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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Psicologia
Il CIGI è un metodo da utilizzare in contesti residenziali psichiatrici che si è mostrato efficace nel ridurre l’intensità assistenziale e sviluppare forme di autonomia personale
Il CIGI (Combined Individual and Group Intervention) è un intervento disegnato per un uso nei contesti residenziali psichiatrici a diversa intensità assistenziale che segue le indicazioni dell’OMS sulla riabilitazione psicosociale e sull’empowerment delle persone con disturbi mentali. L’OMS definisce la riabilitazione psicosociale “un processo orientato al raggiungimento di un livello ottimale di funzionamento indipendente in persone con disturbi mentali” che aiuta una persona a “saper scegliere dove vivere, lavorare, studiare con il minimo aiuto professionale, tenuto conto del livello di partenza” e che prevede “sia un lavoro di miglioramento delle abilità personali sia cambiamenti ambientali”. Questi principi sono stati ripresi successivamente nel documento OMS sull’empowerment, nel quale viene ribadito il valore terapeutico della partecipazione dell’utente alle decisioni che riguardano la propria vita, la propria salute e la scelta degli obiettivi da raggiungere. In linea con le indicazioni dell’OMS, il CIGI promuove la partecipazione delle persone con disturbi mentali all’autogestione di una parte dell’intervento riabilitativo, combinando un lavoro con il singolo utente e un intervento di gruppo sul contesto di riferimento. Nel caso di persone che sono ospiti di strutture residenziali, il contesto di riferimento è rappresentato principalmente dagli altri ospiti con disturbi mentali e dallo staff. Le strutture per persone con disturbi mentali in Italia In Italia, in base ai dati del Sistema Informativo Salute Mentale vi sono 2.346 strutture residenziali - pubbliche o private in convenzione con i Dipartimenti di Salute Mentale - nelle quali sono ospitate in totale 32.515 persone. In queste strutture, che ospitano fino a 20 persone con disturbi mentali e bassa autonomia funzionale per una durata media di 816 giorni, possono svilupparsi sia relazioni facilitanti il percorso riabilitativo che situazioni conflittuali, di fatto stressanti sia per gli ospiti che per gli operatori. La presenza continua di personale – il 78% delle persone si trova in strutture ad alta intensità assistenziale con operatori presenti h24 – può in alcuni casi ostacolare l'acquisizione da parte degli ospiti di quelle abilità utili nella vita quotidiana e a lungo andare può rallentare il passaggio a soluzioni abitative più indipendenti e il ritorno a casa degli utenti. Inoltre, lo scetticismo degli operatori in merito alle capacità di persone con disturbi mentali di lunga durata di partecipare a programmi riabilitativi intensivi può portare le equipe a coinvolgere poco gli ospiti nella scelta di obiettivi individuali, aumentando il rischio di attività passivizzanti. Caratteristiche principali del CIGI Il CIGI parte dalla convinzione che anche persone con disturbi mentali associati ad alto livello di compromissione nelle abilità di vita indipendente possano diventare più autonome e raggiungere obiettivi personali importanti dal loro punto di vista, se messe nelle condizioni di decidere su aspetti rilevanti della propria vita ed essere parte attiva nel contesto di riferimento. L’intervento si sviluppa su due livelli da svolgersi contemporaneamente: un livello individuale, che coinvolge il singolo utente con un operatore di riferimento, e un livello di gruppo, che prevede incontri tra ospiti e operatori, riunioni di soli ospiti autogestite e riunioni organizzative/di revisione tra pari dell’equipe. Le principali componenti del CIGI derivano a loro volta da interventi di provata efficacia. La parte individuale è stata sviluppata a partire dal VADO – Valutazione di Abilità e Definizione di Obiettivi (Morosini et al., 1998), mentre la parte di gruppo si basa anche su alcune componenti dell’intervento psicoeducativo familiare (Falloon, 1993). Gli effetti dell’intervento, utilizzato in strutture residenziali e gruppi appartamento del DSM di Modena (8 strutture, N=55) per due anni sono stati molto positivi in termini di riduzione della disabilità e dell’intensità assistenziale richiesta rispetto a quanto osservato in un gruppo di controllo che riceveva un intervento riabilitativo standard (5 strutture, N=41). In particolare, rispetto all’inizio dell’intervento, il 31% delle persone in strutture CIGI vs. 0 persone in strutture di controllo dopo due anni risiedevano in strutture a più bassa intensità assistenziale o erano tornate a vivere a casa propria. Anche esperienze successive di uso nella routine – seppure non documentate in modo sistematico – confermano l’utilità dell’approccio nei contesti residenziali e semi-residenziali. Il libro sul CIGI Il manuale “CIGI - Intervento riabilitativo combinato nei contesti residenziali psichiatrici” è centrato sullo sviluppo di programmi riabilitativi empowerment-oriented in contesti residenziali ad alta e media intensità e fornisce inoltre indicazioni per un uso del CIGI in contesti abitativi a intensità assistenziale bassa o quasi assente e nei centri diurni. Una parte specifica del manuale, inoltre, è dedicata alla formazione e all’auto-formazione delle equipe all’intervento. Nel manuale inoltre sono riportati tutti gli strumenti necessari per realizzare l’intervento, liberamente scaricabili dal sito della Erickson utilizzando un codice incluso nel manuale. Completa il volume un’Appendice con esempi d’uso degli strumenti e testimonianze di operatori e utenti. L’intervento CIGI può risultare utile per ripensare gli interventi e le condizioni abitative da garantire alle persone con disturbi mentali, soprattutto a quelle con più bassa autonomia funzionale, e per facilitare la transizione a forme di residenzialità più leggera o del tutto autonoma.
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Search-ME - Erickson 2 Psicologia
Mentre scrivo, il premier ha appena annunciato in TV che il periodo di isolamento attivo in casa è stato protratto al 3 maggio, la prima reazione, d’istinto, è stizzita: “Già, è la terza volta che rimandano il termine del Lockdown, sarà l’ultima?” Un misto di rabbia e paura ci pervade: rabbia perchè, pur ragionevolmente, siamo privati della libertà di scegliere di muoverci, incontrare parenti, amici, riprendere gli affari, promuovere nuove iniziative; paura perché, altrettanto consapevolmente, vuol dire che la minaccia del contagio non è finita, che l’incontro con altri esseri umani rimane un’incognita, una possibilità negativa di superare il labile confine tra salute e malattia. Tutto questo è umanamente comprensibile, ma, in realtà, il vero malessere è più subdolo: quanto ancora riusciremo a stare soli in casa, senza l’abbraccio e il conforto degli altri? Così nel 2020 scopriamo che pur iperconnessi via internet e smartphone abbiamo paura di sentirci soli, abbandonati, privi di prospettive. La solitudine non è tanto una condizione oggettiva, ma è piuttosto uno stato mentale: possiamo sentirci soli perché questo stato contraddice la possibilità di essere connessi agli altri. La solitudine così intesa è, facciamo attenzione, fattore di rischio per la salute mentale e fisica di ciascun individuo. Lo sapevate che da circa 40 anni i governi di Stati Uniti, regno Unito, Danimarca, Svezia, ecc. hanno posto attenzione al fatto che la solitudine si stava sviluppando nei loro paesi ed hanno chiesto ai ricercatori di psicologia, neuroscienze sociali, psichiatria di studiare a fondo il problema? Uno dei più influenti è stato John Cacioppo della Università di Chicago. Insieme ad altri, ha posto attenzione a quando la solitudine diventa problema. Gli studi inizialmente si sono occupati di fasce di età (anziani) o sociali (emarginati) ma poi si sono estesi a tutti, soprattutto per chi vive nella società occidentale e industrializzata. Il disagio da solitudine è psicologico: il mondo è rappresentato come un luogo potenzialmente portatore di minacce e l’attenzione ai segnali provenienti da questo non fa che confermare queste convinzioni, aumenta il disagio emotivo (ansia, paura), e aggrava i comportamenti protettivi (evitamento, isolamento), con peggioramento dell’umore e perdita del desiderio o motivazione a fare le cose.  Tra le cose che non si fanno più c’è l’attività fisica che invece è fondamentale per mantenere attivo l’organismo e stimolare la mente a occuparsi di cose da fare. Le persone sole hanno una peggiore qualità del sonno: non tanto nella durata ma nella pesantezza e scarsa energia mentale che riscontrano dopo aver dormito. Le funzioni cognitive ed esecutive nei soggetti soli sono peggiori in confronto a chi non si sente solo. Per chi ha disturbi mentali le condizioni peggiorano se la solitudine è sofferta: psicosi, disturbi di personalità, depressione, Alzheimer, ecc. Il disagio derivante dalla solitudine peggiora lo stato fisico: una complessa interazione tra solitudine, elevati valori pressori e ormoni dello stress (cortisolo) fa sì che il rischio di ammalarsi di patologie cardiovascolari è maggiore in queste persone. Ugualmente, complesse relazione tra l’apparato neuroendrocrino stress collegato e sistema immunitario fa sì che le persone sole abbiano una risposta alle reazioni immunitarie più scarsa degli altri. Un classico studio condotto su popolazione di studenti ha mostrato che in due gruppi divisi secondo un questionario che descriveva la solitudine(Loneliness, UCLA), quelli con punteggi più alti al test avevano più possibilità di infettarsi con virus del raffreddore piuttosto di chi aveva al test punteggi più bassi. Ma di che solitudine potremmo soffrire? Un primo livello è quello della deprivazione dell’intimità, nel caso specifico, del partner in grado di dare supporto emotivo e fisico. Sono le situazioni “private” dove condividiamo molto con la persona amata, con i figli, con chi è in grado di conoscere una reciprocità importante del legame umano. In questo periodo di distanziamento sociale, pensiamo a chi per motivi vari si trova in un’altra regione d’Italia oppure non vede il partner perchè vive in un’altra parte della città, un altro paese, ecc. Un secondo livello è quello delle relazioni familiari e amicali, altra “mancanza” cui stiamo facendo fronte in questa quarantena. Spesso sono persone che non risiedono con noi e di cui sentiamo la mancanza per la qualità delle “connessioni” in grado di fornirci. Un terzo livello è quello dei rapporti collettivi, ovvero i contatti che normalmente generiamo nei luoghi di lavoro, negli spazi sociali, negli avvenimenti cui partecipiamo. In questo caso ci riferiamo a quelle situazioni che per diversi motivi ci fanno “appartenere” ad un gruppo creando un senso di identità al vivere sociale. Come possiamo proteggerci per non soffrire di solitudine? La situazione cui mi riferivo all’inizio, seppur mossa da regole sanitarie ferree e condivise può quindi interferire con tutti e tre i livelli di “connessione” tra noi e gli altri: la domanda è come ci proteggiamo? Dobbiamo tornare a vivere le relazioni personali con maggiore consapevolezza: se avete notato, il tempo è“rallentato” e abbiamo più tempo per fare “meno” cose di prima, questo è un tempo guadagnato per le relazioni in casa. Al di là dei comportamenti aneddotici: fare attività sportiva, cucinare, pulire la casa, riparare oggetti, leggere, studiare, ecc. Il tempo che noi dedichiamo per dialogare e riscoprire la condivisione quotidiana è aumentato: sia nel compiere attività casalinghe, che ripercorrere memorie condivise, che riscoprire momento di gioco o di intimità la nostra casa può diventare un luogo dove i “morsi” della solitudine scompaiono. Dobbiamo usare saggiamente la tecnologia per essere connessi ai nostri famigliari e amici in modo positivo: meno tempo trascorso a commentare le statistiche epidemiologiche e più tempo a parlare di interessi personali ed in comune. Gli amici possono essere sollecitati via smartphone in call a più persone: anche un “brindisi” virtuale per un compleanno di un amico lontano può essere occasione di mostrare quanto siamo interessati agli altri e quante cose ci appartengono. Nella vita sociale sempre l’uso delle tecnologie sta cambiando le comunicazioni sul lavoro, sulla formazione, sulla conduzione di gruppi di varia natura (politica, religiosa,ecc.). Il principio della appartenenza è legato all’utilizzo di internet a scopi sociali e non come mezzo che generalmente ci passivizza e ci rende dipendente dalle varie offerte. Anche una “diretta” su Facebook, se ben condotta, può portare condivisione sociale: per esempio un’esibizione musicale dal vivo oppure una visita guidata in un museo. Se nonostante tutto la solitudine non passasse? Già nel paragrafo precedente ci soffermavamo a interventi di protezione dalla solitudine, ovvero promuovere il contatto sociale e le forme di sostegno sociale. Ma l’individuo che si sente solo potrebbe avere problematiche più complesse, ovvero non riuscire a sentirsi “connesso” con gli altri oppure non avere le “competenze” sociali.  Per questi e tutti quelli che poi più che una solitudine protratta vivono una condizione abituale di non condivisione relazione e/o di non appartenza sociale si parla più appropriatamente di Ritiro Sociale, ma questa, come si dice nei film, è “un’altra storia”.
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Search-ME - Erickson 3 Didattica
Un compito impegnativo, ma fondamentale per favorire l’apprendimento
 Accompagnare un bambino nella sua crescita emotiva è un compito impegnativo. Aggressività, demotivazione, carenza di autocontrollo, difficoltà nel rispettare le regole o accettare le proprie frustrazioni dell’apprendere sono solo alcuni dei problemi frequentemente riscontrati in classe. Ricordiamoci, però, che le emozioni non sono solo questo. Sono anche gioia, affetto, orgoglio e soddisfazione per un successo o sorpresa per un gesto inaspettato. La scuola riveste un ruolo fondamentale nell’educazione alle emozioni, un percorso di apprendimento che va di pari passo con quello disciplinare. Da tempo, infatti, la ricerca ha avvalorato l’importanza delle emozioni nell’apprendimento, facendo venir meno l’assunto storico di un ipotetico primato della cognizione sull’affettività. Di qui l’importanza di definire dei percorsi strutturati ed espliciti di educazione alle emozioni che hanno come traguardo la competenza sentimentale, ovvero la capacità comprendere ed esprimere in modo consapevolmente regolato il proprio stato emotivo. Un itinerario intenzionale e di qualità educa il bambino a saper riconoscere le proprie e altrui emozioni, ad aprirsi alla reciprocità nella relazione e a formare le cosiddette competenze personali, abilità che permettono ad ognuno di leggere la propria e altrui interiorità, ma anche di saper elaborare le emozioni negative. Infine, il curricolo emotivo promuove la riflessione metaemotiva, un processo che “distanzia” dai propri vissuti emotivi e permette di autoregolarli. Tale processo può avere luogo attraverso vari linguaggi e fare quindi riferimento a diverse discipline. La letteratura, per esempio, permette di attingere a prodotti di esemplare rappresentazione del sentire (poesie, romanzi, etc.) e a diversi generi (autobiografia, diario, etc.). Un altro medium efficace che potrebbe essere utilizzato in un percorso di educazione emotiva è l’illustrazione. I disegni e le immagini offrono un’alternativa all’espressione verbale e possono dirigere le emozioni represse in canali più creativi. Ma anche l’espressione corporea, passando da vie meno codificate convenzionalmente, rappresenta un interessante linguaggio attraverso cui esplorare forme diverse di espressione della vita affettiva. Nel programmare le attività e gli strumenti di un’educazione socio-affettiva, abbondano i materiali per la scuola primaria, mentre è molto meno ampia e varia l’offerta per la fascia d’età che va dalla secondaria di 1° grado a quella di 2° grado. Anche - e potremmo dire, soprattutto - i giovani adolescenti incontrano difficoltà nel riconoscere le proprie emozioni e dar loro un nome. È, dunque, importante che i docenti forniscano strumenti utili per la comprensione dell’origine e delle caratteristiche delle emozioni e per la gestione degli stati d’animo, anche di quelli legati alle tematiche più “spinose” che affiorano durante il periodo dell’adolescenza.
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Search-ME - Erickson 4 Psicologia
Un grave gap a cui il Governo dovrebbe porre rimedio.
Su Lancet Psychiatry un gruppo di 42 esperti mondiali che hanno formato la International Covid-19 Suicide Prevention Research Collaboration ha recentemente lanciato l’allarme. È facilmente prevedibile, e non credo serva spiegarne i motivi, che ciò che è accaduto e sta accadendo in Italia e nel mondo porti a un rapido incremento nei prossimi mesi di disturbi da stress post-traumatico, ansia per le malattie, disturbi ossessivo-compulsivi, abuso di sostanze, depressione e forse persino tassi di suicidio. Ci troveremo presto di fronte a un’emergenza psicologica senza precedenti, almeno nelle ultime decadi, frutto delle conseguenze dirette del Covid-19, come la paura per la propria e altrui incolumità, i lutti subiti, i traumi a cui è esposto il personale sanitario in prima linea. Ma anche delle conseguenze indirette, quelle che toccano tutti. Basti pensare alla grave deprivazione sociale degli ultimi due mesi, alle pesantissime ripercussioni economiche e occupazionali derivanti dal lockdown, al senso di privazione della libertà personale, alle enormi incertezze sul futuro, ai problemi di coppia che la quarantena ha scatenato, alle difficoltà nel gestire i figli con le scuole chiuse. Il peggio è passato o deve ancora venire? Dal punto di vista psicologico temo purtroppo che le peggiori conseguenze debbano ancora arrivare. Al momento viviamo tutti in uno stato di sospensione, preoccupati primariamente per la salute che passa giustamente avanti a tutto, in attesa della fine di questo periodo così strano e impensabile fino a poco tempo fa, al punto che non riusciamo del tutto a realizzarlo. È come se avessimo premuto il tasto pausa. La nostra vita è bloccata e di conseguenza lo sono anche le nostre emozioni, con cui abbiamo un contatto solo parziale. Per fortuna, direi, altrimenti piomberemmo in uno stato di disperazione che ci renderebbe insopportabile una condizione come quella attuale. Sfruttiamo un meccanismo di difesa psicologico che ci consente di non soffrire troppo per l’assenza dei nostri cari, per la mancanza di attività piacevoli, per l’isolamento sociale. Arriverà un momento, penso e spero a brevissimo, in cui torneremo a una presunta normalità. Quel momento che tutti agogniamo, ma in cui ci renderemo conto che molte cose non sono più come prima, che certi equilibri sono irrimediabilmente rotti. E realizzando davvero ciò che è accaduto e soprattutto le conseguenze che si porta e si porterà dietro, entreremo in contatto con le conseguenti emozioni: tristezza, rabbia, ansia, disperazione, senso di vuoto, angoscia. Da qui a sviluppare una qualche forma di psicopatologia (o al ricadervi se ne avevamo sofferto in passato) il passo è breve. Il bisogno di terapie psicologiche Tutto ciò comporterà un aumento del bisogno di terapie psicologiche che siano in grado di alleviare la sofferenza, facilitare l’adattamento e la resilienza, contrastare i meccanismi che favoriscono la genesi e il mantenimento della patologia psichica. Gli strumenti non mancano, i professionisti neanche. Viviamo in un paese in cui ci sono circa 60.000 psicologi attivi, di cui oltre la metà ha una specializzazione in psicoterapia. Ci sono terapie sufficientemente brevi, con comprovata efficacia, in parte erogabili anche online. Se anche la domanda di cure psicologiche aumentasse esponenzialmente non mancherebbe l’offerta pronta a rispondervi. E la maggior parte delle persone che soffrono di problemi psicologici potrebbe trarne grande giovamento. Qual è allora il vero problema del momento? Che le psicoterapie hanno un costo, poiché si tratta di servizi di alta specializzazione per i quali sono richieste una laurea, un tirocinio, un’abilitazione professionale, un corso almeno quadriennale di specializzazione post-lauream, oltre a continuo aggiornamento, formazione e supervisione. Inoltre, come per ogni prestazione sanitaria erogata in ambito primariamente privatistico, la psicoterapia costa tanto di più quanto maggiore è la qualità del servizio offerto e l’esperienza del professionista a cui ci si rivolge. Dunque, chi desidera un aiuto professionale e qualificato deve mettere in conto un importante esborso, peraltro continuativo (non una-tantum) e neanche coperto dalla maggior parte delle assicurazioni sanitarie. È possibile accedere a servizi di psicoterapia gratuiti? In questo momento particolare molti professionisti offrono le proprie prestazioni di assistenza psicologica a titolo volontario. Recentemente la Protezione Civile stessa ha lanciato un numero verde per il supporto psicologico ai cittadini, coordinando una rete di volontari messi a disposizione da alcune società scientifiche di psicoterapia. Si tratta tuttavia di servizi temporanei, che offrono la possibilità di effettuare un numero molto limitato di colloqui, forse utili a contenere l’emergenza, ma che non possono certo sostituirsi a un effettivo percorso di cura, che richiede continuità nel tempo per mesi, talvolta anni. Una volta terminati i colloqui gratuiti, i colleghi che ravvisano segnali di una conclamata forma di psicopatologia non potranno far altro che suggerire a chi li ha contattati di proseguire un percorso di psicoterapia a pagamento. Idealmente la psicoterapia dovrebbe essere tra le prestazioni offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Ma purtroppo gli investimenti pubblici su questi servizi sono stati drasticamente ridotti soprattutto negli ultimi vent’anni. Cosa ne consegue? Nei prossimi mesi probabilmente avremo un aumento importante della forbice tra il bisogno di terapie psicologiche e la capacità di coloro che ne abbisognano di potersele permettere. Le principali conseguenze del Coronavirus saranno infatti di ordine economico. In molti dovranno metter mano ai propri risparmi, ammesso che ne abbiano. Le spese superflue, che però garantivano un margine di benessere (es. vacanze, sport, vestiti, ecc.) subiranno una inevitabile contrazione. Molte attività non riapriranno i battenti o si ridimensioneranno e di conseguenza molte persone perderanno il lavoro. Tutti elementi che potrebbero contribuire a incrementare la sofferenza psicologica, soprattutto in soggetti predisposti. Da qui il paradosso: le difficoltà economiche saranno sia una delle cause del malessere psicologico, sia il principale motivo per cui alcune persone non potranno permettersi di spendere per ottenere l’aiuto necessario a recuperare il proprio benessere. La soluzione? Tenendo conto che gli psicoterapeuti sono dei professionisti, spesso altamente qualificati, che hanno investito e investono molto per la propria formazione, i servizi di psicoterapia di qualità non potranno mai essere gratuiti o “low cost”, tranne in casi eccezionali e di emergenza come questo, per brevi e circoscritti periodi. Non appena l’emergenza sanitaria sarà cessata, le psicoterapie torneranno giustamente ad avere un costo analogo a quello di qualunque altra prestazione medico-specialistica. Ma probabilmente sarà proprio quello il momento in cui ce ne sarà più bisogno. Sarebbe quindi importante non fare affidamento soltanto sui servizi psicologici, temporanei e su base volontaria attivati in fase di emergenza, facendo leva sul senso civico dei nostri colleghi. Piuttosto, così come ci si sta giustamente ponendo il problema dell’urgenza di reclutare personale medico, infermieristico ed educativo, occorrerebbe destinare fondi adeguati al Servizio Sanitario Nazionale per assumere un significativo numero di psicologi ed esser pronti a rispondere alla grande richiesta di psicoterapie che ci sarà nei prossimi mesi e anni.
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Search-ME - Erickson 5 Psicologia
Quanto è diffuso e come si può trattare il disturbo d’ansia per la salute
La maggior parte di noi ha provato, in qualche momento della sua vita, una forte ansia per la propria salute o quella dei propri cari. Sperimentare ansia riguardo alla salute e alla morte è assolutamente normale. L’ansia per la salute diventa un vero e proprio disturbo quando si manifesta come una paura o una preoccupazione continua ed eccessiva. Molti individui che sperimentano eccessiva ansia per la salute ispezionano ripetutamente il proprio corpo per cercare segni, rigonfiamenti, eruzioni cutanee e piccole ferite che possano indicare l’inizio di una malattia fisica. Altre persone invece temono moltissimo l’andare da un dottore per la paura che gli confermi il sospetto di avere una malattia grave e quindi evitano di farsi visitare e/o di fare accertamenti, anche se continuano a preoccuparsi. Molte persone alternano questi comportamenti. Quanto è diffusa l’ansia per la salute?  Le stime suggeriscono che dal 3 al 10% della popolazione generale soffre di una significativa ansia per la salute, mentre più del 30% sperimenta al riguardo paure occasionali o più leggere. L’ansia per la salute colpisce in uguale misura sia uomini che donne e si può sviluppare a ogni età. Come si manifesta? L’andamento del disturbo è generalmente a fasi: una persona può nutrire preoccupazioni eccessive per la sua salute per alcuni periodi di tempo anche lunghi, alternati a momenti in cui esse non si manifestano o sono più leggere e transitorie. In generale, se non trattato questo disturbo frequentemente tende a diventare cronico e a far vivere sempre con una sensazione di precarietà e insicurezza per la propria vita. Quali sono le principali cause dell’ansia per la salute?  Nonostante sia un disturbo che si conosce da moltissimo tempo, come per tutti i disturbi mentali non sono ancora state trovate le cause precise della sua insorgenza, la cosiddetta eziologia. Gli studi di questi ultimi anni hanno però permesso di ipotizzare l’azione di più fattori nel determinare la maggiore vulnerabilità di alcune persone: alcuni sono di tipo biologico e genetico, altri di natura psicologica, altri ancora di tipo sociale e culturale. Chi è lo specialista più adatto per un trattamento del disturbo d’ansia per la salute? Lo specialista che può confermare la diagnosi e suggerire un trattamento adeguato è lo psichiatra; per un trattamento psicologico è necessario uno specialista nelle tecniche psicologiche, cioè uno psicoterapeuta, che può essere uno psichiatra o uno psicologo, purché esperto nel trattamento di questo tipo di problema.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia età adulta
Domande e risposte sulla terapia cognitivo-comportamentale per affrontare le crisi di coppia o famiglia
Perché la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per affrontare i problemi di coppia e familiari? Quali sono i processi cognitivi alla base della terapia cognitivo-comportamentale di coppia? Quali sono le frequenti distorsioni cognitive riscontrabili nelle crisi di coppia o familiari? Gli schemi della terapia cognitivo comportamentale applicati alla coppia e alla famiglia I pensieri automatici nella terapia cognitivo comportamentale coincidono con gli schemi? Qual è la relazione tra schemi e distorsioni cognitive? Come agire sugli schemi nella terapia di coppia? Su cosa si basa l’assessment iniziale? Quali tecniche utilizzare per impostare il trattamento?     Perché la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per affrontare i problemi di coppia e familiari? Le applicazioni della CBT ai problemi delle relazioni di coppia sono state introdotte quasi 50 anni fa nei primi scritti di Albert Ellis concernenti l’importanza che i pensieri ricoprono nei problemi coniugali. Ellis e colleghi suggerivano che si verificasse una disfunzione relazionale quando le persone hanno credenze irrazionali o irrealistiche riguardo al proprio partner e alla propria relazione e esprimono valutazioni negative su partner e relazione che non sono all’altezza delle loro irrealistiche aspettative. Nel momento in cui si attivano questi processi cognitivi negativi, è probabile che l’individuo sperimenti intense emozioni negative (rabbia, delusione e amarezza) e si comporti male nei confronti del partner. I metodi consolidati di assessment e di intervento cognitivo derivati dalla terapia individuale sono stati adattati dai terapeuti cognitivo-comportamentali per essere utilizzati nella terapia di coppia al fine di identificare e modificare le distorsioni cognitive che i partner attuano reciprocamente. Come nella psicoterapia individuale, gli interventi cognitivo-comportamentali per le coppie sono stati concepiti per incrementare le competenze dei partner nell’identificare e modificare i propri pensieri disfunzionali e le capacità di comunicazione e di risoluzione costruttiva dei problemi. La terapia cognitivo-comportamentale di coppia (CBCT; Cognitive-Behavioral Couple Therapy) è stata sottoposta a più studi controllati di efficacia rispetto a qualunque altra terapia.     Quali sono i processi cognitivi alla base della terapia cognitivo-comportamentale di coppia? Percezioni: nelle relazioni di coppia e nei rapporti familiari le percezioni si riferiscono al modo in cui interagiamo con partner o familiari e a come li percepiamo nel corso delle interazioni. Aspettative e doverizzazioni: esistono vari contenuti cognitivi che frequentemente emergono nelle relazioni in crisi, e, sebbene ciascuna categoria costituisca una normale forma di pensiero, ognuna è suscettibile di distorsioni: Attenzione selettiva. La tendenza a prestare attenzione solo ad alcuni degli aspetti della relazione e a tralasciarne altri (ad es., focalizzarsi sulle parole del partner e ignorarne le azioni). Attribuzioni. Inferenze sui fattori che hanno influenzato le azioni del proprio compagno (ad es., desumere che il partner non abbia risposto a una domanda al ne di esercitare un controllo sulla relazione). Aspettative. Anticipazioni riguardo alla probabilità che eventi specifici si verificheranno nella relazione (ad es., ritenere che esprimere al partner i propri sentimenti susciterà la sua rabbia). Assunzioni. Credenze riguardo alle caratteristiche generali delle persone e delle relazioni (ad es., una donna convinta che gli uomini non abbiano bisogno di un legame emotivo). Doverizzazioni. Credenze circa le caratteristiche che le persone e le relazioni “dovrebbero” avere (ad es., non dovrebbero esserci barriere tra i partner, che devono condividere totalmente pensieri ed emozioni).     Quali sono le frequenti distorsioni cognitive riscontrabili nelle crisi di coppia o familiari? Oltre ai pensieri automatici e agli schemi, Beck e collaboratori (1979) hanno identificato le distorsioni cognitive, o errori di elaborazione dell’informazione, che contribuiscono a far sì che i pensieri siano fonte di sofferenza e di conflitto. Inferenza arbitraria. Si traggono conclusioni senza prove valide. Ad esempio, i genitori la cui figlia adolescente arriva a casa mezz’ora dopo l’orario stabilito concludono: “Ci risiamo, si sta di nuovo cacciando nei guai”. Astrazione selettiva. L’informazione viene estratta dal contesto e alcuni dettagli vengono messi in evidenza, mentre altre importanti informazioni vengono ignorate. Ad esempio, un uomo la cui moglie risponde alle sue domande con risposte a monosillabi giunge alla seguente conclusione: “È arrabbiata con me”. Ipergeneralizzazione. Un unico evento (o un paio) viene adottato quale rappresentazione di tutte le situazioni simili, collegate o meno ad esso. Ad esempio, quando un genitore nega al figlio di uscire con gli amici, il bambino desume: “Non mi lasci mai fare niente”. Esagerazione e minimizzazione. Una situazione viene percepita come più o meno significativa di quanto meriti. Ad esempio, un marito arrabbiato perde le staffe quando calcola quanto la moglie ha speso e le dice: “Siamo rovinati”. Personalizzazione. Eventi esterni vengono attribuiti a se stessi pur senza prove sufficienti per trarre tale conclusione. Ad esempio, una donna, resasi conto che il marito aggiunge del sale al cibo da lei preparato, pensa: “Detesta come cucino”. Pensiero dicotomico o pensiero polarizzato. Le esperienze vengono codificate come bianco o nero, un successo completo o un fallimento totale. Ad esempio, un marito la cui moglie non è d’accordo sulla disposizione degli oggetti nell’armadio da lui appena riordinato desume: “Non è mai contenta di ciò che faccio”. Etichettamento. La propria identità viene autodefinita in base alle imperfezioni e agli errori commessi in passato. Ad esempio, in seguito a errori continui nella preparazione dei pasti, una moglie pensa: “Non valgo niente”. Visione a tunnel. A volte i partner vedono solo ciò che vogliono vedere o ciò che collima con il loro stato mentale del momento. Un uomo che ritiene che sua moglie “faccia comunque ciò che vuole” potrebbe incolparla di prendere una decisione in maniera puramente egoistica. Interpretazione distorta. Tipo di ragionamento che i partner formulano in momenti di crisi, automaticamente, presumendo che il comportamento dell’altro sia dettato da cattive intenzioni. Ad esempio, una donna si dice: “È amorevole perché vuole qualcosa. Mi sta incastrando”. . È il dono magico di essere in grado di conoscere ciò che un’altra persona sta pensando senza l’ausilio della comunicazione verbale. Alcune coppie arrivano a imputarsi reciprocamente cattivi propositi come, ad esempio, un uomo che pensa: “So cosa ha in mente, crede che io non sappia ciò che sta facendo”.     Gli schemi della terapia cognitivo comportamentale applicati alla coppia e alla famiglia Il termine schema trae origine dalla parola-radice greca scheen (), che significa “avere” o “formare”. In ambito psicologico, esso indica “una codifica mentale delle esperienze che include un particolare modo organizzato di percepire cognitivamente e di rispondere a una situazione complessa o a un set di stimoli”. Il concetto di schema è alla base della Schema Therapy, un’estensione significativa del trattamento cognitivo-comportamentale tradizionale e dei suoi concetti. La Schema Therapy applicata alle coppie e alle famiglie, per quanto dedichi una certa attenzione agli schemi del sé propri dei singoli individui, si concentra maggiormente sul sistema relazionale e sugli schemi che si sviluppano specificatamente intorno al sé nella relazione. Essa, inoltre, indaga e analizza le esperienze che il singolo partner o il singolo componente di una famiglia hanno vissuto all’interno della loro famiglia di origine e all’inizio della loro vita.     I pensieri automatici nella terapia cognitivo comportamentale coincidono con gli schemi? I pensieri automatici sono contenuti cognitivi spontanei, spesso formulati fugacemente, per lo più consci e facilmente accessibili. I pensieri automatici consci sono la via per scoprire le credenze sottostanti o gli schemi di una persona. A volte i contenuti cognitivi sono inconsapevoli; i pensieri automatici di una persona, però, rivelano spesso i suoi schemi generalizzati sottostanti, per quanto non sempre essi ne siano espressione diretta. Molti di essi rivelano le attribuzioni del soggetto rispetto alle cause degli eventi da lui osservati.     Qual è la relazione tra schemi e distorsioni cognitive? Gli schemi sulle relazioni, spesso, non sono chiaramente articolati nella mente, ma esistono come nozioni vaghe di ciò che è o dovrebbe essere. Una volta sviluppatisi, essi influenzeranno il modo in cui la persona elaborerà le informazioni in situazioni nuove, condizionando, ad esempio, ciò che percepirà selettivamente, le inferenze che formulerà sulle cause del comportamento degli altri e il grado di soddisfazione che avrà rispetto alle proprie relazioni. Gli schemi esistenti, per quanto siano difficili da cambiare, possono essere modificati grazie a ripetute nuove esperienze con “altri significativi”.     Come agire sugli schemi nella terapia di coppia? Nella terapia di coppia, è fondamentale affrontare i pensieri caratteristici di ciascun partner. Gli individui, così come sviluppano i propri schemi di base su se stessi, sul mondo e sul futuro, elaborano anche schemi sulle caratteristiche delle relazioni strette in generale e sulle proprie. Ignorare o non riuscire a prestare ade- guata attenzione agli schemi sottostanti dei pazienti è un grave errore clinico. Gli schemi, essendo spesso al centro dei conflitti di coppia e familiari, dovrebbero essere affrontati nelle fasi iniziali del trattamento, mentre l’assessment è ancora in corso.     Su cosa si basa l’assessment iniziale? I terapeuti più esperti e qualificati sanno che la concettualizzazione del caso è un momento cruciale del processo di assessment e che la riuscita del trattamento dipende dall’accuratezza della valutazione iniziale. Le 3 modalità principali di assessment clinico sono: i colloqui individuali e congiunti (un’importante fonte di informazioni sul funzionamento passato e presente della coppia o della famiglia), i questionari self-report (questionari standardizzati per raccogliere informazioni sulle opinioni che i membri di una famiglia hanno su di sé e sulle loro relazioni) e l’osservazione comportamentale delle interazioni familiari. Gli obiettivi della valutazione sono: identificare i punti di forza e le caratteristiche problematiche degli individui, della coppia o della famiglia e dell’ambiente; identificare l’attuale funzionamento individuale e familiare considerandone le fasi di sviluppo e i cambiamenti; identificare quegli aspetti cognitivo-emotivi e comportamentali dell’interazione familiare che potrebbero essere scelti come obiettivo dell’intervento. Durante l’assessment quindi si andranno ad investigare i contenuti e processi cognitivi, i pensieri automatici e le credenze di base, la motivazione al cambiamento degli individui, le distorsioni cognitive.     Quali tecniche utilizzare per impostare il trattamento? Alcune tecniche utilizzati nella terapia cognitivo-comportamentale per le coppie e le famiglie. Training di comunicazione: una delle più comuni modalità di intervento, trasversale a vari approcci terapeutici, consiste nel migliorare la capacità dei membri di una famiglia di esprimere pensieri ed emozioni e di ascoltarsi reciprocamente. Tecnica del taccuino e matita: ciascuno ha ciascuno una penna e un taccuino su cui trascrivere qualsiasi pensiero che avesse formulato o qualsiasi emozione che avesse provato ascoltando la versione dei fatti raccontata dal partner. La scrittura non è solo catartica, ma diminuisce le interruzioni, permette ai partner e ai membri di una famiglia di concentrarsi e li aiuta ad ascoltare ciò che viene detto, mentre annotano informazioni preziose. Strategie di problem solving: durante la negoziazione, è spesso richiesta la capacità di soppesare le alternative con calma e tranquillità, e ciò è estremamente difficile in caso di disaccordo. Questo è il motivo per cui le strategie di risoluzione dei problemi sono sempre state una componente importante della CBCT. .url-glossario{ z-index: 1000; position: relative; } .cap-glossario{ top: -150px; position: relative; } .url-glossario li, .url-glossario li a {color: #b5161a; font-size: 1.2rem; text-decoration: none; font-weight: bold; } .url-glossario li a:hover {color:#122969; background: rgba(149,165,166,0.2); content: ''; -webkit-transition: -webkit-transform 0.3s; transition: transform 0.3s; -webkit-transform: scaleY(0.618) translateX(-100%); transform: scaleY(0.618) translateX(-100%);}
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