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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Psicologia
I ritirati sociali, pur avendone l’opportunità, non escono di casa. Che cos’è il ritiro sociale e come si manifesta in bambini e ragazzi
Siamo all’inizio di maggio, il sole e la natura inseguono la primavera, stagione ideale per gite ed escursioni, e noi? Le indicazioni governative ci parlano di fase 2 dell’emergenza Coronavirus, una graduale ripresa delle attività, con prudenza riprenderemo a uscire di casa. Alcuni, finalmente, si scuotono dal torpore dell’isolamento sociale, e, tra mille incertezze, riprendono a considerare il ritorno alla vita sociale e lavorativa. L’essere umano, in generale, non ama essere costretto a vivere in isolamento sociale, è spontaneamente motivato a dirigersi verso gli altri, sia per riprendere le sue abitudini ma soprattutto perchè è animale sociale come ci ricorda il filosofo greco Aristotele (IV sec A.C.) nella “Politica”. Se ciò è consueto per molti, abbiamo chi fa eccezione. Esistono, infatti, persone che pur avendone l’opportunità non escono di casa: sono i ritirati sociali. Una complessa condizione con implicazioni biologiche, psicologiche e sociali studiata da decenni in psicologia evolutiva. Infatti, ci sono bambini che prediligono astenersi dal contatto sociale. Tre possibili profili di ritiro sociale nei bambini Le ricerche ci consegnano almeno tre profili possibili di ritiro sociale nell’infanzia: “Vorrei ma non posso”: ci riferiamo a quei bambini con motivazione sociale che reagiscono inibendosi al contatto con gli altri, oppure, entrano in ansia all’idea di incontrare gli altri. Per anni abbiamo parlato di fobia scolare per definire quei bambini che all’entrare in classe (pensiamo alla materna) iniziano a piangere e chiedere alla maestra di tornare a casa dalla mamma. Esperienza abbastanza diffusa ma che distingue chi, nel tempo, nonostante gli sforzi congiunti di genitori e insegnanti mantiene questo atteggiamento. La timidezza è l’aspetto temperamentale che accompagna queste situazioni, molte delle quali fortunatamente, si risolvono abbastanza presto. “Vorrei ma mi sento inadeguato”: ci riferiamo a bambini con minore motivazione sociale e che al contatto con gli altri si inibiscono, perdendo presto la motivazione all’incontro. Sono più problematici nell’inserimento scolastico e richiedono un adeguato sostegno da parte delle famiglie e degli insegnanti. L’evitamento è l’aspetto comportamentale che li caratterizza, motivo per cui spesso si rifugiano nel gioco solitario, non riuscendo proprio a inserirsi nelle attività di gruppo. La reazione degli altri bambini è spesso di giudizio e di scherno, cosicché questi ragazzi presto imparano il valore semantico della parola diverso, e tali si sentiranno per tutta la vita, attribuendosi così la propria inadeguatezza a stare con gli altri. “Sono solo e... punto”: ci riferiamo a bambini solitari con nessuna motivazione sociale e che si astengono dal contatto con gli altri. Prediligono il gioco solitario, pur seguendo le attività scolastiche proposte e prediligono eseguirle minimizzando i contatti con gli altri. L’anedonia è l’aspetto caratteristico: non provare interesse particolare nel partecipare alla quotidianità e ai rituali sociali. Se queste, ci dicono gli studiosi, sono le condizioni di partenza, quali saranno le traiettorie di sviluppo per questi bambini? Gli studi ci parlano per il primo gruppo di una possibile evoluzione verso quadri clinici di ansia sociale, per il secondo gruppo di quadri clinici di depressione, per il terzo gruppo rimane la curiosità di vedere l’evoluzione di individui asociali non tutti sofferenti di quadri clinici. Ma il clinico spesso perde queste importanti tracce evolutive e si affida a quadri clinici già consolidati ma successivi Il ritiro sociale negli adolescenti Prima di questo, e recentemente, ci sono evidenze di forme di ritiro sociale nell’adolescente. Il termine, ormai di casa nei social, è Hikikomori, dal giapponese “hiko” ovvero tirare, e “komoru” ovvero ritirarsi, che descrive individui, spesso giovani, che hanno scelto di isolarsi dalla società, per motivi personali e/o ambientali. Se l’isolarsi, magari per periodi brevi,corrisponde a forme di esperienza che l'adolescente fa rispetto al mondo degli adulti e delle loro consuetudini (anche educative), in questi casi, ci dicono i ricercatori, si va oltre i 6 mesi: le consuetudini e le attività sociali si perdono, si rimane a casa, ci si confina attivamente nella propria stanza e si rimane in contatto con il resto del mondo tramite il PC, Tablet, Smartphone collegato alla rete. Lo studio di queste situazioni, ormai presenti in tutti i Paesi, da parte dei ricercatori e dei clinici, fa sì che i terapeuti stanno ricevendo maggiori richieste di familiari per aiutare i loro figli ad uscire di casa, “possono ma non vogliono” è la frase ricorrente in questi casi. Quando dobbiamo pensare al ritiro sociale come manifestazione di un disturbo psichico? Esistono quadri morbosi dove questo è un aspetto importante e parte della gravità della patologia: psicosi e disturbi dello spettro autistico. Nel primo caso, ci riferiamo, a condizioni in cui la manifestazione dell’esordio psicotico è legata a forme di distacco, anedonia, apatia, piuttosto che a idee deliranti e allucinazioni. La perdita di interesse sociale è spesso una delle manifestazioni iniziali di questi quadri clinici e solo il riconoscimento di questi, insieme ad alcuni sintomi di deficit cognitivi, possono indirizzare alla diagnosi di psicosi. Nel caso dei disturbi dello spettro autistico, le forme tipiche di autismo (perdita del contatto oculare, della comunicazione e comprensione sociale) sono, in alcuni individui, associate a manifestazioni di inibizione nel rapporto sociale, e questo può avvenire sia nell’infanzia sia nella giovane età adulta. Altre manifestazioni del ritiro sociale le possiamo ritrovare in alcuni quadri clinici di depressione come manifestazione connessa sia alla perdita di uno status sociale e di un legame importante a cui non si riesce a reagire, sia alla perdita brusca di interessi perseguiti prima dell’evento morboso. La nostra esperienza clinica ci ricorda anche le forme di ansia sociale, di cui si parlava all’inizio, per alcune situazioni d’esordio in età adulta. Infine, ultimi nella descrizione ma non ultimi per importanza, i quadri clinici di disturbi di personalità. La personalità evitante, così vicina alle manifestazioni del ritiro sociale, ci conduce a individui con costante percezione soggettiva di estraneità nelle relazioni e di non appartenenza sociale: sono coloro che percepiscono sé stessi negativamente (“diverso, inadeguato”) e degli altri temono il giudizio, il rifiuto e l’esclusione dal gruppo. Il distacco sociale è la regola che non gli impedisce di provare una gamma di emozioni (“paura, imbarazzo,rabbia, tristezza”) a conferma di doversi rassegnare a vivere una vita grama. La condizione umana, inoltre, li rende negativi al confronto con gli altri per la minore participazione sociale ma, sopratutto, l’impossibilità di raggiungere, con soddisfazione, gli obiettivi comuni di vita nell’ambito sentimentale, lavorativo, amicale. Il riconoscimento e l’opportuna valutazione del ritiro sociale nei diversi quadri clinici descritti orientano il clinico nell’approntare specifici interventi terapeutici e di gestione migliore del problema: uscire di casa a questo punto sarà possibile.
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Search-ME - Erickson 2 Psicologia
Anna Maria Taroni, arteterapeuta e designer, risponde alla suggestione “Che tipo di insegnamento hai tratto dalla pandemia?”
La pandemia come esperienza traumatica, inaspettata, non prevedibile. Una quotidianità improvvisamente scossa, rovesciata, capovolta. Un’enorme occasione per ricostruire in modo differente ciò che non corrispondeva più alla nostra persona. Grazie anche al lavoro come arteterapeuta, ho potuto raccogliere domande provenienti da tante persone che giravano attorno ad un nodo altrettanto traumatico: quello di incontrar-si. Incontrar-si, nel senso profondo di dire sì a se stessi, incontrandosi, guardandosi, conoscendosi, accarezzando le proprie paure, angosce, fragilità. Con le spalle al muro, immersi in un silenzio assordante, in un tempo sconosciuto e senza certezza alcuna, chiusi fra quattro mura, senza scuse, con gli impegni azzerati, le agende improvvisamente vuote, con le sue pagine spaventosamente bianche, impossibilitati a trovare una via di evasione, ci siamo dovuti guardare allo specchio, senza possibilità di rifuggire. Un’occasione d’oro per rimettere in fila le priorità della vita, prendersi cura di sé, coltivare il proprio giardino interiore, conoscere le sue sfumature, odori e sapori. Giardino che per crescere richiede potature, innesti e semine nuove. Non c’era più la scusa del “non ho tempo”, “devo fare”. Per la prima volta ci siamo trovati ad avere tempo. Siamo stati chiamati a potare, a sporcarci le mani arando la terra, per prepararla al nuovo che verrà. Chi ha avuto il coraggio di sporcarsi le mani, inizia a vedere le nuove piantine che ora crescono. Piante simbolo di progettualità e futuro. Coltivando questo giardino interiore, c’è stata la straordinaria scoperta che non esiste solo un fuori, ma ciò che ci rende preziosi è il nostro dentro, che va conosciuto, attraversato, abitato e non rifuggito.  Abbiamo imparato a stare, ad attendere, ad abitare un tempo dilatato e ad attraversare le grandi domande, a farci domande, abbiamo ritrovato un dialogo interiore. Abbiamo conosciuto ancora meglio chi abita sotto al nostro stesso tetto, abbiamo avuto la possibilità di fare un pezzo di cammino a distanze ravvicinate o in alcuni casi a enormi distanze, alimentando il desiderio dell’incontro. Finalmente le risposte giuste non erano su internet, perché non c’era una risposta giusta e altre sbagliate, ma c'era una ricerca. Improvvisamente ci si è riscoperti soggetti, dove gli oggetti non riuscivano più a tacitare le angosce: l’unico modo era quello di guardarsi e ascoltarsi. Con le spalle al muro, inchiodati nella nostra posizione, abbiamo iniziato a viaggiare fra le nostre terre inesplorate, conoscendoci e anche scoprendoci. La pandemia ci ha offerto la grande possibilità di riprendere in mano la nostra storia. C’è chi questa sfida l’ha accetta, c’è chi l’ha rifuggita perché potare è una scelta, arare la terra richiede cambiamento di prospettiva, piantare un albero impone una visione e progettualità verso il futuro. Tutte azioni che chiedono di uscire dal virtuale per tornare finalmente connessi con la realtà circostante, quella concreta.
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Search-ME - Erickson 3 Autismo e sindrome di Asperger
Quale disciplina sportiva scegliere per i bambini con disturbi del neurosviluppo
È esperienza comune che l’attività sportiva determini benefici a livello fisico e psicologico. Per molti bambini con disturbi del neurosviluppo, però, praticare uno sport rappresenta un obiettivo difficile da realizzare e non sono poche le esperienze negative raccontate dalle famiglie al momento dell’inserimento in strutture sportive e campus estivi. La scelta della migliore attività sportiva in cui inserire un bambino affetto da un disturbo del neurosviluppo è complessa perché si basa su una delicata combinazione tra le caratteristiche del disturbo, le peculiarità individuali del bambino, gli aspetti tipici dell’attività sportiva e le necessità organizzative, economiche ed emotive dei genitori.   Una regola generale, valida a prescindere dalla presenza del disturbo e dal grado di compromissione del bambino, è quella di partire da ciò per cui egli è motivato, pertanto dalle sue preferenze. È buona prassi, però, evitare gli sport molto caotici oppure in cui sia difficile decodificare il contesto circostante per mettere in atto il comportamento atteso, come ad esempio potrebbe accadere nel baseball. Sono invece da preferire quegli sport, individuali o di gruppo, in cui le regole sono molto semplici, lo spazio è ben delimitato, gli schemi di gioco non siano modificati di continuo sulla base dell’accordo tra i giocatori e infine il successo non sia misurato principalmente sulla base delle abilità di interazione sociale. Esistono alcune errate convinzioni che riguardano i bambini affetti da disturbi del neurosviluppo nel momento in cui si consiglia un’attività sportiva. Uno degli errori più frequenti riguarda i bambini e gli adolescenti affetti da disturbo dello spettro autistico. Partendo dal presupposto che il deficit sociorelazionale sia il sintomo su cui occorre incidere in maniera più significativa, sono spesso consigliati sport di squadra tipo calcio e rugby. In realtà, un ambiente caotico e con tante persone – come uno spogliatoio con tanti ragazzi che praticano calcio o rugby -  potrebbe inizialmente essere vissuto come frustrante e poco comprensibile. Al contrario, è preferibile iniziare con sport in cui i piccoli gruppi siano privilegiati sia nel setting di allenamento sia all’interno dello spogliatoio e in cui il ragazzo autistico possa mantenere i propri spazi. Ci sono inoltre ulteriori variabili, di tipo più personologico e individuale, da tenere in considerazione prima di scegliere uno sport. È importante: - Chiedersi quali sono le reali abilità motorie: se il bambino presenta uno scarso tono muscolare e difficoltà di coordinazione motoria sono più indicati sport quali il nuoto, la danza, il trekking, l’equitazione, le arti marziali e il ciclismo, poiché si possono iniziare senza che sia richiesta un’eccessiva prestazione fisica. Ciò permette al bambino di implementare le proprie capacità, la forza, la flessibilità e la coordinazione nel corso del tempo, migliorando la performance;   - Chiedersi se il bambino mostra particolare resistenza ad accettare la competizione: se così fosse bisogna pensare a uno sport a bassa competitività o optare inizialmente per uno sport individuale. Esistono molte attività che non richiedono concorrenza: trekking, mountain bike, yoga, danza, pesca, golf sono dei validi esempi; - Chiedersi se il bambino mostra severe difficoltà nel partecipare agli sport di gruppo o un grave isolamento: in tal caso si potrebbe scegliere tra sport che presentano caratteristiche solo apparentemente individuali, ma hanno in realtà una connotazione gruppale e consentono di partecipare senza la necessità di interpretare i segnali verbali degli altri, ad esempio il nuoto di gruppo, il tiro con l’arco, l’atletica, le bocce, la scherma, la lotta libera, il ciclismo e la vela.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Un focus group condotto dalla Ricerca & Sviluppo Erickson evidenzia bisogni e desideri di neo-laureati e neo-laureate in Psicologia legati all’avvio della propria carriera professionale
In un panorama lavorativo in rapido cambiamento, a livello normativo ma anche in relazione alla situazione sanitaria che stiamo affrontando da ormai quasi due anni, Erickson ha voluto comprendere meglio quali potessero essere le implicazioni per i neo-laureati in Psicologia che iniziano a muovere i primi passi negli ambienti lavorativi. Con il progetto "Giovani psicologi e psicologhe", ci siamo posti come obiettivo principale quello di individuare i bisogni dei neo-laureati che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro, tenendo conto delle ambizioni e desideri rispetto alla carriera professionale, ma anche alle necessità e gli aspetti di contenuto rispetto a quello che serve per perseguire i loro obiettivi. La ricerca è stata fatta coinvolgendo un gruppo di giovani professionisti, neo-specializzati o neo-laureati magistrali, che hanno contribuito con spunti ed idee durante appositi focus group, organizzati tra aprile e giugno 2021. Ciò che è emerso da questi focus group è la difficoltà di iniziare a lavorare da subito con il ruolo per il quale ci si è formati e preparati. Moltissimi giovani professionisti infatti evidenziano come le prime esperienze professionali siano possibili in campo educativo, come insegnante di sostegno, tutor o educatore. Dunque, non sempre attinenti alla propria formazione e agli interessi. Questo ha generato e genera un certo grado di insoddisfazione, sfiducia e frustrazione. Neo-psicologi e neo-psicologhe si trovano infatti ad essere spesso costretti a “scelte di comodo”, che non solo allontanano dal proprio ambito di competenza, ma per le quali magari non si hanno nemmeno le competenze adeguate, essendo diversi i profili professionali. Al di là della forma contrattuale, in linea generale l’ambito dell’età evolutiva è quello in cui c’è più possibilità di lavoro. Il tema dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA) risulta in particolar modo quello di più "caldo". Nonostante questa altissima richiesta di intervento con i bambini che manifestano problemi legati all'apprendimento, non tutti i professionisti vorrebbero lavorare in questo ambito, e al contrario sarebbero propensi a specializzarsi in altri ambiti di intervento. Le tematiche di interesse maggiore sono inerenti l’età evolutiva e adolescenziale: non solo disturbi del neurosviluppo, ma anche disturbi emotivi, disabilità sensoriali, psicologia giuridica, migranti e tanti altri temi “più di nicchia”. Tra i partecipanti, molti sottolineano anche come manchi una parte di formazione e presa in carico dei disturbi neuroevolutivi in età adulta, ambito di interesse sempre maggiore e ancora poco affrontato. L’interesse dei giovani professionisti è rivolto anche ai temi dell’immigrazione o della figura dello psicologo nei tribunali. La voglia di approfondire la propria professione in questi ambiti viene però spesso messa in discussione dall'interessato/a stesso. Per accedere ai concorsi o ai centri che si occupano di ambiti così specifici, infatti, è richiesta una precedente formazione ed esperienza tali che un/a giovane laureato/a ad inizio carriera spesso non ha avuto il tempo di approfondire. Per questo motivo, spesso i neo-laureati rischiano di non intraprendere la strada desiderata e di specializzarsi negli ambiti più convenienti. Nell'avvio delle proprie attività lavorative, che sono appunto prevalentemente nel settore privato, le maggiori necessità riguardano un sostegno rispetto alle questioni burocratiche legate alla libera professione (quali e quante tasse, partita iva, legislazione, iscrizione all'ENPAP, ecc.). In risposta a questi bisogni, alcuni siti degli Ordini degli Psicologi sono molto aggiornati, ma non tutte le regioni forniscono materiale utile in merito, e non sempre si trovano commercialisti che lavorino nell’ambito socio-sanitario e che siano quindi a conoscenza di tutte le realtà e novità che possono riguardare la figura dello psicologo. Un altro punto emerso durante quest'indagine, è la necessità di acquisire nuove competenze di self-marketing e personal branding, non solo rispetto a quali canali utilizzare, ma anche ai contenuti, a come curare la propria immagine in modo professionale. Idea comune quella che non ci sia sempre chiarezza rispetto a come si delinea la figura dello psicologo nei vari contesti, quali sono le possibilità, le caratteristiche e tipologie di impiego, di utenza, di prospettiva futura. Un altro interessante spunto di riflessione ha riguardato la possibilità e necessità di acquisire competenze pratiche trasversali rispetto ai contesti lavorativi (ad la es. gestione del colloquio con il paziente), aspetti sui quali l’università non sembra fornire basi solide, focalizzandosi prevalentemente sugli aspetti teorici. Queste competenze sono sì approfondite durante la Scuola di Specializzazione, ma non tutti i giovani professionisti intendono proseguire i loro studi in questa direzione, quindi viene sottolineata la necessità di indicazioni pratiche anche all’interno dei corsi e master. Dall’indagine è quindi emersa un’immagine del giovane psicologo come una persona che ha bisogno di ritrovare la fiducia nella propria professione e nella strada che ha scelto, trovando maggiore supporto e possibilità di crescita professionale in tutti gli ambiti in cui la figura dello psicologo/psicologa può operare, sia dal punto di vista formativo con i corsi di aggiornamento, sia dal punto di vista pratico con supporto fiscale adeguato, data la necessità di imprenditorialità, e condivisione di elementi di self-marketing adeguati al codice deontologico della professione.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicoterapia
Quali sono le fasi del processo terapeutico volte all’elaborazione dei ricordi traumatici.
La terapia EMDR  (Eye Movement Desentization and Reprocessing), adottata da un numero sempre crescente di psicoterapeuti in tutto il mondo e basata sul modello di elaborazione adattiva dell’Informazione (AIP), è un metodo terapeutico evidence-based che permette l’elaborazione dei ricordi traumatici immagazzinati in modo disfunzionale all’interno del sistema di memoria.  Grazie alla desensibilizzazione e rielaborazione del ricordo traumatico l’EMDR allevia la sofferenza emotiva e permette la riformulazione delle credenze negative del paziente.  Nella strutturazione del piano terapeutico EMDR , gli obiettivi sono il consolidamento delle risorse del paziente e l’identificazione di target basati sui tre assi temporali di passato, presente e futuro. Nel passato si collocano i ricordi precoci alla base del disturbo attuale; nel presente i trigger attuali che riattivano tale materiale; nel futuro le risposte future che il paziente vorrebbe attuare. L’obiettivo delle otto fasi del piano terapeutico è quello di raggiungere una completa elaborazione dell’evento traumatico.  Fase 1: anamnesi del paziente La fase iniziale è un momento importante per l’accoglienza del paziente e della sua sofferenza e per la costruzione di un adeguato clima di alleanza e di fiducia. Il suo obiettivo è comprendere a fondo il quadro clinico del paziente, utile per delineare un piano terapeutico adeguato e per formulare degli obiettivi terapeutici condivisi. Il primo passo è dunque quello della raccolta anamnestica, che nella terapia EMDR ha il duplice scopo di valutare l’idoneità del paziente all’elaborazione del materiale traumatico e di identificare i potenziali target che andranno a costituire lo scheletro del piano terapeutico.  Fase 2: preparazione L’elaborazione dei ricordi traumatici deve avvenire all’interno di un contesto sicuro e di una relazione terapeutica caratterizzata dalla fiducia: è pertanto importante che il clinico informi in modo chiaro ed esaustivo il paziente riguardo quello che potrebbe accadere durante il corso del processo terapeutico, come ad esempio la forte attivazione emotiva che può emergere nella fase di elaborazione dei ricordi traumatici. L’obiettivo della fase 2 è quindi illustrare nel dettaglio al paziente la procedura EMDR e insegnargli alcune tecniche di rilassamento utili per gestire i momenti di forte attivazione.  Fase 3: assessment di ogni target Questa fase è caratterizzata dalla rielaborazione vera e propria dell’evento traumatico. Affinché si possa giungere alla completa elaborazione del ricordo traumatico, è importante che durante questa fase vengano attivati tutti i canali sensoriali coinvolti al momento in cui l’evento si è verificato in quanto, come ben si sa, le memorie non elaborate lasciano una traccia anche a livello corporeo.  Fase 4: desensibilizzazione Giunti a questo punto, il paziente è pronto e attrezzato per elaborare attivamente il ricordo traumatico. L’obiettivo in questa fase è quindi ridurre la sofferenza in relazione allo stimolo-target precedentemente selezionato.  Fase 5: installazione della cognizione positiva L’obiettivo principale di questa fase è installare la cognizione positiva, al fine di sostituire la credenza negativa originale e aumentare nel paziente il senso di autostima e di autoefficacia. Una volta installata la cognizione positiva, nel momento in cui il paziente richiamerà alla memoria l’evento traumatico, legherà ad esso tale affermazione autoriferita positiva e sarà perciò in grado di dare nuovo valore ai significati fino ad allora associati all’evento, rimodellando il suo sistema di credenze. Fase 6: scansione corporea La scansione corporea consiste nel chiedere al paziente di «percorrere» il proprio corpo, dalla testa ai piedi, come con uno scanner, focalizzando l’attenzione su qualunque segnale arrivi da esso. Se durante la scansione il paziente avverte delle tensioni in alcune parti del corpo, il lavoro si focalizzerà su quelle sensazioni per elaborarle fino a quando cesseranno di generare fastidio. Alla fine di questa fase il paziente deve poter rievocare il ricordo elaborato senza che ad esso si accompagnino tensioni corporee o sensazioni negative. Fase 7: conclusione La settima fase è l’ultima prima della conclusione della seduta e con essa il terapeuta si assicura che il paziente si trovi in una condizione ottimale di equilibrio prima di congedarlo. Il paziente deve lasciare la stanza di terapia con la sensazione di aver raggiunto un obiettivo importante e di avere un pieno controllo della situazione. Per questo può essere utile rievocare insieme a lui le tecniche di autocontrollo e rilassamento illustrate durante la fase 2 e che potrà usare da solo qualora ne senta il bisogno. Fase 8: rivalutazione In questa fase il terapeuta si assicura che tutti i traguardi raggiunti nella seduta precedente siano stabili e consolidati. Se, invece, nella seduta precedente il ricordo non era stato elaborato completamente, in questa fase viene ripreso e si prosegue con il lavoro su di esso fino a raggiungere la completa elaborazione.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Quattro esperti di psicologia ci spiegano in cosa consiste la «prosopoagnosia», ossia il deficit nel riconoscimento di volti ed emozioni e perché la riabilitazione di questo tipo di disturbo è importante
I volti umani sono stimoli visivi di notevole importanza per le implicazioni di tipo relazionale che la loro elaborazione comporta. Attraverso l’osservazione di un volto umano possiamo desumere numerose informazioni — l’età, il genere, la direzione dello sguardo, le emozioni espresse, la sollecitudine e l’interesse — e possiamo identificare quella particolare persona distinguendola da altre. Una persona può, ovviamente, essere identificata anche utilizzando altre caratteristiche, quali la voce, la postura, la forma del corpo, ma, sicuramente, il volto umano è la principale chiave di accesso per l’identificazione. La capacità di estrarre queste informazioni velocemente (in termini di frazioni di secondo) è fondamentale per le interazioni sociali e ha probabilmente giocato un ruolo chiave nella sopravvivenza dei nostri antenati. Una serie di studi ha corroborato l’ipotesi dell’esistenza fin dalla nascita di un sistema percettivo di base per l’elaborazione dei volti, che si sviluppa e diviene sempre più specifico grazie all’esperienza. Nonostante la precocità dello sviluppo di questo sistema, esso è molto flessibile e matura completamente, per diventare pienamente simile a quello dell’adulto, solo durante l’adolescenza. Questo suggerisce che il sistema di elaborazione dei volti abbia una certa plasticità e che, quindi, almeno in certe circostanze, ci sia la possibilità di migliorare tale abilità in individui che presentano specifici deficit di riconoscimento dei volti con protocolli mirati di riabilitazione. Che cos’è la «prosopagnosia» e qual è la sua origine Il deficit selettivo nel riconoscimento dei volti è denominato «prosopagnosia». La prosopoagnosia può essere acquisita, ossia intervenuta dopo la normale acquisizione delle abilità percettive di elaborazione dei volti in seguito a danno cerebrale (solitamente a livello della regione temporo-occipitale), oppure congenita e/o evolutiva. Prosopagnosia congenita e prosopagnosia evolutiva sono termini spesso utilizzati come sinonimi. Possiamo però definire la prosopagnosia congenita come un deficit specifico nell’elaborazione dei volti presente fin dall’infanzia in individui senza alcuna evidente lesione cerebrale o disturbo del neurosviluppo, mentre la prosopagnosia evolutiva è una condizione presente dalla nascita, ma connessa a un evidente danno cerebrale precoce o disturbo del neurosviluppo. Le difficoltà che incontrano le persone con prosopoagnosia Un bambino con prosopagnosia congenita può avere difficoltà a riconoscere i propri compagni di classe, chiamandoli con nomi sbagliati, comportarsi con persone estranee come se fossero familiari e mostrare difficoltà a riconoscere anche persone di famiglia specialmente se cambiano caratteristiche esterne del loro volto (ad esempio, il taglio di capelli). La prosopagnosia può avere, infatti, un profondo impatto durante l’infanzia, quando può creare difficoltà nel fare amicizia e nel partecipare ad attività sociali, portando a un aumento dei livelli di ansia e accrescendo il rischio di trovarsi in situazioni potenzialmente pericolose derivanti dall’affidarsi erroneamente a sconosciuti. I bambini con prosopagnosia possono avere problemi di sviluppo sociale e presentare deficit di funzionamento sociale simili a quelli osservati negli individui con Disturbi dello Spettro Autistico, con i quali spesso sono confusi durante l’iter diagnostico. In individui adulti con prosopagnosia congenita, sono presenti disturbi di ansia cronica, senso di colpa, sensazione di imbarazzo, fallimento e una specifica paura per le situazioni sociali. Questi disturbi vengono attribuiti dalle persone con prosopagnosia proprio al loro continuo fallimento nel riconoscimento dei volti. Le difficoltà che incontrano le persone con prosopoagnosia Il 2-2,9% della popolazione potrebbe essere affetto da prosopagnosia congenita e, considerando che questo deficit può avere un effetto devastante per la vita sociale di una persona, quello della riabilitazione è un problema clinico rilevante che, sfortunatamente, ha ricevuto poca attenzione. Un training specifico per la riabilitazione dei deficit dell’elaborazione e del riconoscimento dei volti, sviluppato facendo riferimento al modello cognitivo di Bruce e Young (1986), si focalizza sul miglioramento delle capacità di esplorazione delle caratteristiche interne dei volti (in primis, gli occhi). Considerata, inoltre, l’associazione presente negli individui con Disturbi dello Spettro Autistico tra difficoltà di riconoscimento dei volti e difficoltà di riconoscimento delle emozioni, il training prevede anche compiti volti a migliorare la capacità di riconoscere le emozioni.
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