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I mini gialli dei dettati 2
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a Psicologia
La paura di contaminarsi o di essersi contaminato e aver contratto il virus in circolazione in questo momento è normale, utile e adattiva.
Il confine tra tutto ciò e la comparsa di alcuni disturbi psicologici quali il disturbo ossessivo-compulsivo e l’ipocondria (ansia di malattia) è sfumato.  Quello che sta succedendo nel mondo obbliga tutti noi a prendere precauzioni igieniche estreme cui non eravamo abituati, per timore di contaminarsi e magari contaminare altre persone a noi care, soprattutto se anziane e a rischio. La preoccupazione per la nostra e altrui salute è inevitabilmente molto aumentata rispetto al solito, e sfido chiunque abbia starnutito o tossito in questi giorni a non aver pensato per un attimo di aver preso il Coronavirus, oppure sia passato troppo vicino a qualche estraneo a non essersi preoccupato che questi potesse essere infetto. Tutto ciò – anche se ci fa vivere meno tranquilli - è normale, utile e funzionale, perché ci spinge ad attenerci a una serie di precauzioni che possono salvare vite umane e contenere l’epidemia. Si tratta di una di quelle tante situazioni in cui l’ansia è adattiva, ovvero utile alla sopravvivenza della specie. Ansia sana e ansia patologica Ma qual è il confine tra l’ansia “buona” e l’ansia patologica, di cui soffrono tutti coloro che hanno un cosiddetto disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) da contaminazione o un disturbo d’ansia di malattia (quella che un tempo di chiamava ipocondria)? Le preoccupazioni ossessive di contaminazione tipiche del DOC si attivano al di là del ragionevole pericolo e soprattutto permangono nonostante le precauzioni prese, tormentando la persona con dubbi del tipo “E se…” pressoché infiniti, portandola di conseguenza a veri e propri estenuanti rituali di lavaggio e disinfezione di se stessi e degli oggetti che vanno oltre a qualsivoglia raccomandazione basata su fondamenti scientifici.  L’uso di igienizzanti, saponi, alcol e quant’altro, nonché l’evitamento di tutto ciò che può essere potenzialmente contaminato diventano comportamenti portati all’estremo e che non trovano fine, rendendo la vita molto faticosa, poiché la certezza assoluta di non entrare in contatto con agenti patogeni non arriva mai e quel margine di incertezza, anche minimo, non è accettabile. Allo stesso modo chi ha un disturbo d’ansia di malattia si preoccupa in modo eccessivo e irrazionale di non essere sano e, in questo caso specifico, di aver preso il Coronavirus. Così ogni minimo segnale corporeo, anche un mal di testa, diventa fonte di angosciosa preoccupazione, se non di una vera e propria convinzione di essere malati. Ciò porta a richieste di rassicurazione mediche e non solo, ma soprattutto a un’attenzione eccessiva a tutto ciò che accade nel corpo che amplifica la percezione che qualcosa non vada, alimentando l’ansia. Per non parlare delle ricerche compulsive su Internet riguardo ai sintomi più remoti e nascosti del Covid-19 come di qualunque altra malattia. Cercando bene bene, uno che abbiamo lo troveremo sicuramente! Cosa sta accadendo a chi già soffriva di un disturbo ossessivo o ipocondriaco Avendo l’onore di dirigere il Centro di Eccellenza per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (CEDOC) di Firenze, ho un osservatorio che mi consente di monitorare cosa sta accadendo a molte decine di pazienti che abbiamo in carico e che soffrivano ben prima dell’avvento del Coronavirus dei disturbi sopra descritti. La cosa apparentemente bizzarra è che coloro che soffrono di un DOC da contaminazione non solo non sono necessariamente peggiorati, ma alcuni stanno soggettivamente meglio, sia perché si sentono meno “strani” e meno malati (quindi meno oggetto di stigma e giudizio altrui) nel compiere tutti i rituali che il disturbo richiede loro, sia perché sono ufficialmente autorizzati dalla reclusione forzata ad evitare l’esposizione a ciò che solitamente più li spaventa (es., mezzi o bagni pubblici, ambienti con molte persone, ecc.). Ciò non toglie, ahimè, che questo interrompa il loro processo di guarigione che invece passa attraverso la graduale riduzione degli evitamenti e delle compulsioni, per cui più avanti dovranno fare i conti con un disturbo ancor più consolidato. Ci sono poi coloro che ne hanno sofferto in passato, riuscendo a superare il problema, e che magari in questa fase possono avere una riacutizzazione dei sintomi. Se la passano un po’ peggio gli ipocondriaci, molti dei quali in questo periodo sono drasticamente peggiorati. Vivono tormentati dal dubbio di aver preso il virus e hanno aumentato così l’attenzione ai segnali di presunto malessere e l’utilizzo improprio degli strumenti volti a cercare informazioni e rassicurazioni riguardo ai propri sintomi percepiti. In generale, lo stress cui tutti siamo sottoposti in questo periodo, per una serie di motivi che vanno dall’isolamento sociale, alle preoccupazioni economiche e lavorative, passando per la mancanza di attività piacevoli e molte altre deprivazioni, tende a far peggiorare qualunque tipo di psicopatologia (in particolar modo se di tipo depressivo), per cui può incidere negativamente anche sul DOC e l’ansia per le malattie. Cosa potrebbe accadere in futuro a chi era a rischio La comparsa improvvisa, dilagante e così minacciosa di un virus ha avuto indubbiamente un impatto traumatico sulla maggior parte delle persone che fino a “ieri” vivevano sufficientemente serene senza preoccuparsi oltremodo per le malattie o la contaminazione. Questo impatto lascerà indubbiamente un segno, una memoria indelebile, con un aumento collettivo della percezione di vulnerabilità dell’essere umano. È quindi ragionevole aspettarsi che nel prossimo futuro, a emergenza reale finita e quando potenzialmente potremmo tornare ai livelli di guardia di prima, vedremo un aumento di persone che sviluppano timori ossessivi di contaminazione e mantengono livelli di ansia per le malattie sopra la norma, disfunzionali e impattanti sulla loro qualità di vita. Non ne ho la certezza, e spero di sbagliarmi, ma se così fosse chi come noi si occupa nello specifico di valutare e trattare queste forme psicopatologiche dovrà attrezzarsi per venire incontro a un numero di richieste di aiuto superiore a prima. Come proteggersi dal Coronavirus senza perdere la testa Molti si chiederanno se sia in qualche modo possibile proteggersi adeguatamente dal virus, attenendosi alle attuali e future precauzioni che ci verranno raccomandate dagli scienziati, ma senza rischiare di scivolare in qualche forma di disagio psicologico. Uno dei modi migliori è quello di evitare di esporsi eccessivamente alle notizie riguardo all’andamento dell’epidemia, di parlarne e sentirne parlare meno possibile, quel tanto che basta (possono essere sufficienti 5 minuti al giorno) per avere gli aggiornamenti essenziali sullo stato dei fatti. Per il resto è bene concentrarsi su altro, che sia studio, lavoro, tv, giardinaggio, cucina o qualunque altra attività di svago. Occorre poi rispettare le norme previste per legge quando si esce (es. stare a distanza di un metro dagli altri, indossare la mascherina se previsto, lavarsi le mani al rientro, ecc.), finché saranno dovute, ma non travisarle secondo una logica de “il più è sempre meglio del meno”. Un metro non devono diventare tre, i lavaggi di mani non devono essere troppo frequenti (soprattutto se non si esce), né troppo lunghi (massimo 40 secondi) e non devono esser fatti con prodotti troppo aggressivi. È dovuto misurarsi la febbre se non si sta bene, ma se questa non supera i 37.5 e non vi sono altri sintomi tipici del Coronavirus (secondo le fonti scientificamente attendibili e il parere del medico curante) non serve prestare costantemente attenzione a come stiamo, né tantomeno cercare informazioni su Internet o altrove per cercare di capire se il nostro non possa essere uno dei casi paucisintomatici. Ciò aumenta solo il rimuginio sulla malattia, i livelli di ansia, la percezione soggettiva di malessere e di conseguenza il dubbio. Ancora una volta concentrarsi su altro è estremamente più funzionale. Per chi si sente a rischio Per coloro che sentono di star perdendo un po’ il controllo dei propri livelli di ansia, che vivono questo momento non solo con il normale stress connesso alle importanti limitazioni alla nostra libertà e spontaneità, ma con un importante ed eccessivo aumento delle paure di contaminazione e dei comportamenti atti a prevenirla, oppure del timore ossessivo e irrazionale di essere affetti dal Coronavirus senza saperlo, posso suggerire intanto un paio di letture che possono essere di grande aiuto: “Vincere le ossessioni” di cui sono l’autore e “La paura della malattie” di Asmundson e Taylor. Se queste non dovessero bastare, se vi accorgeste di essere a rischio di scivolare in un disturbo psicologico come conseguenza dell’epidemia in atto, o se conoscete qualcuno al quale vostro avviso sta accadendo qualcosa del genere, è bene rivolgersi a qualificati psicoterapeuti con alta specializzazione sul DOC e sulla paura delle malattie.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Quali sono le caratteristiche di questo disturbo e come affrontarlo con un approccio integrato per il trattamento dei Disturbi di Personalità
Cos’è il Disturbo Narcisistico di Personalità? Quali sono i sottotipi del Disturbo Narcisistico di Personalità? Come si valuta il Disturbo Narcisistico di Personalità? Cos’è Terapia Metacognitiva Interpersonale? Qual è l’obiettivo della Terapia Metacognitiva Interpersonale nel trattamento del Disturbo Narcisistico di Personalità? Quali sono i passaggi di un intervento di Terapia Metacognitiva Interpersonale? Come curare il Disturbo Narcisistico di Personalità con la Terapia Metacognitiva Interpersonale?     Cos’è il Disturbo Narcisistico di Personalità? Il Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) è un disturbo di personalità caratterizzato da: mancanza di un autentico interesse per il mondo e le persone, con stati mentali soggiacenti di vuoto e un generale impoverimento affettivo; una capacità danneggiata di costruire relazioni interpersonali; un egocentrismo smisurato, accompagnato da una preoccupazione eccessiva per il proprio valore personale e per le questioni di competizione e di rango; un bisogno smodato di riconoscimenti da parte degli altri. Il DNP è un processo dinamico che si muove lungo tentativi di regolazione patologica dell’autostima.     Quali sono i sottotipi del Disturbo Narcisistico di Personalità? Il DNP si distingue in due principali sottotipi: overt e covert, o grandioso e vulnerabile. Considerando che, tanto la grandiosità quanto la vulnerabilità, possono esprimersi in modo manifesto (overt) o nascosto (covert), Pincus e Lukowitsky (2010) hanno proposto di distinguere i due fenotipi grandioso/vulnerabile dalle modalità di espressione overt/covert.     Come si valuta il Disturbo Narcisistico di Personalità? A sottolineare il dibattito ancora aperto sulla fenomenologia del DNP, esiste una vasta quantità di scale e interviste per la sua valutazione. In generale, al fine di ottenere una buona valutazione di un paziente che si presenta alle cure, è importante utilizzare un approccio multi-metodo, per sopperire ai limiti di affidabilità che presentano i self-report (es. Narcissistic Personality Inventory NPI), le interviste (es. SIDP-IV e SCID-5-PD) o le scale di osservazione (es. Level of Personality Functioning Scale LPFS), utilizzate singolarmente. Una valutazione basata esclusivamente su un unico metodo potrebbe, quindi, non riuscire a fornire una comprensione esaustiva della patologia di personalità del paziente narcisista.     Cos’è Terapia Metacognitiva Interpersonale? La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) è un approccio integrato per il trattamento dei Disturbi di Personalità (DP). La TMI si propone come intervento integrativo sviluppato per suggerire un ragionamento clinico, nella cornice di riferimento del cognitivismo clinico, che possa guidare la pianificazione e la strutturazione del trattamento dei DP. La TMI comprende quindi un’accurata psicodiagnosi, una psicoterapia individuale focalizzata sulla metacognizione, gruppi psicoeducativi, skills training, mindfulness, riunioni cliniche e di supervisione settimanali e, se necessario, interventi domiciliari, farmacoterapia e altri interventi specifici.     Qual è l’obiettivo della Terapia Metacognitiva Interpersonale nel trattamento del Disturbo Narcisistico di Personalità? L’obiettivo strategico è quello di migliorare le abilità metacognitive al fine di padroneggiare gli stati mentali problematici fonte di sofferenza soggettiva e/o di problemi nelle relazioni interpersonali.     Quali sono i passaggi di un intervento di Terapia Metacognitiva Interpersonale? Il trattamento può essere schematicamente suddiviso in 5 passaggi focalizzati sulle differenti funzioni metacognitive. Non si tratta di una procedura rigida, scandita da parametri temporali o da un numero di sedute preciso, ma dal livello metacognitivo di base e da quello che man mano viene raggiunto: Sviluppare il monitoraggio degli stati. Sviluppare una visione integrata delle transizioni degli stati mentali e dei loro legami. Sviluppare o potenziare la capacità di considerare la natura rappresentazionale dei pensieri. Promuovere l’abilità di decentramento, in modo da aumentare la consapevolezza del ruolo del paziente nel determinare i processi interpersonali disfunzionali in cui è coinvolto. In ogni fase il terapeuta lavora per aiutare il paziente a costruire una continuità autobiografica in cui emergono, in una narrazione coerente, i suoi problemi e come li ha di solito gestiti e/o padroneggiati.     Come curare il Disturbo Narcisistico di Personalità con la Terapia Metacognitiva Interpersonale? Esempio di terapia per punti: Gestione del ciclo interpersonale problematico di distacco e di quello competitivo. Nella prima fase della terapia, dedicata alla ricostruzione degli stati mentali e alla psicoeducazione sulle emozioni, i pazienti si sentono ascoltati e compresi, capiscono il carattere universalmente umano e condivisibile dei loro vissuti, sentendosi quindi meno diversi e patologici. Ricostruzione degli stati mentali problematici e sviluppo del monitoraggio. Ci si scontra con le difficoltà nel monitorare i propri bisogni affettivi, tipica di questi pazienti. Risultano di particolare utilità le classiche tecniche di indagine della terapia cognitiva (ad esempio, gli ABC), che mirano a focalizzare l’attenzione sui pensieri e le emozioni che costituiscono gli stati mentali durante specifici episodi di vita. Sviluppo del decentramento e miglioramento dell’efficacia interpersonale. Inserimento in un gruppo di skills training per il ritiro sociale. Danno la possibilità di affrontare nel dettaglio, attraverso la psicoeducazione, la discussione di gruppo e il role play, diversi aspetti della metacognizione e delle abilità interpersonali, lasciando alla terapia individuale la possibilità di concentrarsi sugli stati mentali attivi in seduta e che mantengono la sofferenza del paziente. Incremento della consapevolezza del proprio ruolo nel creare cicli interpersonali. Nelle fasi avanzate della terapia è possibile aiutare il paziente a comprendere il proprio ruolo nel creare dinamiche interpersonali problematiche. Questa consapevolezza può essere utilizzata per gestire le relazioni extra terapeutiche e raggiungere momenti di piacevole condivisione. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Domande e risposte sull’intervento psicoterapeutico ideato da Albert Ellis
Cos’è la REBT? Perché si parla di “cliente” e non di “paziente”? Quali aspetti delle emozioni vengono tenuti in considerazione nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale? Quali sono le caratteristiche distintive della REBT rispetto alla terapia cognitivo comportamentale tradizionale? L’ABC delle emozioni: di cosa si tratta? Cosa si intende per ‘razionale’ o ‘irrazionale’ in REBT? Come è strutturato un intervento REBT? Come si individua l’ABC, il problema principale? Quali tecniche si utilizzano per educare il cliente alla comprensione del rapporto tra pensieri ed emozioni? Quali tecniche si utilizzano per la messa in discussione dei pensieri? Quali sono le tipologie di homework?     Cos’è la REBT? La Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) è un intervento psicoterapeutico basata su alcuni principi fondamentali. L’individuo reagisce principalmente alla rappresentazione cognitiva degli eventi più che agli eventi in sé. Le emozioni disfunzionali sono influenzate prevalentemente da convinzioni irrazionali ed è possibile identificare e codificare le principali modalità di pensiero irrazionale. Le emozioni hanno un valore legato alla sopravvivenza della specie. Per superare emozioni e comportamenti disfunzionali è possibile ricorrere a modalità di pensiero razionali. I metodi cognitivi vanno integrati costruttivamente con metodi comportamentali. La REBT è una psicoterapia attiva e direttiva: è il terapeuta, infatti, a dare una struttura a ciascuna seduta, mentre il cliente fornisce i contenuti. Inoltre, è il terapeuta a «dirigere il gioco», in quanto sa dove guidare il cliente, ma lo fa in modo estremamente socratico.     Perché si parla di “cliente” e non di “paziente”? Il termine “cliente”, di uso comune anche nella letteratura clinica inglese, viene sostituito al termine “paziente”, che invece può risultare troppo medicalizzante, così come a quello “utente”, riferibile principalmente all’ambito statalista.     Quali aspetti delle emozioni vengono tenuti in considerazione nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale? Aspetto fenomenologico: come l’emozione fa sentire, le sensazioni (piacevoli o spiacevoli) associate a essa. Aspetto sociale: ciò che un’emozione comunica ad altre persone. Aspetto fisiologico: l’attivazione neurovegetativa, l’arousal, che in alcune emozioni disfunzionali potrà essere più elevato. Aspetto comportamentale: il tipo di azione che deriva da una certa emozione. Di questi quattro aspetti dell’emozione, solo quello fisiologico riguarda la dimensione quantitativa, mentre gli altri costituiscono la dimensione qualitativa. Se un’emozione presenta almeno tre degli aspetti negativi che abbiamo considerato può essere senz’altro considerata nociva, ossia disfunzionale.     Quali sono le caratteristiche distintive della REBT rispetto alla terapia cognitivo comportamentale tradizionale? Differenziazione tra cognizioni inferenziali e cognizioni valutative. Secondo la REBT, non basta individuare come una persona interpreta la realtà per comprendere il suo stato d’animo, ma è necessario identificare anche il modo in cui valuta ciò che ha interpretato. Diverso ABC dell’emozione. Nella CBT tradizionale viene di solito adottato un modello ABC dell’emozione che colloca al punto B tutto ciò che è cognitivo, ossia che riguarda il modo di pensare di un individuo. Nella REBT, invece, al punto B vengono collocate solo cognizioni di tipo valutativo, mentre le cognizioni interpretative vengono agganciate all’evento attivante, quindi collocate al punto A. Classificazione delle categorie irrazionali di pensiero. La REBT ha identificato in modo preciso quali sono i più comuni pensieri irrazionali, classificandoli in quattro differenti categorie. Nella CBT tradizionale, spesso il termine «irrazionale» viene esteso in modo improprio a tutti i modi di pensare disfunzionali, mentre nella REBT, quando si parla di pensieri irrazionali, ci si riferisce solo a cognizioni di tipo valutativo. Identificazione del meta-problema. Il secondo problema, che deriva dal primo, viene chiamato meta-problema e, frequentemente, diventa un grande ostacolo per il superamento del problema primario, in quanto il turbamento creato dal meta-problema può rendere molto difficile, per un cliente, impegnarsi efficacemente per il superamento del problema primario. Al di fuori della REBT, nessun altro approccio cognitivo-comportamentale ha messo in evidenza il ruolo svolto dal meta-problema. Metodo strutturato e articolato per la messa in discussione dei pensieri disfunzionali. La CBT tradizionale privilegia come modalità di ristrutturazione cognitiva una messa in discussione dei pensieri disfunzionali basata su argomentazioni di tipo empirico. Nella REBT, oltre a una linea di argomentazione empirica, si utilizzano altre due linee di argomentazione: quella logica e quella funzionale, rendendo la messa in discussione dei pensieri irrazionali piuttosto strutturata e articolata e, quindi, più semplice da apprendere e da mettere in pratica con risultati molto efficaci. Rilevanza della fase educativa della terapia. Mentre in alcuni approcci cognitivo-comportamentali la fase educativa della psicoterapia viene essenzialmente confinata alla fase iniziale del percorso terapeutico, nella REBT essa viene estesa a buona parte della psicoterapia. La definizione degli obiettivi. La REBT dà particolare rilievo alla definizione accurata degli obiettivi emotivi e comportamentali da raggiungere per ogni problematica che il cliente presenta. Questi obiettivi vengono concordati con il cliente attraverso un suo coinvolgimento attivo e non imposti dallo psicoterapeuta. L’assegnazione di homework. Assegnare al cliente attività da svolgere tra una seduta e l’altra è una pratica condivisa da tutte le terapie cognitivo comportamentali. Ciò che però è particolare nella REBT è l’applicazione di strategie atte a garantire l’esecuzione, da parte del cliente, di tali prescrizioni. Inoltre, vi sono alcuni homework che sono tipici della REBT, in quanto creati all’interno di questa prassi psicoterapeutica, ad esempio, esercizi anti-vergogna ed esercizi di assunzione di rischio.     L’ABC delle emozioni: di cosa si tratta? L’ABC delle emozioni fa riferimento al modello dell’emozione di Ellis, fondatore della REBT. Il punto A sta per Evento Attivante: include qualsiasi evento interno o esterno su cui l’individuo dirige la sua attenzione, e comprende quindi anche ricordi e immagini mentali. Include anche le interpretazioni e le inferenze riguardanti l’evento attivante. Un esempio di punto A potrebbe essere «Affrontare un esame ritenendo che probabilmente andrà male». Il punto B sta per Sistema di Convinzioni o Base Mentale, e include le cognizioni valutative dell’individuo collegate all’evento attivante che si manifestano come convinzioni razionali o irrazionali. Un esempio di punto B potrebbe essere «Devo assolutamente superare questo esame, sarebbe una cosa orrenda non superarlo». Il punto C sta a indicare le Reazioni Emotive e Comportamentali dell’individuo determinate dalle elaborazioni cognitive che sono presenti al punto B, piuttosto che dall’evento attivante di per sé. È importante ricordare che il punto C comprende non solo emozioni, ma anche comportamenti e, talvolta, anche pensieri. Due punti ulteriori possono espandere il modello ABC: Il punto D consiste nella ristrutturazione del pensiero che avviene quando le reazioni emotive e comportamentali (C) sono disfunzionali. Il punto E ovvero a un nuovo modo di pensare che questa volta produrrà reazioni emotive e comportamentali funzionali (corrispondente al punto C in caso di risposte già funzionali).     Cosa si intende per ‘razionale’ o ‘irrazionale’ in REBT? Nella REBT il termine razionale viene invece usato per definire il modo di pensare e non la persona. Il pensiero razionale ha quindi queste caratteristiche: è flessibile e non estremo; è congruente con la realtà oggettiva; ha una sua consistenza logica; facilita il conseguimento del proprio benessere e dei propri scopi. Nella REBT, quindi, il concetto di razionalità riguarda le caratteristiche intrinseche al tipo di ragionamento e ha un aspetto pragmatico. All’opposto, il pensiero irrazionale è rigido ed estremo; è in contraddizione con la realtà oggettiva; presenta illogicità; ostacola il conseguimento del proprio benessere e dei propri scopi. Il pensiero irrazionale viene riassunto in quattro categorie: pretese assolute (doverizzazioni – bisogni assoluti); catastrofismo; bassa tolleranza alla frustrazione (insopportabilità); giudizi globali su di sé e sugli altri (svalutazione – condanna)     Come è strutturato un intervento REBT? La prima seduta di trattamento non corrisponde di solito al primo contatto con il cliente. Ci saranno già stati altri incontri per una conoscenza e una presa in carico del cliente e per un eventuale assessment strumentale con somministrazione di apposite scale. Nella REBT viene sconsigliato un lungo assessment che si protragga per più di 2-3 incontri, così come viene sconsigliato di «bombardare» il cliente con un numero eccessivo di questionari. Si cerca anche di evitare una lunga indagine archeologica sulle esperienze remote che potrebbe trasmettergli l’attribuzione di una funzione eccessivamente importante del passato sul suo problema attuale. Durante la prima seduta, dopo aver identificato i punti A e C del problema esposto dal cliente, si termina con l’assegnazione del primo homework. Questo spesso consiste nel richiedere al cliente la compilazione di un Diario delle emozioni, in cui egli monitorerà le proprie reazioni emotive, l’intensità in cui le ha esperite e la situazione in cui si trovava al momento. In breve, si tratta di monitorare le componenti A e C dell’episodio emotivo. Dopo la prima seduta, per gran parte del percorso terapeutico la struttura delle sedute successive diventerà più articolata, in quanto verranno inclusi la verifica dell’homework e la messa in discussione dei pensieri, oltre ad altre tecniche cognitive, emotive e comportamentali. Attuare l’intervento psicoterapeutico secondo un modello strutturato è di aiuto sia per il cliente sia per il terapeuta. Il cliente familiarizzerà presto con questo metodo di procedere e si sentirà più a suo agio sapendo, in linea generale, cosa lo aspetta in ogni seduta. La REBT si differenzia notevolmente dalle più tradizionali forme di terapia non direttiva.     Come si individua l’ABC, il problema principale? Di solito il cliente esordisce riportando la parte A del problema, oppure la parte C, ad esempio «Non riesco ad andare d’accordo con i miei colleghi di lavoro», oppure «Mi sento a disagio quando sono con persone che non conosco». Compito del terapeuta è definire in modo dettagliato le caratteristiche dell’evento attivante, identificare in modo preciso le reazioni emotive e comportamentali del cliente e infine individuare le sue modalità disfunzionali di pensiero. Assessment punto C. Alcune domande per far emergere la reazione emotiva (C) del cliente potrebbero essere: «Quando le è successo questo, come si è sentita?» «Che stato d’animo ha provato dentro di sé in quella situazione?». È da ricordare che al punto C non troviamo solo emozioni, ma anche comportamenti: pertanto il terapeuta dovrà far emergere anche cosa fa il cliente, come agisce, quando prova un determinato stato d’animo. Emozioni e comportamenti sono strettamente collegati. A volte inavvertitamente il terapeuta potrebbe rivolgere al cliente domande che comunicano una concezione di tipo A C dell’emozione (l’evento attivante causa l’emozione). Ad esempio: «Questa cosa come l’ha fatta sentire?» «Che stato d’animo hanno provocato in lei le parole di…». Questo va accuratamente evitato, per non consolidare nel cliente una visione erronea delle sue emozioni. Domande alternative e più proficue potrebbero essere: «Come si è sentita riguardo a questo?» «Che stato d’animo ha provato quando le è stato detto questo?». Rivolgendosi al cliente, si eviterà di usare l’espressione «emozione disfunzionale», ma la si potrà sostituire con l’espressione emozione nociva, enfatizzando l’aspetto controproducente di una certa reazione emotiva che non aiuta a stare bene e non facilita la soluzione del problema. Assessment punto A. Non dobbiamo considerare il punto A come qualcosa di esclusivamente esterno alla persona; al contrario, bisogna tener presente che l’evento attivante può essere costituito anche da ricordi e immagini mentali. Nel cercare di ricostruire i dettagli riguardanti l’evento attivante, bisogna quindi considerare che nel modello della REBT esso include sia la realtà oggettiva (quello che è veramente accaduto e che qualsiasi osservatore esterno potrebbe confermare), che le interpretazioni soggettive, ossia il significato particolare attribuito dal cliente a tale evento o situazione.     Quali tecniche si utilizzano per educare il cliente alla comprensione del rapporto tra pensieri ed emozioni? È importante trasmettere quanto prima al cliente una corretta visione delle sue emozioni, portandolo a comprendere il rapporto tra pensiero ed emozione. Fin tanto che il cliente non si renderà conto di come il suo modo di pensare influenza le sue emozioni e il suo comportamento non riuscirà a comprendere l’importanza di indagare sui suoi pensieri. Spiegazione diretta: si ricorrerà a metafore o ad esempi di vario genere per far comprendere al cliente che l’evento attivante non causa direttamente la reazione emotiva e comportamentale. Spiegazione socratica: un modo per far comprendere al cliente che è B e non A a determinare C consiste nel chiedergli se conosce altre persone che nella sua stessa situazione non provano la medesima emozione; un’altra modalità socratica per spiegare il rapporto tra B e C consiste nel far rievocare al cliente un’emozione del passato, collegata a una situazione particolare che adesso è associata a un’emozione diversa. il ruolo svolto dal pensiero può essere fatto comprendere al cliente mettendo a confronto due diversi modi di pensare relativamente alla stessa situazione. Presentando al cliente una situazione ipotetica di fronte alla quale può assumere due diversi tipi di pensiero, non sarà difficile portarlo a constatare l’impatto che questi pensieri possono avere sulle sue emozioni. L’influenza del passato: il passato può fornire informazioni sulla storia di apprendimento dei pensieri irrazionali, ma il ruolo del terapeuta non è certo quello di cambiare il passato del cliente, bensì quello di aiutarlo a liberarsi dai modi di pensare dannosi che ha appreso in passato.     Quali tecniche si utilizzano per la messa in discussione dei pensieri? La messa in discussione, detta anche dissuasione cognitiva, è la parte più complessa della ristrutturazione cognitiva. Nell’ambito della REBT, per ristrutturazione cognitiva si intende quel processo attraverso cui l’individuo sostituisce modalità di pensiero collegate a reazioni emotive e comportamentali disfunzionali con altre modalità di pensiero in grado di elicitare emozioni e comportamenti adattivi. Questo processo avviene attraverso due fasi. Messa in discussione dei pensieri irrazionali. Nel corso delle varie sedute di psicoterapia il terapeuta, affrontando i vari ABC che emergono, aiuterà il cliente a rendere sempre più deboli i pensieri irrazionali collegati a specifiche situazioni problematiche. Riformulazione razionale. La riformulazione razionale è la seconda fase della ristrutturazione cognitiva. A meno che il cliente non disponga di nuovi modi di pensare con cui sostituire i suoi convincimenti irrazionali, egli continuerà a rimanere aggrappato ai propri modi di pensare, per quanto dannosi possano essere. Un errore in cui il terapeuta può incorrere nel corso della ristrutturazione cognitiva è quello di proporre al cliente un nuovo pensiero razionale alternativo già preconfezionato. In questo caso il rischio è che il cliente non senta come suo il pensiero, che perciò avrà poca influenza sul suo stato d’animo. È invece molto più efficace procedere in modo evocativo, invitando il cliente a trovare un modo di pensare alternativo, in base agli elementi emersi nel corso della messa in discussione.     Quali sono le tipologie di homework? Compiti di auto-osservazione scritti, utili per far aumentare nel cliente la consapevolezza di certi eventi sia interni (covert) che esterni (overt). Attività di lettura (biblioterapia): consiste nel prescrivere la lettura di determinati libri, opuscoli, articoli su specifici argomenti attinenti il problema del cliente. Lo scopo è quello di consolidare quanto già discusso in seduta o preparare il cliente a ciò che verrà discusso successivamente. Compiti di ascolto. Lo scopo di questi materiali è quello di consentire al cliente di familiarizzare con la visione razionale-emotiva di determinati problemi che lo coinvolgono. Esercizi comportamentali e immaginativi, che consistono nel prescrivere al cliente l’applicazione, tra una seduta e l’altra, di alcune tecniche comportamentali e immaginative. Lo scopo è quello di rendere il cambiamento cognitivo del cliente più «viscerale», e non solo intellettuale, allenandolo ad agire in un modo che va contro i suoi vecchi modi di pensare dannosi e allenandolo, attraverso l’immaginazione, ad assumere una diversa prospettiva, più razionale. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
L’impatto della nascita prematura del figlio sulla salute mentale dei genitori e sul funzionamento familiare dopo la dimissione ospedaliera del bambino
La nascita del bambino prima della 37^ settimana di gestazione è considerata prematura e i neonati prematuri sono classificati come estremamente pretermine (<28 settimane), molto pretermine (da 28 settimane a 31 settimane e 6/7 gg), moderatamente pretermine (da 32 settimane a 33 settimane e 6/gg) e tardo pretermine (da 34 a <36 settimane). In Italia nascono ogni anno oltre 25.000 prematuri (il 6,4% del totale), cioè bambini che vengono al mondo prima della 37^ settimana di età gestazionale.  Di questi il 75,6% è rappresentato da parti pretermine, dalla 34^ alla 36^ settimana di gestazione (Rapporto CeDAP 2021). Sia i bambini estremamente prematuri che quelli molto prematuri trascorrono mesi nelle Unità di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) e alcuni di loro vengono dimessi con la possibilità che, nel corso del tempo, riportino importanti disabilità fisiche e significative alterazioni dello sviluppo neurologico. Tutti aspetti che potrebbero cambiare la loro vita e quella del nucleo familiare di appartenenza. Partorire prematuramente e mettere al mondo un figlio gravemente malato è senz’altro uno degli eventi che più impattano sulle dinamiche familiari, nella vita dei genitori e sul successivo sviluppo emotivo ed affettivo del bambino. A tal riguardo, la maggior parte degli studi nell’ambito della prematurità ha messo in evidenza una diminuzione dello stress dei genitori nel corso del tempo, nonostante in alcuni casi emergano ancora elevati livelli di stress dopo 3-5 anni dalla dimissione TIN. Per esempio, i genitori che sperimentano livelli estremi di disagio durante la permanenza del bambino in TIN, dimostrano livelli di disagio più elevati a 2 anni dalla dimissione. Comunque, i maggiori elementi di rischio favorenti livelli più elevati di stress nei genitori con figli nati prematuramente sembrano essere un ridotto livello di istruzione delle madri, provenire come famiglia da contesti svantaggiati, la presenza di gravi problemi di salute riscontrabili nei bambini e la presenza di una nascita gemellare o più. La presenza nei genitori di elevati livelli di stress influenza negativamente anche la loro salute mentale. In particolare, i fattori di rischio di esiti avversi sulla salute mentale di genitori dei bambini prematuri risultano essere una precedente storia di depressione, la propria percezione di un ridotto attaccamento nei confronti del proprio bambino, uno scarso supporto sociale, l’aver avuto precedenti trattamenti di tipo psicologico, la presenza di ansia e l’età della mamma. Per quanto riguarda invece il carico assistenziale familiare, quest’ultimo risulta maggiore con la presenza di bambini con uno sviluppo neurologico compromesso dove tale carico aumenta ulteriormente con la presenza di vulnerabilità socioeconomiche del nucleo familiare. Nel contempo, la qualità di vita di questi genitori non sembra essere influenzata dal livello di disabilità del bambino, dai suoi bisogni di salute e dai risultati scolastici, ma dalla sua salute mentale, dal suo livello di felicità e dalla capacità dello stesso bambino di riuscire a relazionarsi adeguatamente con i propri pari. Diversi studi sul funzionamento familiare e sulla qualità delle relazioni (in considerazione, per esempio, del tasso di divorzio e del livello di soddisfazione coniugale) non hanno invece riscontrato differenze tra genitori di bambini nati pretermine e quelli nati a termine. Alcune ricerche hanno addirittura rilevato un impatto positivo dell’esperienza di prematurità sulla famiglie, rilevando quanto in alcuni contesti l’esperienza sembra avvicinare in maniera importante i diversi membri del nucleo, ridurre i conflitti in seno alla famiglia e favorire una maggiore organizzazione dove però - in particolare – sembra emergere la presenza di un membro che tende a prendere la maggior parte delle decisioni familiari. Questo elaborato è stato scritto prendendo spunto dall'articolo scientifico: Legge N, Popat H, Fitzgerald D. Examining the impact of premature birth on parental mental health and family functioning in the years following hospital discharge: A review. Journal of Neonatal-Perinatal Medicine, 2023;16(2):195-208. doi: 10.3233/NPM-221107
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Un intervento centrale e distintivo delle principali forme di terapia cognitivo comportamentale: quali sono le procedure per arrivarci?
Che cos’è la formulazione del caso La formulazione del caso può essere, come la lettera rubata del racconto di Edgar Allan Poe, qualcosa che tutti cerchiamo e non troviamo perché sotto i nostri occhi, quella chiave del processo terapeutico delle terapie cognitivo comportamentali che è sfuggito alle indagini più attente, anche se è visibile per tutti sul caminetto.Il nostro libro La formulazione del caso in trapia cognitivo comportamentale - Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro rappresenta un tentativo di ripensare la funzione di questo strumento terapeutico.  L’idea è che negli approcci cognitivi, i clinici si sono dedicati a indagare le credenze irrazionali e le distorsioni cognitive, a volte al prezzo di sottovalutare la condivisione esplicita della formulazione del caso, dandola per scontata.  La formulazione condivisa del caso clinico rappresenta invece l’intervento centrale e distintivo delle principali forme di terapia cognitivo comportamentale perché è intrinsecamente legata ai principi fondamentali di questa terapia. Nel nostro libro descriviamo concretamente le procedure di formulazione condivisa del caso, ripercorrendo lo sviluppo storico delle principali forme di terapia cognitivo comportamentale per mostrare il modo in cui la formulazione condivisa del caso emerge come una caratteristica veramente unificante e distintiva di questo approccio; infine esploriamo l'uso della formulazione del caso in alcuni approcci relazionali e psicodinamici, discutendone le somiglianze e le differenze con la terapia cognitivo comportamentale. L’obiettivo è quello di qualificare gli approcci cognitivo comportamentali come trattamenti in cui - per definizione - il processo terapeutico avviene con la piena e continua condivisione consapevole del processo tra paziente e terapeuta, a differenza di altri modelli in cui il processo terapeutico non avviene stabilendo questa piena condivisione fin dall'inizio ma concependolo come un obiettivo da raggiungere e un risultato finale del trattamento. Quest'ultimo aspetto comporta l'esplorazione di stati mentali e modelli relazionali che non sono immediatamente accessibili alla coscienza, come accade nelle terapie psicodinamiche o cercando significati personali ed esistenziali che risultano elaborati compiutamente solo alla fine di un lungo processo esplorativo. I tre aspetti della formulazione del caso I punti della formulazione del caso che sono oggetto di questa condivisione incessante sono tre. La formulazione esplicita e condivisa di un modello esplicativo della sofferenza emotiva; La formulazione esplicita e condivisa del razionale della strategia di trattamento proposta al paziente;  Il monitoraggio del progresso terapeutico e azione retroattiva di questo monitoraggio sulla strategia di trattamento strategia, che permette, quando necessario: La riformulazione del caso; La rinegoziazione degli obiettivi della terapia; Il cambiamento della proposta di trattamento secondo la nuova formulazione e il nuovo razionale. Formulazione condivisa del caso e alleanza terapeutica La formulazione condivisa del caso può offrire agli approcci cognitivo comportamentali una terminologia specifica per trattare i cosiddetti fattori comuni e i processi terapeutici aspecifici, cioè la gestione dell'alleanza e della relazione terapeutiche. Non è un caso che nei modelli psicodinamici e costruttivisti la cognizione sia concepita in maniera così inseparabile dall'esperienza relazionale al punto da far considerare quest’ultima come il vero mediatore significativo del cambiamento terapeutico. Invece negli approcci cognitivo comportamentali, l'alleanza e la relazione sono importanti precondizioni del processo terapeutico ma non sono l'unità di analisi per il processo di cambiamento.  Struttura e contenuti del libro I capitoli del volume La formulazione del caso in trapia cognitivo comportamentale - Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro sviluppano il programma delineato fin qui; la maggior parte dei capitoli sono scritti dai tre curatori Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli e trattano la formulazione del caso sia nell’orientamento terapeutico cognitivo comportamentali che non, mentre altri capitoli sono commenti critici sugli assunti principali del libro forniti da esperti in specifici orientamenti terapeutici.  Il capitolo 1 tratta l'emersione della formulazione condivisa del caso nella terapia cognitivo comportamentale di Beck e nell'approccio comportamentale di Victor Meyer. I commenti a questo capitolo sono scritti da Arthur Freeman che descrive il processo di concettualizzazione in undici passi, Steven Hollon che spiega come i terapeuti cognitivi gestiscono la relazione con i pazienti in un modo che è interamente guidato dalla concettualizzazione cognitiva e Angelo Saliani, ClaudiaPerdighe, Barbara Barcaccia e Francesco Mancini che introducono il ruolo degli scopi nella formulazione del caso cognitivo comportamentale.  Il capitolo 2 si occupa dell'uso della formulazione condivisa del caso nel comportamentismo e in particolare tratta il concetto di formulazione del caso in Meyer (1957) e poi in Turkat (1985, 1986). Il commento a questo capitolo è scritto da Peter Sturmey, un importante studioso della tradizione comportamentale. Il capitolo 3 è scritto dai curatori in collaborazione con Diego Sarracino, e discute come nella terapia emotiva razionale comportamentale (rational emotive behavior therapy, REBT) di Albert Ellis il terapeuta utilizza tre specifici passi della procedura di base ABC DEF della REBT, cioè la connessione B-C, il razionale del D e la negoziazione dell’F per formulare i problemi del paziente, regolare il processo terapeutico e gestire l'alleanza terapeutica. RaymondDiGiuseppe e Kristene Doyle e Wouter Backx, che sono tra i maggiori eredi del lavoro di Albert Ellis, commentano questa ipotesi. Il capitolo 4, scritto dai curatori in collaborazione con Andrea Bassanini, discute la formulazione del caso negli approcci cognitivo comportamentali più recenti focalizzati sui processi cognitivi. Nella Schema Therapy il caso è formulato in termini di modelli del sé che non sono puramente cognitivi e nei cosiddetti "modi" (modes) che sono modelli relazionali stereotipati e inflessibili. Nel modello di terapia metacognitiva la formulazione del caso si concentra sulla funzione della scelta esecutiva cosciente che può diventare disfunzionale a causa di distorsioni (bias) metacognitivi. Il modello della terapia di accettazione e impegno (Acceptance and Commitment Therapy, ACT) appartiene alla cosiddetta "terza onda" delle terapie cognitive e può essere concettualizzato come una reincarnazione della concezione funzionalista di Meyer della formulazione del caso in cui il compito terapeutico è focalizzato sulla valutazione e condivisione con il paziente del suo funzionamento mentale allo scopo di pianificare il trattamento. Infine, la CBT basata sul processo (Process Based Cognitive Behavioral Therapy, PB-CBT; Hayes e Hofman 2018) integra l'approccio cognitivo standard in un quadro processuale formulando il caso intorno a fondamentali processi biopsicosociali in situazioni specifiche con clienti specifici. AvigalSnir e Stefan Hofmann, Paolo Moderato e Kelly Wilson e Eckard Roediger, Nicola Marsigli e Gabriele Melli commentano questi modelli processuali che introducono un secondo livello metacognitivo di processo nell'attività mentale che permette la concettualizzazione delle difficoltà dei pazienti che sono meno in grado di distaccarsi criticamente dai loro contenuti cognitivi.  Il capitolo 5, scritto dai curatori in collaborazione con Antonio Scarinci, è dedicato agli approcci costruttivisti. L'ipotesi centrale del capitolo è che, nei modelli costruttivisti, la condivisione della formulazione del caso è il risultato di un processo esplorativo e non una mossa iniziale che stabilisce le regole del gioco. I modelli più promettenti di questa tradizione sono la terapia metacognitiva e interpersonale (Metacognitive Interpersonal Therapy, MIT), che integra concetti interpersonali e metacognitivi, e la terapia focalizzata sul dilemma (Dilemma Focused Therapy). I commenti su questo capitolo sono scritti da molti clinici e teorici della tradizione costruttivista: Guillem Feixas e David Winter, Antonio Semerari e Antonino Carcione, Benedetto Farina, Maurizio Dodet, Fabio Monticelli,Raffaella Visini e Saverio Ruberti. Riassumendo, tutti questi teorici e clinici sembrano interessati ad esplorare il livello di attività mentale percettiva, non verbale, relazionale e traumatica, tutti aspetti basati sull'emotività e non controllati dal calcolo razionale e dalle facoltà volontarie. Il capitolo 6 si occupa dei modelli di formulazione del caso che sottolineano il ruolo della relazione terapeutica, sia nel paradigma psicodinamico che costruttivista. Il possibile presupposto di questi modelli è che la formulazione del caso non può essere completamente condivisa all'inizio del trattamento, ma è piuttosto un risultato del processo terapeutico. Queste concezioni considerano la relazione terapeutica come l’unità di analisi fondamentale del disturbo e come il campo in cui agisce il meccanismo psicopatologico e viene applicato il processo terapeutico. La conseguenza è che i modelli relazionali condividono la formulazione del caso come risultato finale di un percorso esplorativo. Questa ipotesi è applicabile anche ai moderni modelli psicodinamici come la Control Mastery Theory (CMT). I commenti a questo capitolo sono scritti da Francesco Gazzillo e George Silberschatz, Marco Innamorati e Mariano Ruperthuz Honorato e Paolo Migone. Questi commenti sviluppano il tema degli stati mentali non razionali già esplorato nei capitoli precedenti, portandolo all'ulteriore livello degli stati inconsci dei modelli psicodinamici.  Il capitolo 7 presenta il modello di formulazione del caso dei curatori di questo libro; esso esplora la possibilità di integrare nella formulazione del caso gli elementi della CBT, standard, evolutivi e processuali e si chiama Life Themes and Plans: Implications of Biased Beliefs Elicitation and Treatment (LIBET). Il disturbo emotivo è concettualizzato su due assi: 1) una valutazione negativa di eventi problematici e modelli relazionali, chiamati "temi di vita", appresi in esperienze e relazioni significative valutate come intollerabilmente dolorose e formulate in termini di credenze di sé, un concetto basato sia sui costrutti personali di Kelly che sulle credenze centrali di Beck; e (2) una gestione rigida e unidimensionale dei temi di vita ottenuta utilizzando strategie di coping evitanti, controllanti e/o impulsive chiamate "piani semi-adattivi", privilegiati anche a costo di rinunciare in misura significativa ad aree di sviluppo personale, relazionale, emozionale, cognitivo e comportamentale. Infine, c'è un terzo livello processuale che mantiene temi e piani disfunzionalmente attivi. Il capitolo è commentato dallo studioso costruttivista David Winter.  Christiane Eichenberg (capitolo 8) discute gli sviluppi delle più recenti applicazioni tecnologiche alla formulazione e pianificazione del caso: le applicazioni elettroniche per la salute mentale. Infine, nella postfazione finale i tre curatori discutono brevemente come i presupposti fondamentali di questo libro possano essere influenzati e trarre profitto dalle osservazioni e dalle critiche presentate nei commenti.
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Come impostare un percorso psicoterapeutico efficace con le neo-mamme
Come terapeuti ci troviamo sempre più a rispondere alla domanda di cura di donne che stanno affrontando una gravidanza o la fase del postparto e della crescita del loro bambino e si sentono sofferenti, in ansia, talvolta in un tunnel, angosciate e impaurite dai loro sintomi. Non basta essere psicoterapeute/i madri/padri per saper curare una donna che sta attraversando un momento di crisi in epoca perinatale. La comprensione e l’empatia che possono derivare “dall’esserci passate/i” non è sufficiente. Serve invece preparazione, studio, aggiornamento, supervisione perché in questo ambito è facile essere investiti dalle aspettative di cura e di aiuto di una donna che si sente disperata. È facile in questa situazione dimenticare le regole essenziali della psicoterapia che hanno a che fare con il setting e con la gestione delle potenti emozioni che circolano quando si entra nel mondo della perinatalità. Gravidanza, parto, postparto sollecitano infatti emozioni profonde e primitive, memorie esplicite ed implicite anche nei terapeuti che a loro volta sicuramente sono stati figli e in alcuni casi genitori. È importante tenere conto che le donne che vengono a chiederci aiuto stanno attraversando un momento di snodo della loro vita, madri si diventa e ci si resta per sempre qualsiasi cosa accada….è un cambiamento di “paradigma” che avviene nella vita della donna che comporta grandi rimaneggiamenti biologici, emotivi, affettivi cognitivi, comportamentali e sociali. Vengono fortemente sollecitati i sistemi di attaccamento e accudimento risvegliando emozioni profonde legate a come la donna stessa è stata accudita. Quando la donna si rivolge a noi in gravidanza dobbiamo tenere presente che si sta confrontando con l’emergere di emozioni, memorie, sensazioni che spesso si caratterizzano per la ambivalenza che sollecitano. L’ambivalenza è il sale delle vita affettiva e relazionale, le relazioni d’amore propongono sempre vissuti ambivalenti da gestire. La gestione dell’ambivalenza affettiva verso il feto prima e poi verso il bambino ci dà un primo indicatore di potenziali risorse e difficoltà in questa delicata fase di passaggio. Quando invece ci troviamo in prossimità del parto e nel periodo ad esso successivo, è importante considerare che nella donna si attivano echi di vissuti inerenti la separazione e l’intimità fisica ed affettiva da costruire con un essere che è totalmente in balia di un adulto, da cui dipende per la sua sopravvivenza fisica ed affettiva. La responsabilità è enorme e per alcune l’essere prima due in un corpo solo (simbiosi gravidica) e poi separati fisicamente ma in simbiosi affettiva (simbiosi postparto) può essere destabilizzante dal punto di vista emotivo, affettivo. In questo senso durante la gravidanza e nel postparto anche le donne che pensavano di sentirsi “pronte” per la maternità sono spesso sorprese, o addirittura sopraffatte, dall'ondata di emozioni e ricordi stimolati dalla nascita e dai requisiti necessari per prendersi cura di un bambino. Psicoterapia perinatale: un’opportunità di crescita La psicoterapia nel periodo perinatale offre alle donne un'opportunità eccezionale per rivedere i “nodi” della propria storia. Questi nodi tendono a “venire al pettine“ nel passaggio evolutivo che è il diventare genitori. Si aprono delle “finestre” che danno una grande possibilità progressiva e di potenziale crescita personale. Mentre la storia di queste due vite si sviluppa e si interseca, siamo alla confluenza di ricordi e relazioni, vecchie e nuove, con tutte le opportunità di ripetizione o riparazione È un’occasione per comprendere meglio come si funziona, come ciò è legato alla propria storia di figli (storia di attaccamento) che si riattualizza attraverso l'attuale relazione con il nuovo bambino, partner, famiglia allargata e amici... Soprattutto quando la donna inizia a prendersi cura del suo bambino e tenta di autoregolarsi, la storia delle sue origini viene rappresentata e incarnata mentre i ricordi impliciti ed espliciti vengono rivelati nei suoi pensieri, sentimenti, nel comportamento e nel corpo, evidenziando le storie di attaccamento sicuro, ansioso, ambivalente, disorganizzato. Proprio queste specificità perinatali offrono a noi terapeuti la possibilità, man mano che l’alleanza terapeutica si consolida e la terapia va avanti, di far cogliere la potente potenzialità trasformativa della terapia nel periodo perinatale e come ciò potrà avere un impatto sulla sua vita intima, ma anche sulla vita del bambino e sui rapporti di coppia genitoriale e coniugale e in generale sull’intera famiglia. Questo aspetto può essere un elemento motivante da non sottovalutare se utilizzato nei giusti modi e tempi. Come terapeuti dobbiamo avere ben presente che in questa particolare fase di vita nella terapia “abbiamo il vento in poppa” e possiamo navigare nel mare della psicoterapia più agevolmente grazie alla forte permeabilità psichica che caratterizza questo periodo. Tale permeabilità è una risorsa, ma può proporci anche diverse criticità cliniche. Psicoterapia perinatale: alcune criticità Se è vero infatti che questo è un momento propizio per iniziare una psicoterapia, lavorare terapeuticamente con le donne nel periodo perinatale presenta difficoltà legate tra gli altri fattori al setting e alle caratteristiche psicologiche di chi poi sviluppa dei sintomi. Il terapeuta può essere messo a dura prova da questo tipo di pazienti per l’alto livello di ansietà che spesso sfocia in vere e proprie crisi di panico o di angoscia, per le caratteristiche di perfezionismo che spesso caratterizzano le donne che stanno male nel periodo perinatale, e per l’aspetto luttuoso difficile da elaborare che connota il vissuto di alcune donne in questo passaggio evolutivo. Per le donne che durante questa fase di transizione stanno male il vissuto spesso è di fallimento e di non capacità, rispetto ad un’immagine di se come donna efficiente, capace organizzata e che ha “tutto sotto controllo”. Spesso lo scollamento tra aspettative e realtà è ampio. La donna che sta male nel periodo perinatale è spiazzata, è sopraffatta dall’emergere di una parte di sé poco conosciuta/misconosciuta incarnata dalla parte più fragile di sé che prende il sopravvento. Questa parte “fragile” di sé spesso è stata soffocata difensivamente dalla parte adultizzata, iper-razionale e rigida che lascia poco spazio alle proprie debolezze. Spesso sono donne con una spiccata propensione al perfezionismo, poco inclini a chiedere aiuto e ad accettarlo e questo può essere un ostacolo ad una solida alleanza di lavoro. Sarebbe invece importante una individuazione precoce del malessere ed una altrettanta sollecita presa in carico, che può iniziare a partire dalla gravidanza, quando il malessere si evidenzia già in questa fase. Invece spesso le donne arrivano dal clinico quando i sintomi sono diventati ingestibili e l’angoscia e l’ansia sono divenuti insostenibili. Questo può creare una situazione di urgenza/emergenza che può porre difficoltà ed indurre il clinico a sentirsi allarmato e sollecitato a fare, anziché poter prendersi il tempo per riflettere, contenere, capire. Il clinico deve poter tollerare la forte ansia/angoscia che talvolta circola nella relazione con queste pazienti. È importante ricordare che il nostro compito con queste donne è quello di aiutarle gradualmente ad entrare in contatto con le parti di sé e laddove si può, esplorandone insieme con cautela e gradualità la storia delle loro origini. Il compito può essere arduo e le insidie si dispiegano al terapeuta dalla fase iniziale della presa in carico e durante il percorso psicoterapeutico. Questo ed altri aspetti di specificità e criticità suggeriscono al clinico di procedere con attenzione, competenza ed umiltà In generale possiamo però dire che un approccio sensibile, empatico ma anche attento alle insidie tipiche del lavoro con queste pazienti, può offrire un immenso sostegno e sollievo a una neo mamma. Il rapporto con il terapeuta infatti modella, mette in parallelo e mette in atto il processo stesso che la madre deve intraprendere con il suo bambino: ricerca, sintonizzazione e coinvolgimento, in una relazione che fornisca sicurezza, coerenza, convalida, accettazione e crescita. Con il reciproco coinvolgimento, nel qui e ora, di un terapeuta adeguatamente formato, la neomamma può esplorare e comprendere le sue risposte ai cambiamenti della gravidanza e del post parto e la sua storia relazionale, mentre viene supportata, incoraggiata e normalizzata nel soddisfare i bisogni relazionali suoi e del suo bambino.
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