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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Lavoro sociale
L’importanza di saper realizzare cambiamenti di emergenza ed evolutivi
Il lavoro sociale ha come finalità la realizzazione di cambiamenti. Chi opera nel lavoro sociale deve tener conto della necessità di cambiamenti rapidi, e della necessità di cambiamenti evolutivi lenti. I primi riguardano esseri umani che devono salvare la loro vita. Chi sta affogando ha bisogno di essere portato in salvo al più presto. Alle spalle del salvataggio c’è un’organizzazione dei salvataggi. Chi opera può trovarsi imbrigliato, intrappolato, nell’organizzazione che potrebbe non essere adeguata alle esigenze dei tempi, dovendo a sua volta tener conto di un’impalcatura di regole e di una normativa un po’ polverosa. Per questo diciamo che chi opera nel lavoro sociale deve essere un equilibrista: deve mantenere un equilibrio, anche caratteriale, fra due tipi di cambiamento a cui il suo operare può e deve contribuire. È l’equilibrio professionale. Il tempo del cambiamento del salvataggio sembrerebbe essere solo e unicamente quello dell’immediatezza. È davvero così? Non sempre. Chi opera nel lavoro sociale con un ruolo professionale deve tener conto dell’apparato istituzionale. Non deve usare solo l’acceleratore, ma anche le diverse marce dell’auto, e quindi anche il freno e la frizione. Senza dimenticare il volante e le segnalazioni luminose. Per accelerare, a volta è bene rallentare. L’apparato complesso che nella nostra metafora è l’automobile ha bisogno di cambiare evolvendo. Anche chi sta affogando dovrebbe cambiare evolvendo, per non ritrovarsi nelle condizioni che portavano all’annegamento. I due cambiamenti, quello dell’immediatezza e quello dell’evoluzione, devono contaminarsi. Il primo permette l’altro. Il primo riesce meglio avendo fiducia nell’altro. E contribuendo alla sua realizzazione: alla fiducia va aggiunta la capacità di attendere, la pazienza. Evolviamo lentamente e cambiamo profondamente se non ci accontentiamo della sopravvivenza immediata. L’evoluzione deve procedere come fa chi si arrampica in montagna, facendo roccia. Deve sentirsi quadrupede, e muovere un piede o una mano solo avendo le altre tre membra ben salde. Il cambiamento di chi fa roccia fa un uso prudente, parsimonioso, dell’immediatezza. Deve essere un’immediatezza ponderata. Sembra un paradosso. È il paradosso in cui vive e può svilupparsi il lavoro sociale: chi ha un ruolo professionale deve farsi carico del doppio cambiamento, quello del pronto soccorso e quello dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. L’efficienza e l’efficacia dell’immediatezza del pronto soccorso va documentata in modo da favorire il cambiamento evolutivo dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. È una tappa di percorso delicata e insidiosa. L’apparato istituzionale, vedendo efficienza ed efficacia, potrebbe ritenere che non ci sia bisogno di alcun cambiamento. È così. Il cambiamento evolutivo è sorprendente a posteriori. Nel suo svolgimento è inavvertito. Chi ha un ruolo professionale dovrebbe stare nel tempo dell’immediatezza e in quello del cambiamento evolutivo. Evitando di scegliere l’uno o l’altro. L’uno e l’altro. Meglio: uno è nell’altro. Non è un compito facile. Non si impara in una formazione formale. È una pratica, una capacità, che nella nostra cultura si è sovente nascosta nelle donne. Consiste in quelle pratiche di routine che sembrano sempre uguali, ma coinvolgono gradualmente la partecipazione attiva dell’altro, come ad esempio un essere umano che sta crescendo. Aiutano e permettono un cambiamento evolutivo grazie alla sicurezza fornita da gesti, orari, suoni e parole, che sembrano sempre uguali. I “quadri” dell’apparato istituzionale possono assumere queste capacità? La risposta non dovrebbe ridursi alla scelta fra il sì e il no. Siamo accecati dallo stereotipo che ci fa vedere in chi dirige un guardiano inflessibile, e quindi un po’ rigido, dell’ordine stabilito una volta per tutte, senza fantasie e avventure. Ogni stereotipo contiene qualche verità e nello stesso tempo impedisce di vedere qualche verità. Nel lavoro sociale è importante allenarsi al discernimento, per non essere accecati dagli stereotipi. Essendo il lavoro sociale un lavoro di filiera, il discernimento è facilitato e reso possibile. Una filiera è composta da diverse produzioni che si collegano l’una all’altra, trasmettendosi ciascuno la propria produzione. Questa viene accolta e integrata, a volte con apposito trattamento, in una nuova produzione a sua volta trasmessa. La suddivisione del tempo, nella filiera, diventa uno strumento fondamentale per non polarizzare la propria vita in “sconfitto”/“vincente”. C’è chi vive il momento di sconfitta, e chi, in quello stesso momento, è vincente. In un altro momento i ruoli potrebbero essersi scambiati le parti. La suddivisione del tempo nella filiera non inchioda nessuno a un momento. Nella notte dei tempi, e non solo, gli esseri umani hanno alzato lo sguardo. Di giorno si sono orientati con il sole. Di notte con le stelle. Gli esseri umani, essendo nomadi imperfetti e operosi, si sono organizzati guardando in alto. Allargando l’orizzonte e cercando un punto di riferimento alto, in cui poter riporre fiducia. Può sembrare strano e paradossale: questa organizzazione spaziale è organizzazione mentale. La mente di un essere umano ha sviluppato al suo interno un’organizzazione più ampia e complessa rispetto agli altri esseri viventi. Per riconoscere, occorre ricordare. E possiamo farlo in maniera individuale e solitaria, con scarsi risultati rispetto a nostro costante bisogno di appartenenza. Gli esseri umani sono nomadi operosi sociali. Dobbiamo, quindi, avere memoria aperta alla condivisione. È una memoria nomade. Deve avere un bagaglio di conoscenze e sapere utilizzare quelle adatte alla specificità del contesto. Senza la presunzione di possedere tutte le conoscenze utili. L’incontro con l’altro è apertura alle sue conoscenze. Banalizzando, se andiamo in un posto e cerchiamo una certa strada, domandiamo a chi ci sembra del posto. Nelle pieghe della storia dell’umanità si nascondono quegli esploratori di terre che non conoscevano e che visitavano con bagaglio leggero e la speranza di trovare una popolazione autoctona a cui poter domandare. Chi conosceva quel posto poteva dire come difendersi da pericoli, come affrontare il freddo e il caldo, come nutrirsi, e forse poteva offrire un riparo per la notte. In cambio, l’autoctono poteva ricevere notizie. Tra le parti si sviluppava un insegnamento linguistico reciproco, aiutato da gesti, oggetti, segnali che diventavano condivisi. È il cambiamento evolutivo, bellezza!
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Search-ME - Erickson 2 Lavoro sociale
L’invecchiamento delle persone con disabilità intellettive pone nuove sfide al Lavoro Sociale
Negli ultimi decenni le condizioni di vita nella nostra società sono notevolmente migliorate, producendo un aumento delle aspettative di vita, con un conseguente innalzamento dell’età media della popolazione. Questo fenomeno di progressivo invecchiamento rappresenta uno dei temi più dibattuti sul futuro dell’Europa, e ci costringe a interrogarci anche sul futuro delle persone con disabilità. Oggi, infatti, siamo di fronte alla prima generazione di persone con disabilità che vive a lungo: basti pensare per esempio che negli anni Trenta del secolo scorso la sindrome di Down era considerata una condizione pediatrica e la speranza di vita non arrivava alla maggiore età. Questa realtà ci mette di fronte a nuovi cambiamenti e a questioni che fino a pochi decenni fa non venivano nemmeno prese in considerazione. Spesso le istituzioni sembrano fare fatica a gestire queste situazioni, sia a livello di singolo caso (l’invecchiamento porta con sé deficit che si aggiungono a precedenti disturbi del neurosviluppo, con evidenti ripercussioni sulla persona) e nel macrocontesto (le nuove sfide poste al Lavoro Sociale e ai suoi operatori, ma anche agli stessi familiari).  Per fronteggiare il problema dell’invecchiamento delle persone con disabilità intellettiva servono strumenti che aiutino a distinguere la condizione di deficit legata a una sindrome del neurosviluppo da quella determinata dall’avanzamento nell’età.  Questo richiede un diverso approccio, culturale, sociale, ma anche professionale, che ponga al centro una riflessione globale sul fenomeno, che metta in primo piano i diritti delle persone con disabilità intellettive e che consideri la qualità di vita degli individui come obiettivo principale di qualsiasi intervento. Sappiamo che, con il procedere dell’età, alcune funzioni tendono a declinare o a rallentare, che altre rimangono inalterate e che questi cambiamenti sono naturali. Riconoscere questo processo nelle persone con disabilità intellettiva pone nuove sfide ai familiari, ai servizi e alle persone stesse che invecchiano. Diventa quindi fondamentale valutare correttamente la persona, il suo bisogno di sostegno, il livello di stimolazione più adeguato al momento della vita in cui si trova. Esistono strumenti provenienti dalla letteratura internazionale che permettono di effettuare lo screening per la demenza anche in persone con disabilità intellettiva: un passo importantissimo, che diventerebbe ancor più fondamentale se si lavorasse in parallelo sull’inclusione delle persone con disturbi del neurosviluppo nel Piano nazionale demenze, come raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità e come già è stato fatto negli Stati Uniti e alcuni Paesi europei. Un altro aspetto da sottolineare è che in Italia quasi il 50% delle persone con disabilità intellettiva vicina all’età anziana vive in casa e l’aumento delle patologie tipiche dell’invecchiamento aumenta le difficoltà che i carer e gli stessi adulti con questa forma di disabilità devono affrontare. Diventano cruciali interventi che permettano un adeguato contesto ambientale e relazionale, affinché la persona sia accompagnata a vivere in modo dignitoso questa condizione.   L’articolo completo a cura di Tiziano Gomiero, Coordinatore Project DAD di ANFFAS Trentino è disponibile sul numero di agosto 2019 della rivista Erickson Lavoro Sociale.
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Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Natura e oggetto del lavoro sociale, una professione diversa da tutte le altre proprio per la “materia” che tratta
Un confronto tra professioni mediche e professioni sociali Il lavoro sociale, oltre a essere definito analiticamente nella propria suddivisione interna, può anche essere compreso per «contrapposizione» esterna. In particolare, si definisce in contrasto all’altra importante, e forse più popolare, area di aiuto, che è quella sanitaria (o clinica). Che cosa distingue le sopracitate professioni sociali, prese nel loro insieme, dalle professioni mediche tradizionali risulta intuitivamente evidente. Ma non altrettanto chiara è la distinzione rispetto a professioni come la psicologia clinica e la psicoterapia, le quali aderiscono al modello medico ma si occupano della riparazione di disagi psicologici e comportamentali apparentemente simili, se non identici, a quelli di cui si occupa il lavoro sociale. La cura di un malato di mente può essere responsabilità di operatori sanitari (il medico psichiatra, l’infermiere, lo psicologo esperto di riabilitazione comportamentale, ecc.) oppure di operatori sociali, come l’assistente sociale o l’educatore professionale. E quindi dov’è la differenza? Volendo abbozzare un minimo di ragionamento epistemologico ci si dovrebbe chiedere: qual è il differente oggetto? Due diverse accezioni del termine “cura” Nel linguaggio anglosassone specializzato, il termine «cura» è espresso in due differenti accezioni, a seconda che si voglia indicare la cura sanitaria o quella sociale. Nel primo caso si usa il vocabolo curing, che significa curare con l’intenzione di guarire. Nel secondo si usa il termine caring, che significa curare con l’intenzione di migliorare la qualità di vita, a prescindere dalla persistenza o meno della patologia (o della sua stessa esistenza ab origine). Lo sforzo di guarire implica sempre la ricerca di una precisa malattia (diagnosi) e di qui la ricerca (o la semplice attivazione) di un preciso corrispondente procedimento riparativo (trattamento). Lo schema diagnosi/trattamento caratterizza il modello medico, un filtro logico che, qualora trasferito nel sociale, semplifica in genere la complessità delle situazioni di disagio sociale talora al punto da oscurarle. Spesso le professioni sociali hanno fatto proprio tale incongruo modello per una sorta di attrazione inconscia, sostenuta in parte dalla maggiore semplicità cognitiva di tale approccio e in parte dal suo più alto status intrinseco. Al cuore del lavoro sociale: l’azione coordinata di più soggetti per una finalità condivisa Il lavoro sociale è un modo di guardare ai problemi sociali senza il filtro della patologia. Non si nega che molte manifestazioni di disagio sociale siano connesse a (o causate da) qualche evidente anomalia strutturale formalmente diagnosticabile, cioè qualche malattia, come ad esempio una psicosi, o una dipendenza psicofisica, o un deficit sensoriale, ecc. Ma anche in tali casi, quando la patologia «c’è» senza dubbio — diciamo così per semplificare, chiedendo venia ai costruzionisti —, l’operatore sociale, pur tenendone conto, la «bypassa» con la mente e mette a fuoco una realtà sovrastante di altro ordine: appunto il sociale di cui parliamo. L’operatore sociale ha il dovere di mettere a fuoco il sociale, altrimenti non si capisce perché possieda proprio quel nome preciso, e non un altro qualsiasi. Sfortunatamente si tratta di una percezione non proprio intuitiva, ma che non richiede tuttavia un’eccessiva propensione analitica, solo un minimo di attenzione in più. Il concetto che ci aiuta in tale percezione è quello di «azione intersoggettiva dotata di senso», caro ai fenomenologi. Il sociale di cui parliamo può essere appunto descritto come azione finalizzata di più persone interconnesse nel perseguimento di scopi condivisi, considerati dagli agenti degni di essere raggiunti in vista del loro stesso benessere. Entro questa cornice concettuale potremmo osservare situazioni correlate a malattie sanitarie anche gravi (per esempio, una malattia di Alzheimer) che tuttavia non costituiscono problema dal punto di vista specifico del lavoro sociale, qualora la capacità di azione dei soggetti coinvolti in quella specifica contingenza (il malato stesso per qualche parte, alcuni familiari o amici o alcuni specialisti professionali, ecc.) risulti adeguata a un fronteggiamento sufficiente della stessa, secondo il loro stesso giudizio. Viceversa è possibile individuare situazioni in cui non vi è alcuna malattia riscontrabile entro i parametri della sanità, e tuttavia è ben evidente anche all’occhio del profano una disfunzione sociale eclatante, attribuibile appunto alla carente capacità di azione dei soggetti coinvolti. Tutti gli agenti potrebbero essere abili, per così dire, sul piano della struttura psicofisica sottostante, rimanendo tuttavia deficitaria l’azione «sensata» emergente. È questo il caso ad esempio di situazioni di devianza, come quella di un minore non gestito dalle sue relazioni di vita che entra nel circuito penale; oppure di situazioni di conflitto relazionale all’interno della famiglia; o ancora, considerando realtà a valenza collettiva, situazioni di deprivazione socioculturale in ambienti svantaggiati, e così via. Il lavoro dei professionisti del sociale tra empowerment e rel-azione Il lavoro sociale come disciplina/prassi intenzionale studia e sostiene la capacità di azione tecnica dei professionisti del sociale. Questa azione si esplica tuttavia nel sostenere e potenziare («empower») la capacità di azione naturale delle persone direttamente o indirettamente interessate allo stesso benessere di cui il professionista, per dovere d’ufficio, deve occuparsi. Di azione si tratta quando parliamo di ciò che fa il professionista e di azione si tratta quando ci riferiamo alle persone coinvolte, sue interlocutrici. È evidente allora che il lavoro sociale, occupandosi di come un’azione possa stimolare e orientare altre azioni, sia nella sua essenza più fine rel-azione sociale. La relazione richiama l’idea della circolarità e della reciprocità degli influssi in entrambe le parti coinvolte, parti che, quando si parla di relazioni sociali, sono appunto soggetti umani agenti. Le distinzioni legate ai differenti status/ruoli in capo ai differenti soggetti non vengono del tutto superate, ma si sfumano. Questa teoria ha importanti implicazioni sul piano operativo, al punto da staccare il lavoro sociale dalla base dei mestieri tradizionali, e farne un corpus a sé. Tutte le professioni conosciute hanno una caratura tecnologica, avendo esse un oggetto statico che attira la manipolazione esterna dell’operatore esperto. Il lavoro sociale non è una tecnologia perché non ha oggetto, o meglio ha un oggetto epistemologico che è l’esatto contrario di ciò che tale termine lascia intendere. L’oggetto del lavoro sociale è una pluralità di soggetti (una rete) e quindi di autonome fonti di azione intersecantisi. In concreto, ciò vuole dire che gli utenti «non esistono» essendo essi, quando li si vede come agenti, degli «operatori» di benessere in qualche grado (che sfortunatamente a volte è un grado basso, ma mai completamente nullo). L’utente e le persone che si trovano in relazione con lui sono coterapeuti rispetto all’operatore che ufficialmente avrebbe in mano l’aiuto. A sua volta l’operatore risulta «coutente», cioè bisognoso di integrazioni esterne rispetto alla sua capacità di azione, la quale è sempre strutturalmente inadatta a perseguire scopi o a sviluppare progetti di azione per via autoreferenziale. Quando c’è di mezzo il benessere intersoggettivo, i suddetti scopi o progetti non possono mai essere del tutto coincidenti con quelli di un singolo individuo, nemmeno se questo è in una posizione di potere tale da farlo sentire autorizzato a pensare in tal modo. Quando gli scopi non sono condivisi, quando il potere d’azione (empowerment) non è ripartito tra gli agenti, i dinamismi relazionali finalizzati al bene comune si inceppano e lasciano campo aperto ai problemi sociali di vario ordine.
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Search-ME - Erickson 3 Lavoro sociale
Uno studio rileva il continuum di violenze nei vissuti di donne e madri «dalla pelle nera»
Il crescente arrivo di donne in gravidanza è uno dei temi al centro del dibattito politico e mediatico sulle migrazioni attraverso il Mediterraneo Centrale. La visione umanitaria, secondo cui le donne in gravidanza sono soggetti che «meritano» più di altre categorie di migranti di essere salvate e accolte in Europa si contrappone alla visione securitaria, secondo cui le migranti in gravidanza vanno intese come soggetti che approfitterebbero dello stato di gravidanza per avere maggiori aiuti da parte degli Stati in cui sono accolte, sia sul piano dell’assistenza sanitaria sia su quello politico e sociale. Le conoscenze relative ai vissuti (e ai destini) di queste donne rimangono però molto limitate. L’origine delle gravidanze e soprattutto il fatto che nella maggior parte dei casi si tratta di gravidanze indesiderate sfugge a un’analisi approfondita. In base ai dati raccolti da una ricerca svolta nel 2016, le migranti nigeriane accolte a Lampedusa presentano due profili. Un primo gruppo, che corrisponde a circa il 60 % delle migranti arrivate nel 2016, è costituito da ragazze giovani (16-20 anni). Nella maggior parte dei casi, queste ragazze sono state forzate a lasciare la Nigeria: alcune sono state vendute dalle proprie famiglie, altre rapite allo scopo di ingrossare le fila del mercato della prostituzione. L’altro gruppo di migranti nigeriane è composto da donne che decidono in prima persona di abbandonare la Nigeria. Tendenzialmente queste donne hanno un livello di istruzione maggiore (scuola media o diploma superiore) e un’età più avanzata (22 - 34 anni) rispetto al primo gruppo. Anche se queste donne hanno storie diverse, la maggior parte di loro è esposta alle stesse forme di violenza sessuale durante il viaggio migratorio. Il rischio di subire delle violenze è legato all’identità di genere, ma anche ad altri elementi, quali il colore della pelle e i fattori religiosi. Se fino all’arrivo in Libia alcune di queste donne riescono a sfuggire alle violenze sessuali grazia alla protezione di un compatriota, all’arrivo in Libia la situazione peggiora drasticamente.  Le donne tenute prigioniere dalle milizie subiscono stupri che spesso risultano in gravidanze: delle 558 donne nigeriane arrivate a Lampedusa nel 2016, 79 erano in gravidanza (ovvero il 14%). All’interno di questo gruppo, l’80% delle donne ha dichiarato di non essere a conoscenza dell’identità del padre del bambino. Più della metà (43 su 79 migranti), una volta arrivata a Lampedusa, ha chiesto di interrompere la propria gravidanza perché la associava a una violenza subita in Libia. All’arrivo in Italia si presentano per queste donne anche altri problemi. I luoghi in cui risiedono dopo il loro arrivo (i Centri di Accoglienza Straordinari) sono pensati come luoghi di residenza temporanei ma spesso le donne vi rimangono mesi e nonostante la loro condizione non godono di un migliore trattamento. La scarsa attenzione ai bisogni delle donne in gravidanza, la posizione delle strutture lontano dai centri abitati, l’assenza di psicologi che garantiscano una comunicazione in inglese, i pregiudizi sessisti e razzisti che in certi casi condizionano l’intervento degli operatori, sono tutti fattori che accentuano l’isolamento fisico e l’emarginazione sociale, con ripercussioni sulla salute delle donne.   L’articolo completo a cura di Chiara Quagliariello, Ricercatrice all’École des hautes études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, è disponibile sul numero di agosto 2019 della rivista Erickson Lavoro sociale.
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Search-ME - Erickson 4 Adolescenza
Come molte categorie fragili anche i giovani caregiver sono penalizzati e ulteriormente svantaggiati a causa dell’attuale emergenza sanitaria
I giovani caregiver sono bambini/e e adolescenti, talvolta non ancora maggiorenni, impegnati regolarmente in attività di cura rivolte ai propri familiari (genitori, nonni, sorelle e fratelli, ecc.). I bisogni dei familiari possono comprendere malattie croniche, disabilità e anche fragilità sociali e psicologiche che determinano la necessità di supervisione e assistenza costante e, talvolta, quotidiana. Occuparsi di faccende domestiche, supportare emotivamente e somministrare dei farmaci sono solo alcune delle attività che svolgono i giovani caregiver. Le responsabilità di cura influiscono significativamente sul loro sviluppo psico-fisico generando considerevoli difficoltà nella transizione verso l’età adulta. Un’indagine svolta nel 2019 ha evidenziato che su un campione di 424 studenti/esse, di alcune scuole secondarie di primo grado del Comune di Milano, il 6% è costituito da potenziali caregiver. Come è cambiata la vita dei giovani caregiver durante l’epidemia? La pandemia da Covid-19 sta influenzando significativamente le nostre vite generando ansia e preoccupazione per la salute personale e dei propri cari. Secondo una ricerca inglese questi sentimenti sono sentiti maggiormente dai giovani caregiver, i quali vivono fortemente la paura di un peggioramento delle condizioni di salute dei propri cari e di essere loro stessi causa del contagio. Motivo di ulteriore ansia è destata dalla eventualità, da parte loro, di ammalarsi. Ciò inficerebbe a loro la possibilità di svolgere i compiti di cura. Le restrizioni sociali imposte dai governi hanno l’effetto di produrre ulteriore isolamento sociale e un incremento del carico di lavoro dei giovani caregiver. Avendo meno opportunità aggregative e di sviluppare legami significativi e, talvolta, dovendo adempiere alla didattica a distanza, i caregiver rischiano di ridurre sensibilmente il tempo dedicato a sé stessi, il quale è fondamentale per la crescita armonica e per la prevenzione degli esiti negativi dovuti al caregiving. Questo, di conseguenza, aumenterebbe per loro il carico di lavoro. Trascorrendo più tempo a casa potrà esserci maggiore probabilità di richiesta nell’occuparsi di altri familiari bisognosi di attenzioni, come per esempio fratelli e sorelle. Tale circostanza in Italia si è presentata in molte occasioni a causa del ricovero di uno o di entrambi i genitori. Quali sono i bisogni dei giovani caragiver? Un gruppo di giovani caregiver, riuniti da un network inglese di associazioni, ha stilato un documento per richiedere maggiori attenzioni nei loro confronti e di tutti coloro che vertono nella medesima situazione. I giovani caregiver hanno espresso chiaramente la necessità di essere “visti”, soprattutto in questa fase di emergenza sanitaria. Essere ascoltati in modo genuino e senza giudizi e tenere in considerazione la loro opinione sono alcune delle richieste espresse dal gruppo inglese di ragazzi/e con responsabilità di cura. Secondo il loro punto di vista almeno una parte del benessere può essere ugualmente raggiunto in questa fase di restrizioni con semplici azioni messe in pratica da operatori sociali e insegnanti. Alla base delle loro richieste è possibile cogliere il desiderio di prendere parte ad una relazione di aiuto che si basi sulla fiducia e reciprocità in cui possano sentirsi liberi di dare voce a preoccupazioni, bisogni e speranze. Ad esempio, il gruppo dei giovani caregiver inglesi esorta i professionisti a fissare degli appuntamenti telefonici e/o video chiamate settimanali, parlandone direttamente con loro, e non solamente con i genitori, per accertarsi delle loro condizioni e per affrontare insieme la questione dei carichi del lavoro di cura e dell’andamento scolastico. Anche in questa fase di emergenza sanitaria, anzi soprattutto ora, è fondamentale identificare e dare voce a coloro che sono sempre nell’ombra nonostante svolgano un ruolo cruciale per la propria famiglia.
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Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Come il metodo Relational Social work può aiutarci nell’accompagnare le comunità nel prendersi cura di sé
Quando si parla di lavoro sociale di comunità ci si riferisce a quell’ambito di intervento professionale del Social Work che si occupa di fronteggiare preoccupazioni a valenza collettiva. L’operatore impegnato in questo livello di lavoro è consapevole che, per svolgere il proprio ruolo al meglio, non dovrà muoversi in solitudine, studiando i bisogni della comunità e proponendo progettazioni che possano risolvere il problema. Dovrà piuttosto chiedere aiuto a quella stessa comunità cui si riferisce, guardando ai suoi membri come a degli alleati preziosi nel processo di fronteggiamento. La comunità, infatti, possiede un proprio sapere: ha un’idea del benessere cui auspica, ha una propria consapevolezza dei problemi o dei rischi che sta vivendo, conosce quello che è già stato realizzato o tentato, è in grado di individuare i processi di attivazione già in essere. È importante, quindi, che l’operatore si agganci a questo sapere per ricevere e dare un aiuto ai membri di quella comunità, come lui, preoccupati e disponibili. Il metodo Relational Social Work suggerisce alcuni passi operativi che possono guidare l’operatore sociale a facilitare questo processo affinché sia un lavoro realmente partecipato e reciproco. Le caratteristiche fondamentali del lavoro sociale di comunità. Partecipazione: viene presentata come condizione necessaria per lo sviluppo di progetti sociali di comunità, è sempre libera e volontaria. Gli operatori sociali che desiderano lavorare con le comunità, o che sono chiamati a farlo, non possono imporre idee, interventi o progettazioni. È fondamentale, quindi, che il professionista possa, prima di iniziare una progettazione, individuare e agganciarsi a quei moti spontanei di contrasto ai problemi sociali che, anche se talvolta deboli o nascosti, sempre esistono nelle comunità. Reciprocità: un operatore sociale che voglia lavorare con una comunità non solo si mette a servizio di questa per aiutarla ad andare verso la condizione di benessere auspicata, ma anche si lascia aiutare dai suoi stessi membri nel comprendere come meglio fare per accompagnarli in questo percorso che è per definizione indeterminato. È questo un sapere che l’operatore non possiede tecnicamente, che non può acquisire perfezionandosi nella sua formazione, ma di cui ha bisogno per progettare e realizzare sensati interventi a beneficio di una pluralità di persone in relazione tra loro. L’operatore di comunità dal canto suo metterà a disposizione quel sapere professionale utile ai membri della comunità per lavorare al meglio in modo orientato; connetterà persone e risorse presenti nella comunità e guiderà riflessivamente il processo alla luce di un metodo. In questo modo membri della comunità e professionisti impareranno reciprocamente come lavorare insieme per il bene di altri oltre a sé; nascerà un processo di aiuto e di empowerment reciproco. Alla luce di questi presupposti il metodo Relational Social Work fornisce chiare indicazioni che permettono all’operatore sociale di facilitare processi in grado di riconoscere e connettere le risorse presenti nelle comunità, in vista di un lavoro riflessivo, aperto e congiunto per il fronteggiamento di problemi sociali. Quattro passi da seguire per un lavoro sociale di comunità. I quattro passi del metodo che potrà seguire l’operatore possono essere così riassunti: 1. L’operatore inizia, o approfondisce, la conoscenza della comunità: la vive, la studia, incontra i suoi membri, dialoga ed entra in relazione con loro. Obiettivo: individuare quelle persone disponibili e motivate ad aiutarlo per migliorare il benessere di quella comunità. 2. L’operatore connette queste singole persone e le incontra per aiutarle a definire la direzione verso la quale si vuole andare. Obiettivo: facilitare la nascita di un gruppo guida del progetto, ovvero un insieme di persone, membri della comunità accomunati da una finalità progettuale condivisa. Questo gruppo aiuterà e si farà aiutare dall’operatore nell’intero processo. 3. L’operatore sociale e il gruppo guida individuano altri membri della comunità disponibili ad attivarsi per il raggiungimento di quella data finalità: li incontrano, li conoscono e chiedono loro consiglio e aiuto: insieme si definisce il progetto. Obiettivo: catalizzare una rete di fronteggiamento di comunità (o più reti) che possa aiutare il gruppo guida nella progettazione collettiva: eventualmente ricorrendo a processi decisionali strutturati (ad esempio: World Cafè, Dialoghi Comunitari di Rete, Photo Voice, Community Visioning, etc.) si pianificheranno azioni e interventi a beneficio dell’intera comunità. 4. Operatore e gruppo guida aiuteranno la rete di fronteggiamento a mettere in campo le strategie ipotizzate, realizzandole con il contributo di tutti e monitorandole nel tempo. Obiettivo: guidare la comunità a lavorare in modo congiunto, osservando ciò che viene realizzato ed accompagnarla nel riflettere sul cambiamento prodotto, nel ridefinire quanto necessario, anche in vista di progettazioni future. Alcuni consigli di lettura Il Lavoro Sociale di Comunità passo dopo passo. Metodologia e strumenti per progetti a valenza collettiva. Il testo approfondisce i 4 passi metodologici indicati dal metodo Relational Social Work per facilitare progetti sociali di comunità. Per ogni fase oltre alla spiegazione teorica, è possibile trovare esempi tratti da progetti realmente realizzati, box degli accorgimenti, schede di documentazione e strumenti concreti che possono guidare l’operatore in tutto il processo di coinvolgimento della comunità. Il lavoro sociale di comunità. Come costruire progetti partecipati. Il testo è l’edizione italiana di uno dei manuali più famosi di community social work a livello internazionale. Pur facendo riferimento al contesto anglosassone, l’autore fornisce preziose indicazioni pratiche per tutti gli operatori che lavorano o vogliono lavorare per e con le comunità. Partendo dai principali approcci di community work indicati dalla letteratura internazionale, Twelvetrees illustra i principi alla base di questo ambito di lavoro e le sue dimensioni, per poi fornire una guida per il lavoro sul campo. Comunità e democrazia nei quartieri. Un'ipotesi di lavoro per attivare processi partecipativi e generativi di cittadinanza nei quartieri e nei paesi. Il lavoro sociale è strettamente connesso al livello del policy making: da esso è influenzato e condizionato, ma allo stesso tempo il sapere che deriva e matura sul campo può ispirare le scelte e gli orientamenti politici. I quartieri e i legami di prossimità tra i cittadini costituiscono i primi elementi da cui si genera e si rigenera un cambiamento che punta non solo a prevenire le emergenze sociali, ma anche a restituire a ognuno la possibilità di esercitare la propria responsabilità sociale e politica nella città. “Comunità e democrazia nei quartieri” facendo propria una nuova visione di welfare che, partendo dal basso, punta a coinvolgere tutte le dimensioni della vita delle persone, propone politiche sociali che si interessano all’intera comunità a partire dai quartieri. Sulla base dell’esperienza maturata nel concreto sviluppo di comunità viene proposto un nuovo paradigma dialogico-relazionale in grado di farsi carico degli aspetti più essenziali della società, ma capace anche, in questo modo, di incidere più profondamente sulla dimensione politica della stessa.
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