la meditazione raccomandiamo la posizione da seduti, perché in verticale è più difficile addormentarsi. Si può praticare a occhi aperti, ma chiudendoli è più facile far entrare in gioco gli altri sensi, quelli che di solito trascuriamo. Spesso la gente pensa che la mindfulness sia un esercizio di rilassamento poiché, non di rado, quando la si pratica ci si rilassa. Ma in realtà è innanzitutto una pratica di allenamento dell’attenzione, e il rilassamento è più che altro un effetto collaterale. Com’è nata la mindfulness? La pratica della meditazione è stata divulgata per la prima volta in Occidente alla fine degli anni Cinquanta, quando Maharishi Mahesh Yogi introdusse in California la meditazione trascendentale. Nel decennio successivo, Herbert Benson condusse all’Università di Harvard le prime ricerche scientifiche sull’antico fenomeno della meditazione che ora faceva tendenza. Benson capì che la meditazione produce una risposta contraria a quella dello stress e introdusse l’espressione «risposta di rilassamento» nel suo famoso libro sull’argomento, The relaxation response (Benson, 1975).
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