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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Psicologia
Mentre scrivo, il premier ha appena annunciato in TV che il periodo di isolamento attivo in casa è stato protratto al 3 maggio, la prima reazione, d’istinto, è stizzita: “Già, è la terza volta che rimandano il termine del Lockdown, sarà l’ultima?” Un misto di rabbia e paura ci pervade: rabbia perchè, pur ragionevolmente, siamo privati della libertà di scegliere di muoverci, incontrare parenti, amici, riprendere gli affari, promuovere nuove iniziative; paura perché, altrettanto consapevolmente, vuol dire che la minaccia del contagio non è finita, che l’incontro con altri esseri umani rimane un’incognita, una possibilità negativa di superare il labile confine tra salute e malattia. Tutto questo è umanamente comprensibile, ma, in realtà, il vero malessere è più subdolo: quanto ancora riusciremo a stare soli in casa, senza l’abbraccio e il conforto degli altri? Così nel 2020 scopriamo che pur iperconnessi via internet e smartphone abbiamo paura di sentirci soli, abbandonati, privi di prospettive. La solitudine non è tanto una condizione oggettiva, ma è piuttosto uno stato mentale: possiamo sentirci soli perché questo stato contraddice la possibilità di essere connessi agli altri. La solitudine così intesa è, facciamo attenzione, fattore di rischio per la salute mentale e fisica di ciascun individuo. Lo sapevate che da circa 40 anni i governi di Stati Uniti, regno Unito, Danimarca, Svezia, ecc. hanno posto attenzione al fatto che la solitudine si stava sviluppando nei loro paesi ed hanno chiesto ai ricercatori di psicologia, neuroscienze sociali, psichiatria di studiare a fondo il problema? Uno dei più influenti è stato John Cacioppo della Università di Chicago. Insieme ad altri, ha posto attenzione a quando la solitudine diventa problema. Gli studi inizialmente si sono occupati di fasce di età (anziani) o sociali (emarginati) ma poi si sono estesi a tutti, soprattutto per chi vive nella società occidentale e industrializzata. Il disagio da solitudine è psicologico: il mondo è rappresentato come un luogo potenzialmente portatore di minacce e l’attenzione ai segnali provenienti da questo non fa che confermare queste convinzioni, aumenta il disagio emotivo (ansia, paura), e aggrava i comportamenti protettivi (evitamento, isolamento), con peggioramento dell’umore e perdita del desiderio o motivazione a fare le cose.  Tra le cose che non si fanno più c’è l’attività fisica che invece è fondamentale per mantenere attivo l’organismo e stimolare la mente a occuparsi di cose da fare. Le persone sole hanno una peggiore qualità del sonno: non tanto nella durata ma nella pesantezza e scarsa energia mentale che riscontrano dopo aver dormito. Le funzioni cognitive ed esecutive nei soggetti soli sono peggiori in confronto a chi non si sente solo. Per chi ha disturbi mentali le condizioni peggiorano se la solitudine è sofferta: psicosi, disturbi di personalità, depressione, Alzheimer, ecc. Il disagio derivante dalla solitudine peggiora lo stato fisico: una complessa interazione tra solitudine, elevati valori pressori e ormoni dello stress (cortisolo) fa sì che il rischio di ammalarsi di patologie cardiovascolari è maggiore in queste persone. Ugualmente, complesse relazione tra l’apparato neuroendrocrino stress collegato e sistema immunitario fa sì che le persone sole abbiano una risposta alle reazioni immunitarie più scarsa degli altri. Un classico studio condotto su popolazione di studenti ha mostrato che in due gruppi divisi secondo un questionario che descriveva la solitudine(Loneliness, UCLA), quelli con punteggi più alti al test avevano più possibilità di infettarsi con virus del raffreddore piuttosto di chi aveva al test punteggi più bassi. Ma di che solitudine potremmo soffrire? Un primo livello è quello della deprivazione dell’intimità, nel caso specifico, del partner in grado di dare supporto emotivo e fisico. Sono le situazioni “private” dove condividiamo molto con la persona amata, con i figli, con chi è in grado di conoscere una reciprocità importante del legame umano. In questo periodo di distanziamento sociale, pensiamo a chi per motivi vari si trova in un’altra regione d’Italia oppure non vede il partner perchè vive in un’altra parte della città, un altro paese, ecc. Un secondo livello è quello delle relazioni familiari e amicali, altra “mancanza” cui stiamo facendo fronte in questa quarantena. Spesso sono persone che non risiedono con noi e di cui sentiamo la mancanza per la qualità delle “connessioni” in grado di fornirci. Un terzo livello è quello dei rapporti collettivi, ovvero i contatti che normalmente generiamo nei luoghi di lavoro, negli spazi sociali, negli avvenimenti cui partecipiamo. In questo caso ci riferiamo a quelle situazioni che per diversi motivi ci fanno “appartenere” ad un gruppo creando un senso di identità al vivere sociale. Come possiamo proteggerci per non soffrire di solitudine? La situazione cui mi riferivo all’inizio, seppur mossa da regole sanitarie ferree e condivise può quindi interferire con tutti e tre i livelli di “connessione” tra noi e gli altri: la domanda è come ci proteggiamo? Dobbiamo tornare a vivere le relazioni personali con maggiore consapevolezza: se avete notato, il tempo è“rallentato” e abbiamo più tempo per fare “meno” cose di prima, questo è un tempo guadagnato per le relazioni in casa. Al di là dei comportamenti aneddotici: fare attività sportiva, cucinare, pulire la casa, riparare oggetti, leggere, studiare, ecc. Il tempo che noi dedichiamo per dialogare e riscoprire la condivisione quotidiana è aumentato: sia nel compiere attività casalinghe, che ripercorrere memorie condivise, che riscoprire momento di gioco o di intimità la nostra casa può diventare un luogo dove i “morsi” della solitudine scompaiono. Dobbiamo usare saggiamente la tecnologia per essere connessi ai nostri famigliari e amici in modo positivo: meno tempo trascorso a commentare le statistiche epidemiologiche e più tempo a parlare di interessi personali ed in comune. Gli amici possono essere sollecitati via smartphone in call a più persone: anche un “brindisi” virtuale per un compleanno di un amico lontano può essere occasione di mostrare quanto siamo interessati agli altri e quante cose ci appartengono. Nella vita sociale sempre l’uso delle tecnologie sta cambiando le comunicazioni sul lavoro, sulla formazione, sulla conduzione di gruppi di varia natura (politica, religiosa,ecc.). Il principio della appartenenza è legato all’utilizzo di internet a scopi sociali e non come mezzo che generalmente ci passivizza e ci rende dipendente dalle varie offerte. Anche una “diretta” su Facebook, se ben condotta, può portare condivisione sociale: per esempio un’esibizione musicale dal vivo oppure una visita guidata in un museo. Se nonostante tutto la solitudine non passasse? Già nel paragrafo precedente ci soffermavamo a interventi di protezione dalla solitudine, ovvero promuovere il contatto sociale e le forme di sostegno sociale. Ma l’individuo che si sente solo potrebbe avere problematiche più complesse, ovvero non riuscire a sentirsi “connesso” con gli altri oppure non avere le “competenze” sociali.  Per questi e tutti quelli che poi più che una solitudine protratta vivono una condizione abituale di non condivisione relazione e/o di non appartenza sociale si parla più appropriatamente di Ritiro Sociale, ma questa, come si dice nei film, è “un’altra storia”.
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Search-ME - Erickson 2 Psicologia
Un grave gap a cui il Governo dovrebbe porre rimedio.
Su Lancet Psychiatry un gruppo di 42 esperti mondiali che hanno formato la International Covid-19 Suicide Prevention Research Collaboration ha recentemente lanciato l’allarme. È facilmente prevedibile, e non credo serva spiegarne i motivi, che ciò che è accaduto e sta accadendo in Italia e nel mondo porti a un rapido incremento nei prossimi mesi di disturbi da stress post-traumatico, ansia per le malattie, disturbi ossessivo-compulsivi, abuso di sostanze, depressione e forse persino tassi di suicidio. Ci troveremo presto di fronte a un’emergenza psicologica senza precedenti, almeno nelle ultime decadi, frutto delle conseguenze dirette del Covid-19, come la paura per la propria e altrui incolumità, i lutti subiti, i traumi a cui è esposto il personale sanitario in prima linea. Ma anche delle conseguenze indirette, quelle che toccano tutti. Basti pensare alla grave deprivazione sociale degli ultimi due mesi, alle pesantissime ripercussioni economiche e occupazionali derivanti dal lockdown, al senso di privazione della libertà personale, alle enormi incertezze sul futuro, ai problemi di coppia che la quarantena ha scatenato, alle difficoltà nel gestire i figli con le scuole chiuse. Il peggio è passato o deve ancora venire? Dal punto di vista psicologico temo purtroppo che le peggiori conseguenze debbano ancora arrivare. Al momento viviamo tutti in uno stato di sospensione, preoccupati primariamente per la salute che passa giustamente avanti a tutto, in attesa della fine di questo periodo così strano e impensabile fino a poco tempo fa, al punto che non riusciamo del tutto a realizzarlo. È come se avessimo premuto il tasto pausa. La nostra vita è bloccata e di conseguenza lo sono anche le nostre emozioni, con cui abbiamo un contatto solo parziale. Per fortuna, direi, altrimenti piomberemmo in uno stato di disperazione che ci renderebbe insopportabile una condizione come quella attuale. Sfruttiamo un meccanismo di difesa psicologico che ci consente di non soffrire troppo per l’assenza dei nostri cari, per la mancanza di attività piacevoli, per l’isolamento sociale. Arriverà un momento, penso e spero a brevissimo, in cui torneremo a una presunta normalità. Quel momento che tutti agogniamo, ma in cui ci renderemo conto che molte cose non sono più come prima, che certi equilibri sono irrimediabilmente rotti. E realizzando davvero ciò che è accaduto e soprattutto le conseguenze che si porta e si porterà dietro, entreremo in contatto con le conseguenti emozioni: tristezza, rabbia, ansia, disperazione, senso di vuoto, angoscia. Da qui a sviluppare una qualche forma di psicopatologia (o al ricadervi se ne avevamo sofferto in passato) il passo è breve. Il bisogno di terapie psicologiche Tutto ciò comporterà un aumento del bisogno di terapie psicologiche che siano in grado di alleviare la sofferenza, facilitare l’adattamento e la resilienza, contrastare i meccanismi che favoriscono la genesi e il mantenimento della patologia psichica. Gli strumenti non mancano, i professionisti neanche. Viviamo in un paese in cui ci sono circa 60.000 psicologi attivi, di cui oltre la metà ha una specializzazione in psicoterapia. Ci sono terapie sufficientemente brevi, con comprovata efficacia, in parte erogabili anche online. Se anche la domanda di cure psicologiche aumentasse esponenzialmente non mancherebbe l’offerta pronta a rispondervi. E la maggior parte delle persone che soffrono di problemi psicologici potrebbe trarne grande giovamento. Qual è allora il vero problema del momento? Che le psicoterapie hanno un costo, poiché si tratta di servizi di alta specializzazione per i quali sono richieste una laurea, un tirocinio, un’abilitazione professionale, un corso almeno quadriennale di specializzazione post-lauream, oltre a continuo aggiornamento, formazione e supervisione. Inoltre, come per ogni prestazione sanitaria erogata in ambito primariamente privatistico, la psicoterapia costa tanto di più quanto maggiore è la qualità del servizio offerto e l’esperienza del professionista a cui ci si rivolge. Dunque, chi desidera un aiuto professionale e qualificato deve mettere in conto un importante esborso, peraltro continuativo (non una-tantum) e neanche coperto dalla maggior parte delle assicurazioni sanitarie. È possibile accedere a servizi di psicoterapia gratuiti? In questo momento particolare molti professionisti offrono le proprie prestazioni di assistenza psicologica a titolo volontario. Recentemente la Protezione Civile stessa ha lanciato un numero verde per il supporto psicologico ai cittadini, coordinando una rete di volontari messi a disposizione da alcune società scientifiche di psicoterapia. Si tratta tuttavia di servizi temporanei, che offrono la possibilità di effettuare un numero molto limitato di colloqui, forse utili a contenere l’emergenza, ma che non possono certo sostituirsi a un effettivo percorso di cura, che richiede continuità nel tempo per mesi, talvolta anni. Una volta terminati i colloqui gratuiti, i colleghi che ravvisano segnali di una conclamata forma di psicopatologia non potranno far altro che suggerire a chi li ha contattati di proseguire un percorso di psicoterapia a pagamento. Idealmente la psicoterapia dovrebbe essere tra le prestazioni offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Ma purtroppo gli investimenti pubblici su questi servizi sono stati drasticamente ridotti soprattutto negli ultimi vent’anni. Cosa ne consegue? Nei prossimi mesi probabilmente avremo un aumento importante della forbice tra il bisogno di terapie psicologiche e la capacità di coloro che ne abbisognano di potersele permettere. Le principali conseguenze del Coronavirus saranno infatti di ordine economico. In molti dovranno metter mano ai propri risparmi, ammesso che ne abbiano. Le spese superflue, che però garantivano un margine di benessere (es. vacanze, sport, vestiti, ecc.) subiranno una inevitabile contrazione. Molte attività non riapriranno i battenti o si ridimensioneranno e di conseguenza molte persone perderanno il lavoro. Tutti elementi che potrebbero contribuire a incrementare la sofferenza psicologica, soprattutto in soggetti predisposti. Da qui il paradosso: le difficoltà economiche saranno sia una delle cause del malessere psicologico, sia il principale motivo per cui alcune persone non potranno permettersi di spendere per ottenere l’aiuto necessario a recuperare il proprio benessere. La soluzione? Tenendo conto che gli psicoterapeuti sono dei professionisti, spesso altamente qualificati, che hanno investito e investono molto per la propria formazione, i servizi di psicoterapia di qualità non potranno mai essere gratuiti o “low cost”, tranne in casi eccezionali e di emergenza come questo, per brevi e circoscritti periodi. Non appena l’emergenza sanitaria sarà cessata, le psicoterapie torneranno giustamente ad avere un costo analogo a quello di qualunque altra prestazione medico-specialistica. Ma probabilmente sarà proprio quello il momento in cui ce ne sarà più bisogno. Sarebbe quindi importante non fare affidamento soltanto sui servizi psicologici, temporanei e su base volontaria attivati in fase di emergenza, facendo leva sul senso civico dei nostri colleghi. Piuttosto, così come ci si sta giustamente ponendo il problema dell’urgenza di reclutare personale medico, infermieristico ed educativo, occorrerebbe destinare fondi adeguati al Servizio Sanitario Nazionale per assumere un significativo numero di psicologi ed esser pronti a rispondere alla grande richiesta di psicoterapie che ci sarà nei prossimi mesi e anni.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Domande e risposte sulla terapia cognitivo-comportamentale per affrontare le crisi di coppia o famiglia
Perché la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per affrontare i problemi di coppia e familiari? Quali sono i processi cognitivi alla base della terapia cognitivo-comportamentale di coppia? Quali sono le frequenti distorsioni cognitive riscontrabili nelle crisi di coppia o familiari? Gli schemi della terapia cognitivo comportamentale applicati alla coppia e alla famiglia I pensieri automatici nella terapia cognitivo comportamentale coincidono con gli schemi? Qual è la relazione tra schemi e distorsioni cognitive? Come agire sugli schemi nella terapia di coppia? Su cosa si basa l’assessment iniziale? Quali tecniche utilizzare per impostare il trattamento?     Perché la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per affrontare i problemi di coppia e familiari? Le applicazioni della CBT ai problemi delle relazioni di coppia sono state introdotte quasi 50 anni fa nei primi scritti di Albert Ellis concernenti l’importanza che i pensieri ricoprono nei problemi coniugali. Ellis e colleghi suggerivano che si verificasse una disfunzione relazionale quando le persone hanno credenze irrazionali o irrealistiche riguardo al proprio partner e alla propria relazione e esprimono valutazioni negative su partner e relazione che non sono all’altezza delle loro irrealistiche aspettative. Nel momento in cui si attivano questi processi cognitivi negativi, è probabile che l’individuo sperimenti intense emozioni negative (rabbia, delusione e amarezza) e si comporti male nei confronti del partner. I metodi consolidati di assessment e di intervento cognitivo derivati dalla terapia individuale sono stati adattati dai terapeuti cognitivo-comportamentali per essere utilizzati nella terapia di coppia al fine di identificare e modificare le distorsioni cognitive che i partner attuano reciprocamente. Come nella psicoterapia individuale, gli interventi cognitivo-comportamentali per le coppie sono stati concepiti per incrementare le competenze dei partner nell’identificare e modificare i propri pensieri disfunzionali e le capacità di comunicazione e di risoluzione costruttiva dei problemi. La terapia cognitivo-comportamentale di coppia (CBCT; Cognitive-Behavioral Couple Therapy) è stata sottoposta a più studi controllati di efficacia rispetto a qualunque altra terapia.     Quali sono i processi cognitivi alla base della terapia cognitivo-comportamentale di coppia? Percezioni: nelle relazioni di coppia e nei rapporti familiari le percezioni si riferiscono al modo in cui interagiamo con partner o familiari e a come li percepiamo nel corso delle interazioni. Aspettative e doverizzazioni: esistono vari contenuti cognitivi che frequentemente emergono nelle relazioni in crisi, e, sebbene ciascuna categoria costituisca una normale forma di pensiero, ognuna è suscettibile di distorsioni: Attenzione selettiva. La tendenza a prestare attenzione solo ad alcuni degli aspetti della relazione e a tralasciarne altri (ad es., focalizzarsi sulle parole del partner e ignorarne le azioni). Attribuzioni. Inferenze sui fattori che hanno influenzato le azioni del proprio compagno (ad es., desumere che il partner non abbia risposto a una domanda al ne di esercitare un controllo sulla relazione). Aspettative. Anticipazioni riguardo alla probabilità che eventi specifici si verificheranno nella relazione (ad es., ritenere che esprimere al partner i propri sentimenti susciterà la sua rabbia). Assunzioni. Credenze riguardo alle caratteristiche generali delle persone e delle relazioni (ad es., una donna convinta che gli uomini non abbiano bisogno di un legame emotivo). Doverizzazioni. Credenze circa le caratteristiche che le persone e le relazioni “dovrebbero” avere (ad es., non dovrebbero esserci barriere tra i partner, che devono condividere totalmente pensieri ed emozioni).     Quali sono le frequenti distorsioni cognitive riscontrabili nelle crisi di coppia o familiari? Oltre ai pensieri automatici e agli schemi, Beck e collaboratori (1979) hanno identificato le distorsioni cognitive, o errori di elaborazione dell’informazione, che contribuiscono a far sì che i pensieri siano fonte di sofferenza e di conflitto. Inferenza arbitraria. Si traggono conclusioni senza prove valide. Ad esempio, i genitori la cui figlia adolescente arriva a casa mezz’ora dopo l’orario stabilito concludono: “Ci risiamo, si sta di nuovo cacciando nei guai”. Astrazione selettiva. L’informazione viene estratta dal contesto e alcuni dettagli vengono messi in evidenza, mentre altre importanti informazioni vengono ignorate. Ad esempio, un uomo la cui moglie risponde alle sue domande con risposte a monosillabi giunge alla seguente conclusione: “È arrabbiata con me”. Ipergeneralizzazione. Un unico evento (o un paio) viene adottato quale rappresentazione di tutte le situazioni simili, collegate o meno ad esso. Ad esempio, quando un genitore nega al figlio di uscire con gli amici, il bambino desume: “Non mi lasci mai fare niente”. Esagerazione e minimizzazione. Una situazione viene percepita come più o meno significativa di quanto meriti. Ad esempio, un marito arrabbiato perde le staffe quando calcola quanto la moglie ha speso e le dice: “Siamo rovinati”. Personalizzazione. Eventi esterni vengono attribuiti a se stessi pur senza prove sufficienti per trarre tale conclusione. Ad esempio, una donna, resasi conto che il marito aggiunge del sale al cibo da lei preparato, pensa: “Detesta come cucino”. Pensiero dicotomico o pensiero polarizzato. Le esperienze vengono codificate come bianco o nero, un successo completo o un fallimento totale. Ad esempio, un marito la cui moglie non è d’accordo sulla disposizione degli oggetti nell’armadio da lui appena riordinato desume: “Non è mai contenta di ciò che faccio”. Etichettamento. La propria identità viene autodefinita in base alle imperfezioni e agli errori commessi in passato. Ad esempio, in seguito a errori continui nella preparazione dei pasti, una moglie pensa: “Non valgo niente”. Visione a tunnel. A volte i partner vedono solo ciò che vogliono vedere o ciò che collima con il loro stato mentale del momento. Un uomo che ritiene che sua moglie “faccia comunque ciò che vuole” potrebbe incolparla di prendere una decisione in maniera puramente egoistica. Interpretazione distorta. Tipo di ragionamento che i partner formulano in momenti di crisi, automaticamente, presumendo che il comportamento dell’altro sia dettato da cattive intenzioni. Ad esempio, una donna si dice: “È amorevole perché vuole qualcosa. Mi sta incastrando”. . È il dono magico di essere in grado di conoscere ciò che un’altra persona sta pensando senza l’ausilio della comunicazione verbale. Alcune coppie arrivano a imputarsi reciprocamente cattivi propositi come, ad esempio, un uomo che pensa: “So cosa ha in mente, crede che io non sappia ciò che sta facendo”.     Gli schemi della terapia cognitivo comportamentale applicati alla coppia e alla famiglia Il termine schema trae origine dalla parola-radice greca scheen (), che significa “avere” o “formare”. In ambito psicologico, esso indica “una codifica mentale delle esperienze che include un particolare modo organizzato di percepire cognitivamente e di rispondere a una situazione complessa o a un set di stimoli”. Il concetto di schema è alla base della Schema Therapy, un’estensione significativa del trattamento cognitivo-comportamentale tradizionale e dei suoi concetti. La Schema Therapy applicata alle coppie e alle famiglie, per quanto dedichi una certa attenzione agli schemi del sé propri dei singoli individui, si concentra maggiormente sul sistema relazionale e sugli schemi che si sviluppano specificatamente intorno al sé nella relazione. Essa, inoltre, indaga e analizza le esperienze che il singolo partner o il singolo componente di una famiglia hanno vissuto all’interno della loro famiglia di origine e all’inizio della loro vita.     I pensieri automatici nella terapia cognitivo comportamentale coincidono con gli schemi? I pensieri automatici sono contenuti cognitivi spontanei, spesso formulati fugacemente, per lo più consci e facilmente accessibili. I pensieri automatici consci sono la via per scoprire le credenze sottostanti o gli schemi di una persona. A volte i contenuti cognitivi sono inconsapevoli; i pensieri automatici di una persona, però, rivelano spesso i suoi schemi generalizzati sottostanti, per quanto non sempre essi ne siano espressione diretta. Molti di essi rivelano le attribuzioni del soggetto rispetto alle cause degli eventi da lui osservati.     Qual è la relazione tra schemi e distorsioni cognitive? Gli schemi sulle relazioni, spesso, non sono chiaramente articolati nella mente, ma esistono come nozioni vaghe di ciò che è o dovrebbe essere. Una volta sviluppatisi, essi influenzeranno il modo in cui la persona elaborerà le informazioni in situazioni nuove, condizionando, ad esempio, ciò che percepirà selettivamente, le inferenze che formulerà sulle cause del comportamento degli altri e il grado di soddisfazione che avrà rispetto alle proprie relazioni. Gli schemi esistenti, per quanto siano difficili da cambiare, possono essere modificati grazie a ripetute nuove esperienze con “altri significativi”.     Come agire sugli schemi nella terapia di coppia? Nella terapia di coppia, è fondamentale affrontare i pensieri caratteristici di ciascun partner. Gli individui, così come sviluppano i propri schemi di base su se stessi, sul mondo e sul futuro, elaborano anche schemi sulle caratteristiche delle relazioni strette in generale e sulle proprie. Ignorare o non riuscire a prestare ade- guata attenzione agli schemi sottostanti dei pazienti è un grave errore clinico. Gli schemi, essendo spesso al centro dei conflitti di coppia e familiari, dovrebbero essere affrontati nelle fasi iniziali del trattamento, mentre l’assessment è ancora in corso.     Su cosa si basa l’assessment iniziale? I terapeuti più esperti e qualificati sanno che la concettualizzazione del caso è un momento cruciale del processo di assessment e che la riuscita del trattamento dipende dall’accuratezza della valutazione iniziale. Le 3 modalità principali di assessment clinico sono: i colloqui individuali e congiunti (un’importante fonte di informazioni sul funzionamento passato e presente della coppia o della famiglia), i questionari self-report (questionari standardizzati per raccogliere informazioni sulle opinioni che i membri di una famiglia hanno su di sé e sulle loro relazioni) e l’osservazione comportamentale delle interazioni familiari. Gli obiettivi della valutazione sono: identificare i punti di forza e le caratteristiche problematiche degli individui, della coppia o della famiglia e dell’ambiente; identificare l’attuale funzionamento individuale e familiare considerandone le fasi di sviluppo e i cambiamenti; identificare quegli aspetti cognitivo-emotivi e comportamentali dell’interazione familiare che potrebbero essere scelti come obiettivo dell’intervento. Durante l’assessment quindi si andranno ad investigare i contenuti e processi cognitivi, i pensieri automatici e le credenze di base, la motivazione al cambiamento degli individui, le distorsioni cognitive.     Quali tecniche utilizzare per impostare il trattamento? Alcune tecniche utilizzati nella terapia cognitivo-comportamentale per le coppie e le famiglie. Training di comunicazione: una delle più comuni modalità di intervento, trasversale a vari approcci terapeutici, consiste nel migliorare la capacità dei membri di una famiglia di esprimere pensieri ed emozioni e di ascoltarsi reciprocamente. Tecnica del taccuino e matita: ciascuno ha ciascuno una penna e un taccuino su cui trascrivere qualsiasi pensiero che avesse formulato o qualsiasi emozione che avesse provato ascoltando la versione dei fatti raccontata dal partner. La scrittura non è solo catartica, ma diminuisce le interruzioni, permette ai partner e ai membri di una famiglia di concentrarsi e li aiuta ad ascoltare ciò che viene detto, mentre annotano informazioni preziose. Strategie di problem solving: durante la negoziazione, è spesso richiesta la capacità di soppesare le alternative con calma e tranquillità, e ciò è estremamente difficile in caso di disaccordo. Questo è il motivo per cui le strategie di risoluzione dei problemi sono sempre state una componente importante della CBCT. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Quali sono le caratteristiche di questo disturbo e come affrontarlo con un approccio integrato per il trattamento dei Disturbi di Personalità
Cos’è il Disturbo Narcisistico di Personalità? Quali sono i sottotipi del Disturbo Narcisistico di Personalità? Come si valuta il Disturbo Narcisistico di Personalità? Cos’è Terapia Metacognitiva Interpersonale? Qual è l’obiettivo della Terapia Metacognitiva Interpersonale nel trattamento del Disturbo Narcisistico di Personalità? Quali sono i passaggi di un intervento di Terapia Metacognitiva Interpersonale? Come curare il Disturbo Narcisistico di Personalità con la Terapia Metacognitiva Interpersonale?     Cos’è il Disturbo Narcisistico di Personalità? Il Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) è un disturbo di personalità caratterizzato da: mancanza di un autentico interesse per il mondo e le persone, con stati mentali soggiacenti di vuoto e un generale impoverimento affettivo; una capacità danneggiata di costruire relazioni interpersonali; un egocentrismo smisurato, accompagnato da una preoccupazione eccessiva per il proprio valore personale e per le questioni di competizione e di rango; un bisogno smodato di riconoscimenti da parte degli altri. Il DNP è un processo dinamico che si muove lungo tentativi di regolazione patologica dell’autostima.     Quali sono i sottotipi del Disturbo Narcisistico di Personalità? Il DNP si distingue in due principali sottotipi: overt e covert, o grandioso e vulnerabile. Considerando che, tanto la grandiosità quanto la vulnerabilità, possono esprimersi in modo manifesto (overt) o nascosto (covert), Pincus e Lukowitsky (2010) hanno proposto di distinguere i due fenotipi grandioso/vulnerabile dalle modalità di espressione overt/covert.     Come si valuta il Disturbo Narcisistico di Personalità? A sottolineare il dibattito ancora aperto sulla fenomenologia del DNP, esiste una vasta quantità di scale e interviste per la sua valutazione. In generale, al fine di ottenere una buona valutazione di un paziente che si presenta alle cure, è importante utilizzare un approccio multi-metodo, per sopperire ai limiti di affidabilità che presentano i self-report (es. Narcissistic Personality Inventory NPI), le interviste (es. SIDP-IV e SCID-5-PD) o le scale di osservazione (es. Level of Personality Functioning Scale LPFS), utilizzate singolarmente. Una valutazione basata esclusivamente su un unico metodo potrebbe, quindi, non riuscire a fornire una comprensione esaustiva della patologia di personalità del paziente narcisista.     Cos’è Terapia Metacognitiva Interpersonale? La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) è un approccio integrato per il trattamento dei Disturbi di Personalità (DP). La TMI si propone come intervento integrativo sviluppato per suggerire un ragionamento clinico, nella cornice di riferimento del cognitivismo clinico, che possa guidare la pianificazione e la strutturazione del trattamento dei DP. La TMI comprende quindi un’accurata psicodiagnosi, una psicoterapia individuale focalizzata sulla metacognizione, gruppi psicoeducativi, skills training, mindfulness, riunioni cliniche e di supervisione settimanali e, se necessario, interventi domiciliari, farmacoterapia e altri interventi specifici.     Qual è l’obiettivo della Terapia Metacognitiva Interpersonale nel trattamento del Disturbo Narcisistico di Personalità? L’obiettivo strategico è quello di migliorare le abilità metacognitive al fine di padroneggiare gli stati mentali problematici fonte di sofferenza soggettiva e/o di problemi nelle relazioni interpersonali.     Quali sono i passaggi di un intervento di Terapia Metacognitiva Interpersonale? Il trattamento può essere schematicamente suddiviso in 5 passaggi focalizzati sulle differenti funzioni metacognitive. Non si tratta di una procedura rigida, scandita da parametri temporali o da un numero di sedute preciso, ma dal livello metacognitivo di base e da quello che man mano viene raggiunto: Sviluppare il monitoraggio degli stati. Sviluppare una visione integrata delle transizioni degli stati mentali e dei loro legami. Sviluppare o potenziare la capacità di considerare la natura rappresentazionale dei pensieri. Promuovere l’abilità di decentramento, in modo da aumentare la consapevolezza del ruolo del paziente nel determinare i processi interpersonali disfunzionali in cui è coinvolto. In ogni fase il terapeuta lavora per aiutare il paziente a costruire una continuità autobiografica in cui emergono, in una narrazione coerente, i suoi problemi e come li ha di solito gestiti e/o padroneggiati.     Come curare il Disturbo Narcisistico di Personalità con la Terapia Metacognitiva Interpersonale? Esempio di terapia per punti: Gestione del ciclo interpersonale problematico di distacco e di quello competitivo. Nella prima fase della terapia, dedicata alla ricostruzione degli stati mentali e alla psicoeducazione sulle emozioni, i pazienti si sentono ascoltati e compresi, capiscono il carattere universalmente umano e condivisibile dei loro vissuti, sentendosi quindi meno diversi e patologici. Ricostruzione degli stati mentali problematici e sviluppo del monitoraggio. Ci si scontra con le difficoltà nel monitorare i propri bisogni affettivi, tipica di questi pazienti. Risultano di particolare utilità le classiche tecniche di indagine della terapia cognitiva (ad esempio, gli ABC), che mirano a focalizzare l’attenzione sui pensieri e le emozioni che costituiscono gli stati mentali durante specifici episodi di vita. Sviluppo del decentramento e miglioramento dell’efficacia interpersonale. Inserimento in un gruppo di skills training per il ritiro sociale. Danno la possibilità di affrontare nel dettaglio, attraverso la psicoeducazione, la discussione di gruppo e il role play, diversi aspetti della metacognizione e delle abilità interpersonali, lasciando alla terapia individuale la possibilità di concentrarsi sugli stati mentali attivi in seduta e che mantengono la sofferenza del paziente. Incremento della consapevolezza del proprio ruolo nel creare cicli interpersonali. Nelle fasi avanzate della terapia è possibile aiutare il paziente a comprendere il proprio ruolo nel creare dinamiche interpersonali problematiche. Questa consapevolezza può essere utilizzata per gestire le relazioni extra terapeutiche e raggiungere momenti di piacevole condivisione. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Domande e risposte su questa tecnica di intervento per il trattamento della depressione
Cos’è la Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy? Cos’è la ruminazione? Qual è l’obiettivo della RFCBT e perché una terapia basata sulla ruminazione? Quali sono i punti chiave della RFCBT? Come sviluppare un percorso di RFCBT? In cosa consiste l’assessment iniziale? Come è strutturato un intervento REBT? Come strutturare la singola seduta di RFCBT? Cos’è l’analisi funzionale? Quali sono le principali tecniche della RFCBT? Come rendere i trattamenti più efficaci e duraturi?     Cos’è la Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy ? La Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (RFCBT) è una tecnica di intervento per il trattamento della depressione. Strettamente legata alla terapia cognitivo comportamentale, la integra con adattamenti e modifiche, focalizzandosi sulle specifiche funzioni della ruminazione per identificare le strategie maggiormente adattive per il paziente.     Cos’è la ruminazione? La ruminazione è concettualizzata come un’abitudine mentale appresa durante l’infanzia. In accordo con il modello dell’abitudine di Hertel (2004), la ruminazione può diventare una strategia di pensiero abituale e attivarsi automaticamente, senza consapevolezza o sforzo. Considerando che le abitudini sono resistenti al cambiamento, anche se vengono adottati nuovi comportamenti o obiettivi, o anche se la ruminazione ha conseguenze negative o è controproducente rispetto alle intenzioni dell’individuo, può comunque risultare difficile bloccarla. La concettualizzazione della ruminazione come abitudine mentale spiega quindi il motivo per cui è così difficile smettere di ruminare. La ruminazione depressiva è spesso caratterizzata da una modalità di pensiero valutativa, in cui i pazienti fanno confronti negativi tra sé e gli altri («Perché ho dei problemi che le altre persone non hanno?»), tra lo stato attuale e quello desiderato («Perché non riesco a stare meglio?») e tra il Sé attuale e quello passato («Perché non riesco a lavorare bene come prima?»).     Qual è l’obiettivo della RFCBT e perché una terapia basata sulla ruminazione? L’obiettivo principale della RFCBT è la ruminazione per le seguenti ragioni: La ruminazione è un sintomo residuo comune, che permane sia dopo la remissione parziale sia dopo quella completa della depressione. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato che un’accentuata ruminazione si associa a minor risposta ai farmaci antidepressivi ma anche alla terapia cognitiva, sottolineando un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento della depressione; La ruminazione è descritta dai pazienti come qualcosa di non intenzionale, persistente, ripetitivo, penoso, difficile da interrompere e da controllare. Le conseguenze più frequentemente lamentate sono l’aumento di tristezza, stanchezza, sofferenza e ansia, la riduzione della motivazione, l’insonnia e la tendenza alla procrastinazione, all’autocritica, al pessimismo e alla disperazione. Quindi, gestire con successo la ruminazione avrà un impatto positivo sui sintomi residui della depressione e ridurrà un importante meccanismo che contribuisce all’insorgenza e al mantenimento di questo disturbo, ottimizzando così gli esiti del trattamento.     Quali sono i punti chiave della RFCBT? La RFCBT interviene sull’abitudine mediante: Modifica dei fattori ambientali (tempo, luoghi, umore, comportamenti antecedenti) che automaticamente innescano l’abitudine, o inserimento di risposte alternative incompatibili con la ruminazione; Definizione, insieme al paziente, di obiettivi specifici, concreti, a breve termine in linea con i valori del paziente al fine di promuovere comportamenti proattivi. Il fine è quello di aumentare l’attività e ridurre l’evitamento, includendo la pratica di nuove abitudini. Esperimenti a casa che consentono di distinguere quando la ruminazione è disfunzionale e quando è funzionale, per consentire lo sviluppo di un pensiero più concreto e costruttivo in alternativa allo stile astratto patologico della ruminazione. Esercizi esperienziali e di visualizzazione che forniscono un’esperienza funzionale all’uso adattivo dell’attenzione per contrastare la ruminazione.     Come sviluppare un percorso di RFCBT? La RFCBT individuale, solitamente, si compone di 12 sedute della durata approssimativa di un’ora, centrate principalmente sulla ruminazione. Di seguito, sono presentate le componenti fondamentali della RFCBT, nel tipico ordine in cui vengono utilizzate durante il trattamento: valutazione centrata sulla ruminazione, intesa come comportamento appreso, e sull’evitamento, lungo la storia di sviluppo del paziente; individuazione, attraverso l’utilizzo di homework formali, dei trigger per la ruminazione e l’evitamento; utilizzo dell’analisi funzionale al fine di esaminare il contesto e le funzioni assolte dalla ruminazione e dall’evitamento; ideazione di esperimenti volti a esaminare l’utilità della ruminazione e a ricercare strategie alternative; aumento dell’attività, inclusa la creazione di routine, e riduzione dell’evitamento, al fine di produrre cambiamenti comportamentali; esercizi esperienziali, quali ricordi positivi di «concentrazione» ed esercizi di compassione, attraverso i quali sperimentare l’utilizzo adattivo dell’attenzione in contrapposizione alla ruminazione; identificazione dei valori del paziente, al fine di minimizzare la ruminazione e incoraggiare attività che siano congruenti ai valori stessi; prevenzione delle ricadute. Nonostante questa sia la sequenza tipica di trattamento, la scelta delle componenti da utilizzare deve basarsi sulla formulazione, sull’assessment e sull’analisi funzionale del singolo paziente. È importante, quindi, prendere familiarità con i principi della terapia.     In cosa consiste l’assessment iniziale? Dall’assessment/valutazione iniziale derivano la scelta degli interventi e la forma che assumeranno. Data la relativa brevità dell’intervento, il periodo di valutazione formale deve essere piuttosto conciso. Durante le prime due sedute, la raccolta di informazioni deve concentrarsi principalmente su: Breve panoramica sul background, sulla situazione attuale e sui problemi del paziente, al fine di conoscerne le principali preoccupazioni e gli obiettivi; Descrizione dell’episodio depressivo attuale (esordio, sintomi, principali problemi che ne derivano e fattori di mantenimento); Valutazione iniziale della ruminazione e dell’evitamento associato, al fine di comprenderne le caratteristiche e le conseguenze generali e di individuarne gli stimoli scatenanti, i moderatori e le funzioni. È la prima formulazione dell’analisi funzionale, che proseguirà nel corso di tutta la terapia.     Come strutturare la singola seduta di RFCBT? breve revisione di quanto accaduto successivamente alla seduta precedente; pianificazione dell’agenda inerente la seduta in corso; feedback e discussione circa la seduta precedente, basati sulla registrazione audio (al fine di massimizzare l’efficacia della terapia, è preferibile che, oltre al paziente, anche il terapeuta ascolti le registrazioni tra una seduta e l’altra); revisione degli homework; parte centrale con analisi funzionale, esperimenti comportamentali, esercizi esperienziali e programmazione degli homework. riassunto dei temi trattati e degli insegnamenti forniti; assegnazione di nuovi homework; feedback sulla seduta in corso e organizzazione della successiva.     Che cosa sono gli homework? Gli homework sono dei veri e propri compiti a casa (per i pazienti, ma anche eventualmente per il terapeuta), in cui si richiede di riascoltare le registrazioni dell’incontro precedente o rileggere gli appunti presi durante l’incontro. La pianificazione degli homework che viene fatta durante la seduta, piuttosto che al suo termine, include la previsione di quanto il paziente crede che accadrà, perciò si configura come una sorta di esperimento comportamentale: si chiede al paziente una verifica attiva nel mondo reale di aspettative spesso irrealistiche, che riduce la tendenza a elaborare mentalmente ogni cosa (ruminazione).     Cos’è l’analisi funzionale? È un metodo di assessment di ogni specifico episodio di ruminazione, allo scopo di trovare strategie alternative più funzionali per sostituire la ruminazione. Tramite la tecnica ‘ABC’ si registrano le situazioni e i contesti in cui la persona rumina (Antecedente, A), i contenuti e le caratteristiche (Comportamento o Ruminazione, B), le conseguenze (Conseguenze comportamentali ed emotive, C).     Quali sono le principali tecniche della RFCBT? Tra le varie tecniche utilizzate dalla RFCBT, troviamo: l’analisi Antecedente - Comportamento - Conseguenze (Antecedent - Behavior - Consequence – ABC): una tecnica centrale dell’analisi funzionale, nella quale la ruminazione rappresenta il comportamento bersaglio. L’approccio ABC prevede l’identificazione di quanto accade immediatamente prima (potenziali fattori e segnali scatenanti), durante (contenuto e sequenza dei pensieri) e dopo (modificazioni comportamentali ed emotive) un episodio ruminativo. L’obiettivo è quello di capire come la ruminazione, un processo dinamico nel quale interagiscono pensieri, emozioni e azioni, si sviluppi ed evolva nel tempo. Individuare l’antecedente, ovvero tutti gli stimoli che scatenano la ruminazione, fornisce elementi utili per comprenderne le finalità e pianificare modifiche comportamentali volte a ridurla. l’analisi CUDOS (dai termini inglesi Context, Usefulness, Development, OptionS — Contesto, Utilità, Sviluppo e Opzioni) rappresenta una modalità parallela e complementare di condurre l’analisi funzionale, nella quale si ricercano informazioni correlate alla funzione, alla variabilità e al contesto del comportamento target.     Come rendere i trattamenti più efficaci e duraturi? In linea generale, l’intervento risulterà più efficace se: viene redatto un piano e, tanto il paziente quanto il terapeuta, prendono appunti; il paziente si esercita ripetutamente, sia in seduta sia a casa; l’intervento è reso il più preciso e concreto possibile. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Domande e risposte sull’intervento psicoterapeutico ideato da Albert Ellis
Cos’è la REBT? Perché si parla di “cliente” e non di “paziente”? Quali aspetti delle emozioni vengono tenuti in considerazione nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale? Quali sono le caratteristiche distintive della REBT rispetto alla terapia cognitivo comportamentale tradizionale? L’ABC delle emozioni: di cosa si tratta? Cosa si intende per ‘razionale’ o ‘irrazionale’ in REBT? Come è strutturato un intervento REBT? Come si individua l’ABC, il problema principale? Quali tecniche si utilizzano per educare il cliente alla comprensione del rapporto tra pensieri ed emozioni? Quali tecniche si utilizzano per la messa in discussione dei pensieri? Quali sono le tipologie di homework?     Cos’è la REBT? La Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) è un intervento psicoterapeutico basata su alcuni principi fondamentali. L’individuo reagisce principalmente alla rappresentazione cognitiva degli eventi più che agli eventi in sé. Le emozioni disfunzionali sono influenzate prevalentemente da convinzioni irrazionali ed è possibile identificare e codificare le principali modalità di pensiero irrazionale. Le emozioni hanno un valore legato alla sopravvivenza della specie. Per superare emozioni e comportamenti disfunzionali è possibile ricorrere a modalità di pensiero razionali. I metodi cognitivi vanno integrati costruttivamente con metodi comportamentali. La REBT è una psicoterapia attiva e direttiva: è il terapeuta, infatti, a dare una struttura a ciascuna seduta, mentre il cliente fornisce i contenuti. Inoltre, è il terapeuta a «dirigere il gioco», in quanto sa dove guidare il cliente, ma lo fa in modo estremamente socratico.     Perché si parla di “cliente” e non di “paziente”? Il termine “cliente”, di uso comune anche nella letteratura clinica inglese, viene sostituito al termine “paziente”, che invece può risultare troppo medicalizzante, così come a quello “utente”, riferibile principalmente all’ambito statalista.     Quali aspetti delle emozioni vengono tenuti in considerazione nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale? Aspetto fenomenologico: come l’emozione fa sentire, le sensazioni (piacevoli o spiacevoli) associate a essa. Aspetto sociale: ciò che un’emozione comunica ad altre persone. Aspetto fisiologico: l’attivazione neurovegetativa, l’arousal, che in alcune emozioni disfunzionali potrà essere più elevato. Aspetto comportamentale: il tipo di azione che deriva da una certa emozione. Di questi quattro aspetti dell’emozione, solo quello fisiologico riguarda la dimensione quantitativa, mentre gli altri costituiscono la dimensione qualitativa. Se un’emozione presenta almeno tre degli aspetti negativi che abbiamo considerato può essere senz’altro considerata nociva, ossia disfunzionale.     Quali sono le caratteristiche distintive della REBT rispetto alla terapia cognitivo comportamentale tradizionale? Differenziazione tra cognizioni inferenziali e cognizioni valutative. Secondo la REBT, non basta individuare come una persona interpreta la realtà per comprendere il suo stato d’animo, ma è necessario identificare anche il modo in cui valuta ciò che ha interpretato. Diverso ABC dell’emozione. Nella CBT tradizionale viene di solito adottato un modello ABC dell’emozione che colloca al punto B tutto ciò che è cognitivo, ossia che riguarda il modo di pensare di un individuo. Nella REBT, invece, al punto B vengono collocate solo cognizioni di tipo valutativo, mentre le cognizioni interpretative vengono agganciate all’evento attivante, quindi collocate al punto A. Classificazione delle categorie irrazionali di pensiero. La REBT ha identificato in modo preciso quali sono i più comuni pensieri irrazionali, classificandoli in quattro differenti categorie. Nella CBT tradizionale, spesso il termine «irrazionale» viene esteso in modo improprio a tutti i modi di pensare disfunzionali, mentre nella REBT, quando si parla di pensieri irrazionali, ci si riferisce solo a cognizioni di tipo valutativo. Identificazione del meta-problema. Il secondo problema, che deriva dal primo, viene chiamato meta-problema e, frequentemente, diventa un grande ostacolo per il superamento del problema primario, in quanto il turbamento creato dal meta-problema può rendere molto difficile, per un cliente, impegnarsi efficacemente per il superamento del problema primario. Al di fuori della REBT, nessun altro approccio cognitivo-comportamentale ha messo in evidenza il ruolo svolto dal meta-problema. Metodo strutturato e articolato per la messa in discussione dei pensieri disfunzionali. La CBT tradizionale privilegia come modalità di ristrutturazione cognitiva una messa in discussione dei pensieri disfunzionali basata su argomentazioni di tipo empirico. Nella REBT, oltre a una linea di argomentazione empirica, si utilizzano altre due linee di argomentazione: quella logica e quella funzionale, rendendo la messa in discussione dei pensieri irrazionali piuttosto strutturata e articolata e, quindi, più semplice da apprendere e da mettere in pratica con risultati molto efficaci. Rilevanza della fase educativa della terapia. Mentre in alcuni approcci cognitivo-comportamentali la fase educativa della psicoterapia viene essenzialmente confinata alla fase iniziale del percorso terapeutico, nella REBT essa viene estesa a buona parte della psicoterapia. La definizione degli obiettivi. La REBT dà particolare rilievo alla definizione accurata degli obiettivi emotivi e comportamentali da raggiungere per ogni problematica che il cliente presenta. Questi obiettivi vengono concordati con il cliente attraverso un suo coinvolgimento attivo e non imposti dallo psicoterapeuta. L’assegnazione di homework. Assegnare al cliente attività da svolgere tra una seduta e l’altra è una pratica condivisa da tutte le terapie cognitivo comportamentali. Ciò che però è particolare nella REBT è l’applicazione di strategie atte a garantire l’esecuzione, da parte del cliente, di tali prescrizioni. Inoltre, vi sono alcuni homework che sono tipici della REBT, in quanto creati all’interno di questa prassi psicoterapeutica, ad esempio, esercizi anti-vergogna ed esercizi di assunzione di rischio.     L’ABC delle emozioni: di cosa si tratta? L’ABC delle emozioni fa riferimento al modello dell’emozione di Ellis, fondatore della REBT. Il punto A sta per Evento Attivante: include qualsiasi evento interno o esterno su cui l’individuo dirige la sua attenzione, e comprende quindi anche ricordi e immagini mentali. Include anche le interpretazioni e le inferenze riguardanti l’evento attivante. Un esempio di punto A potrebbe essere «Affrontare un esame ritenendo che probabilmente andrà male». Il punto B sta per Sistema di Convinzioni o Base Mentale, e include le cognizioni valutative dell’individuo collegate all’evento attivante che si manifestano come convinzioni razionali o irrazionali. Un esempio di punto B potrebbe essere «Devo assolutamente superare questo esame, sarebbe una cosa orrenda non superarlo». Il punto C sta a indicare le Reazioni Emotive e Comportamentali dell’individuo determinate dalle elaborazioni cognitive che sono presenti al punto B, piuttosto che dall’evento attivante di per sé. È importante ricordare che il punto C comprende non solo emozioni, ma anche comportamenti e, talvolta, anche pensieri. Due punti ulteriori possono espandere il modello ABC: Il punto D consiste nella ristrutturazione del pensiero che avviene quando le reazioni emotive e comportamentali (C) sono disfunzionali. Il punto E ovvero a un nuovo modo di pensare che questa volta produrrà reazioni emotive e comportamentali funzionali (corrispondente al punto C in caso di risposte già funzionali).     Cosa si intende per ‘razionale’ o ‘irrazionale’ in REBT? Nella REBT il termine razionale viene invece usato per definire il modo di pensare e non la persona. Il pensiero razionale ha quindi queste caratteristiche: è flessibile e non estremo; è congruente con la realtà oggettiva; ha una sua consistenza logica; facilita il conseguimento del proprio benessere e dei propri scopi. Nella REBT, quindi, il concetto di razionalità riguarda le caratteristiche intrinseche al tipo di ragionamento e ha un aspetto pragmatico. All’opposto, il pensiero irrazionale è rigido ed estremo; è in contraddizione con la realtà oggettiva; presenta illogicità; ostacola il conseguimento del proprio benessere e dei propri scopi. Il pensiero irrazionale viene riassunto in quattro categorie: pretese assolute (doverizzazioni – bisogni assoluti); catastrofismo; bassa tolleranza alla frustrazione (insopportabilità); giudizi globali su di sé e sugli altri (svalutazione – condanna)     Come è strutturato un intervento REBT? La prima seduta di trattamento non corrisponde di solito al primo contatto con il cliente. Ci saranno già stati altri incontri per una conoscenza e una presa in carico del cliente e per un eventuale assessment strumentale con somministrazione di apposite scale. Nella REBT viene sconsigliato un lungo assessment che si protragga per più di 2-3 incontri, così come viene sconsigliato di «bombardare» il cliente con un numero eccessivo di questionari. Si cerca anche di evitare una lunga indagine archeologica sulle esperienze remote che potrebbe trasmettergli l’attribuzione di una funzione eccessivamente importante del passato sul suo problema attuale. Durante la prima seduta, dopo aver identificato i punti A e C del problema esposto dal cliente, si termina con l’assegnazione del primo homework. Questo spesso consiste nel richiedere al cliente la compilazione di un Diario delle emozioni, in cui egli monitorerà le proprie reazioni emotive, l’intensità in cui le ha esperite e la situazione in cui si trovava al momento. In breve, si tratta di monitorare le componenti A e C dell’episodio emotivo. Dopo la prima seduta, per gran parte del percorso terapeutico la struttura delle sedute successive diventerà più articolata, in quanto verranno inclusi la verifica dell’homework e la messa in discussione dei pensieri, oltre ad altre tecniche cognitive, emotive e comportamentali. Attuare l’intervento psicoterapeutico secondo un modello strutturato è di aiuto sia per il cliente sia per il terapeuta. Il cliente familiarizzerà presto con questo metodo di procedere e si sentirà più a suo agio sapendo, in linea generale, cosa lo aspetta in ogni seduta. La REBT si differenzia notevolmente dalle più tradizionali forme di terapia non direttiva.     Come si individua l’ABC, il problema principale? Di solito il cliente esordisce riportando la parte A del problema, oppure la parte C, ad esempio «Non riesco ad andare d’accordo con i miei colleghi di lavoro», oppure «Mi sento a disagio quando sono con persone che non conosco». Compito del terapeuta è definire in modo dettagliato le caratteristiche dell’evento attivante, identificare in modo preciso le reazioni emotive e comportamentali del cliente e infine individuare le sue modalità disfunzionali di pensiero. Assessment punto C. Alcune domande per far emergere la reazione emotiva (C) del cliente potrebbero essere: «Quando le è successo questo, come si è sentita?» «Che stato d’animo ha provato dentro di sé in quella situazione?». È da ricordare che al punto C non troviamo solo emozioni, ma anche comportamenti: pertanto il terapeuta dovrà far emergere anche cosa fa il cliente, come agisce, quando prova un determinato stato d’animo. Emozioni e comportamenti sono strettamente collegati. A volte inavvertitamente il terapeuta potrebbe rivolgere al cliente domande che comunicano una concezione di tipo A C dell’emozione (l’evento attivante causa l’emozione). Ad esempio: «Questa cosa come l’ha fatta sentire?» «Che stato d’animo hanno provocato in lei le parole di…». Questo va accuratamente evitato, per non consolidare nel cliente una visione erronea delle sue emozioni. Domande alternative e più proficue potrebbero essere: «Come si è sentita riguardo a questo?» «Che stato d’animo ha provato quando le è stato detto questo?». Rivolgendosi al cliente, si eviterà di usare l’espressione «emozione disfunzionale», ma la si potrà sostituire con l’espressione emozione nociva, enfatizzando l’aspetto controproducente di una certa reazione emotiva che non aiuta a stare bene e non facilita la soluzione del problema. Assessment punto A. Non dobbiamo considerare il punto A come qualcosa di esclusivamente esterno alla persona; al contrario, bisogna tener presente che l’evento attivante può essere costituito anche da ricordi e immagini mentali. Nel cercare di ricostruire i dettagli riguardanti l’evento attivante, bisogna quindi considerare che nel modello della REBT esso include sia la realtà oggettiva (quello che è veramente accaduto e che qualsiasi osservatore esterno potrebbe confermare), che le interpretazioni soggettive, ossia il significato particolare attribuito dal cliente a tale evento o situazione.     Quali tecniche si utilizzano per educare il cliente alla comprensione del rapporto tra pensieri ed emozioni? È importante trasmettere quanto prima al cliente una corretta visione delle sue emozioni, portandolo a comprendere il rapporto tra pensiero ed emozione. Fin tanto che il cliente non si renderà conto di come il suo modo di pensare influenza le sue emozioni e il suo comportamento non riuscirà a comprendere l’importanza di indagare sui suoi pensieri. Spiegazione diretta: si ricorrerà a metafore o ad esempi di vario genere per far comprendere al cliente che l’evento attivante non causa direttamente la reazione emotiva e comportamentale. Spiegazione socratica: un modo per far comprendere al cliente che è B e non A a determinare C consiste nel chiedergli se conosce altre persone che nella sua stessa situazione non provano la medesima emozione; un’altra modalità socratica per spiegare il rapporto tra B e C consiste nel far rievocare al cliente un’emozione del passato, collegata a una situazione particolare che adesso è associata a un’emozione diversa. il ruolo svolto dal pensiero può essere fatto comprendere al cliente mettendo a confronto due diversi modi di pensare relativamente alla stessa situazione. Presentando al cliente una situazione ipotetica di fronte alla quale può assumere due diversi tipi di pensiero, non sarà difficile portarlo a constatare l’impatto che questi pensieri possono avere sulle sue emozioni. L’influenza del passato: il passato può fornire informazioni sulla storia di apprendimento dei pensieri irrazionali, ma il ruolo del terapeuta non è certo quello di cambiare il passato del cliente, bensì quello di aiutarlo a liberarsi dai modi di pensare dannosi che ha appreso in passato.     Quali tecniche si utilizzano per la messa in discussione dei pensieri? La messa in discussione, detta anche dissuasione cognitiva, è la parte più complessa della ristrutturazione cognitiva. Nell’ambito della REBT, per ristrutturazione cognitiva si intende quel processo attraverso cui l’individuo sostituisce modalità di pensiero collegate a reazioni emotive e comportamentali disfunzionali con altre modalità di pensiero in grado di elicitare emozioni e comportamenti adattivi. Questo processo avviene attraverso due fasi. Messa in discussione dei pensieri irrazionali. Nel corso delle varie sedute di psicoterapia il terapeuta, affrontando i vari ABC che emergono, aiuterà il cliente a rendere sempre più deboli i pensieri irrazionali collegati a specifiche situazioni problematiche. Riformulazione razionale. La riformulazione razionale è la seconda fase della ristrutturazione cognitiva. A meno che il cliente non disponga di nuovi modi di pensare con cui sostituire i suoi convincimenti irrazionali, egli continuerà a rimanere aggrappato ai propri modi di pensare, per quanto dannosi possano essere. Un errore in cui il terapeuta può incorrere nel corso della ristrutturazione cognitiva è quello di proporre al cliente un nuovo pensiero razionale alternativo già preconfezionato. In questo caso il rischio è che il cliente non senta come suo il pensiero, che perciò avrà poca influenza sul suo stato d’animo. È invece molto più efficace procedere in modo evocativo, invitando il cliente a trovare un modo di pensare alternativo, in base agli elementi emersi nel corso della messa in discussione.     Quali sono le tipologie di homework? Compiti di auto-osservazione scritti, utili per far aumentare nel cliente la consapevolezza di certi eventi sia interni (covert) che esterni (overt). Attività di lettura (biblioterapia): consiste nel prescrivere la lettura di determinati libri, opuscoli, articoli su specifici argomenti attinenti il problema del cliente. Lo scopo è quello di consolidare quanto già discusso in seduta o preparare il cliente a ciò che verrà discusso successivamente. Compiti di ascolto. Lo scopo di questi materiali è quello di consentire al cliente di familiarizzare con la visione razionale-emotiva di determinati problemi che lo coinvolgono. Esercizi comportamentali e immaginativi, che consistono nel prescrivere al cliente l’applicazione, tra una seduta e l’altra, di alcune tecniche comportamentali e immaginative. Lo scopo è quello di rendere il cambiamento cognitivo del cliente più «viscerale», e non solo intellettuale, allenandolo ad agire in un modo che va contro i suoi vecchi modi di pensare dannosi e allenandolo, attraverso l’immaginazione, ad assumere una diversa prospettiva, più razionale. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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