IT
I mini gialli dei dettati 2
Carrello
Spedizioni veloci
Pagamenti sicuri
Totale:

Il tuo carrello è vuoto

|*** Libro Quantità:
Articoli e appuntamenti suggeriti

Tematica
Argomento
Utile in caso di
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Non vi è alcun filtro disponibile, allarga la tua ricerca per ottenere più risultati
Non vi è alcun filtro disponibile, allarga la tua ricerca per ottenere più risultati
Filtra
Filtra per
Tematica
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Argomento
Utile in caso di
Risultati trovati: 12
Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Le condizioni per un buon lavoro psicoterapeutico con pazienti LGBTQIA+, una popolazione che tende ad accedere meno ai servizi di cura in ambito medico e psicologico
La scelta di intraprendere un percorso terapeutico non è mai semplice. Un vortice di paure, pregiudizi, incognite porta le persone a chiedere aiuto anche molto tempo dopo l’insorgere del problema; in alcuni casi, una richiesta di aiuto non arriva mai. Questo è ancora più vero per la popolazione LGBTQIA+ poiché al disagio psicologico si associa la paura del giudizio, lo stigma, la minaccia di una rivittimizzazione, il timore di dover «confessare» qualcosa che può essere visto o, peggio ancora, viene vissuto come sbagliato. Non è possibile far prescindere un buon intervento terapeutico dalla preparazione del clinico circa le caratteristiche specifiche della popolazione LGBTQIA+ che, infatti, si contraddistingue per aspetti socio-culturali e problematiche specifiche: per esempio il coming out, una maggiore vulnerabilità a incorrere in alcune malattie fisiche (come per esempio malattie cardiovascolari, polmonari o oncologiche), la possibile presenza di episodi di vita anche traumatici, legati all’omofobia e al bullismo, la mancanza di esempi sociali rispetto alla vita di coppia omosessuale o bisessuale, la mancanza di conoscenze sulla sessualità gay o lesbica. Le persone che appartengono a una minoranza sessuale, infatti, presentano specifiche caratteristiche individuali, culturali, sociali, interpersonali, religiose, politiche, che non possono essere sovrapposte a quelle della popolazione eterosessuale. A noi piace pensare che il terapeuta che prende in carico la popolazione LGBTQIA+, oltre a essere un professionista della salute mentale, debba anche essere in qualche modo un antropologo e un sociologo. Solo così potrà interpretare l’esperienza personale del paziente nella sua complessità e unicità e fare della terapia un successo. Perciò la questione dell’omosessualità va studiata in tutte le sue implicazioni e sfaccettature, non solo ai fini terapeutici ma anche come indispensabile momento di formazione personale per il terapeuta stesso. Molti specialisti, infatti, sostengono di essere liberi da certi condizionamenti culturali legati all’omosessualità e più in generale all’orientamento sessuale, ma è possibile che alcuni di questi emergano inconsapevolmente nel lavoro terapeutico. Come insegniamo ai nostri allievi della scuola di specializzazione in psicoterapia, ogni terapeuta dovrebbe prendersi del tempo per guardarsi dentro e riconoscere la possibile presenza di stereotipi o pregiudizi omofobici (spesso normo accettati e per questo non chiaramente manifesti alla propria consapevolezza). Dovrebbe prendersi del tempo per lavorare sui propri possibili pensieri, credenze, emozioni, o atteggiamenti di chiusura verso un mondo che le principali fonti di trasmissione culturale ci hanno descritto come sbagliato, marginale, negativo. Qui sotto si trovano alcune domande che speriamo possano essere da guida per implementare l’autoriflessione. Domande utili per i terapeuti con pazienti LGBTQIA+ Credi che l’orientamento sessuale possa o debba essere cambiato, soprattutto se è il paziente a chiederlo perché lo percepisce come egodistonico? Quale training di formazione specifico hai fatto per lavorare con pazienti appartenenti a una minoranza sessuale? Quali libri hai letto sulla psicologia/psicoterapia con pazienti LGBTQIA+? Che lavoro hai fatto su te stesso per individuare eventuali tuoi pregiudizi omofobi? Quando hai frequentato l’ultima volta un workshop/seminario di aggiornamento sulla psicoterapia con pazienti LGBTQIA+? Hai frequentato posti di ritrovo politici o ludici rivolti alla popolazione LGBTQIA+? Se non si dà seguito a quanto viene suscitato in queste domande, la terapia con i pazienti LGBTQIA+ avrà un risultato parziale, attribuibile alle mancate conoscenze e riflessioni del terapeuta stesso. Non si tratta di essere gay friendly (atteggiamento di variabile apertura al mondo LGBTQIA+), ma si tratta di essere gay informed (essere informati e consapevoli del mondo LGBTQIA+).
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Lo psicologo Gabriele Melli ripercorre le tappe dell’evoluzione della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) dagli anni Novanta a oggi, spiegando diversità e caratteristiche dell’approccio odierno
La Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) è un approccio d’intervento di rinomata efficacia e che racchiude al suo interno strategie diverse e integrate per ridurre la sofferenza delle persone. Non si tratta di un approccio “monolitico”, al contrario si è sviluppato e si è delineato attraversando tre diverse generazioni o ondate, come descritto nel libro edito da Erickson “Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo comportamentale. Modelli clinici e tecniche d'intervento” (a cura di G. Melli e C. Sica, 2018). La prima generazione è quella che nasce nei primi decenni degli anni Novanta con la Terapia Comportamentale che, grazie alle conoscenze su apprendimento, condizionamento classico e operante, poneva l’attenzione sul comportamento. Mentre la seconda generazione si basava sui principi della Terapia Cognitiva che dava enfasi allo studio dei pensieri e dei processi cognitivi per poter intervenire su essi modificando, di conseguenza, le emozioni dolorose e i comportamenti. Grazie ad autori di spicco come Beck ed Ellis, la modificazione del processo cognitivo era lo strumento principale e la chiave d’accesso per la riduzione della sofferenza. Ė arrivata poi la terza fase della TCC, costituita da un gruppo di interventi (tra cui ACT, CFT, MCT, DBT e MBCT) che verranno rappresentati al decimo Congresso Internazionale di Psicoterapia Cognitiva (International Congress of Cognitive Psychotherapy - ICCP, che si terrà dal 13 al 16 maggio 2021 a Roma) con relatori internazionali come Hayes, Arntz e Wells. Il fatto che sia iniziata una nuova fase non sta a indicare, come il termine potrebbe suggerire, che siano stati annullati e accantonati gli assunti di base precedentemente identificati; infatti la terza generazione ha semplicemente inserito, oltre a quelle già esistenti, nuove variabili di cambiamento: la metacognizione, l’accettazione, la mindfulness, i valori personali. L’attuale TCC è, quindi, più aperta all’investigazione dell’ampio range degli approcci umanistici, esistenziali, analitici e delle tradizioni spirituali. Piuttosto che focalizzarsi sul contenuto dei pensieri e sulle esperienze interne, le terapie della terza fase sono focalizzate sui processi e sulle funzioni legati al modo in cui una persona entra in relazione con le proprie esperienze interne (pensieri, spinte all’azione, sensazioni). L’intervento non è finalizzato direttamente alla riduzione dei sintomi, lo scopo è aumentare i livelli di accettazione, apertura e disponibilità rispetto all’esperienza interna ed esterna, per poi poter individuare delle strategie di fronteggiamento più flessibili ma orientate all’efficacia e alle priorità di vita. Non risulta più centrale la sola psicopatologia ma il benessere e la ricchezza psicologica, per la crescita dell’intera persona.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Un progetto di ricerca e intervento psicologico di gruppo per aiutare le persone che hanno ricevuto la diagnosi di Sclerosi Multipla ad affrontare meglio questa situazione
Gli interventi psicologici rivolti ai malati di sclerosi multipla, in particolare ai neo-diagnosticati, sono in genere molto carenti in Italia; più in generale, sono carenti e spesso inesistenti nei riguardi di tutti i malati cronici. Questa mancanza deriva in primo luogo dalla frattura culturale, non ancora colmata, tra corpo e psiche, che caratterizza la formazione del personale sanitario. Ne deriva che strutture avanzatissime sul piano della cura di una malattia ignorano completamente gli aspetti psicologici, come se questi non riguardassero anche il trattamento della malattia che colpisce il corpo della persona: basti pensare all’adesione alle terapie, strettamente connessa con le modalità di adattamento psicologico. La seconda ragione, intrecciata con la precedente, risiede nella cronicità. Manca la consapevolezza che la malattia cronica, che accompagna il paziente per tutta l’esistenza, coinvolge in modo serio l’intera vita e quindi la totalità della persona e delle sue relazioni sociali. Non c’è una fase acuta in cui il corpo deve venire trattato, mentre la persona torna in seguito a fare la vita di prima, chiudendo una parentesi temporanea che lascia pochi strascichi o anche nessuno. C’è, al contrario, una condizione permanente che, nel caso della sclerosi multipla, tende a un progressivo peggioramento, con pesanti conseguenze sull’intera esistenza.   Presupposti e obiettivi del progetto “SM - Stare Meglio” Il progetto “SM - Stare Meglio” è nato dalla constatazione che gli interventi psicologici sono necessari ma nello stesso tempo purtroppo assenti. Necessari perché la malattia dura tutta la vita e pone una sfida enorme lungo gli anni. Necessari perché, in particolare dopo la diagnosi, le persone devono trovare strumenti per affrontare al meglio questa situazione senza inutili sofferenze aggiuntive, senza perdere tempo, imparando le strategie migliori, imboccando un percorso di sviluppo personale. Non tutto è risolto per sempre, perché la malattia evolve nel tempo e accompagna lo svolgersi della vita, ma è un inizio che pone buone basi per un buon adattamento anche nel futuro. Dall’impostazione teorica che considera la malattia una grande sfida non normativa allo sviluppo personale deriva, a livello pratico, la necessità di proporre l’intervento psicologico a tutti coloro che hanno avuto da poco la diagnosi di sclerosi multipla. L’obiettivo è di far diventare questo tipo di intervento prassi normale nella proposta terapeutica che un centro dedicato alla sclerosi multipla offre ai suoi pazienti, insieme alle terapie farmacologiche. Siamo ben consapevoli che questo non è facile, per le molte resistenze culturali e istituzionali da parte della sanità, di cui spesso la tanto invocata mancanza di risorse economiche non è che un paravento. Vi sono poi anche le resistenze che provengono dai pazienti stessi. Ma è un obiettivo irrinunciabile, in una situazione in cui non solo la malattia cronica in genere è in aumento, ma nello specifico le diagnosi di sclerosi multipla sono sempre più precoci e numerose, anche per una maggiore precisione diagnostica. La strada è certamente lunga; con il libro “Vivere con la sclerosi multipla” abbiamo voluto dare il nostro contributo per raggiungere un obiettivo difficile ma non impossibile. Non ci si può continuare a illudere di curare veramente i malati ignorando la loro psiche.   Mettere al centro la vita della persona malata Il progetto è fondato su una forte concezione teorica dello sviluppo come possibilità di crescita e adattamento che riguarda tutto il ciclo della vita dell'individuo, anche nelle situazioni critiche fortemente sfidanti come la malattia; in questo processo di sviluppo l’individuo svolge un ruolo attivo e non meramente reattivo. Come conseguenza di questa impostazione, il progetto si è proposto di prendere in considerazione aspetti centrali della vita delle persone: aspetti che riguardano qualunque persona, anche in condizioni di buona salute, ma che acquistano nella malattia cronica una rilevanza particolare. Non era nelle intenzioni focalizzare l’attenzione su aspetti settoriali, per quanto importanti; al contrario, si volevano affrontare i temi di fondo che riguardano la capacità del malato cronico, nel nostro caso del malato di sclerosi multipla, di fare fronte in modo positivo — di sviluppo e non di regressione, di adattamento e non di disadattamento — a una condizione esistenziale di malattia che lo accompagnerà per tutta la vita. Gli aspetti più particolari sono sempre stati considerati all’interno di un discorso più ampio; ad esempio, la gestione dei sintomi è stata esaminata nel quadro della promozione dell’autoefficacia nel perseguimento di obiettivi personali significativi, in grado di dare senso alla vita e di farla sentire degna di essere vissuta.  In questa prospettiva, l’intervento prende in considerazione la globalità dell’esperienza della persona nella sua unità psicofisica, fatta di corpo e di psiche, in relazione con gli altri. Ciò significa, anzitutto, considerare il corpo, le emozioni, la cognizione, nelle loro reciproche interazioni. Vengono di conseguenza proposte attività, come la respirazione e il rilassamento, che partono dal corpo in un percorso «dal basso verso l’alto», per migliorare lo stato psichico modificando quello fisiologico. Si lavora nel contempo sulla modificazione degli stati emotivi e sulla gestione dello stress attraverso il cambiamento delle strategie cognitive di interpretazione della realtà, in un percorso «dall’alto verso il basso», vale a dire dalla psiche alle emozioni e agli stati fisiologici. Ancora, si prendono in considerazione le relazioni interpersonali e le strategie di buona comunicazione con gli altri, in particolare con il personale sanitario e i familiari.  L’intervento non si limita a questi aspetti, pur importantissimi; esso si focalizza principalmente, e in via preliminare, sull’identità e su come perseguire in modo efficace una realizzazione e uno sviluppo personali che diano senso alla propria vita di persona malata.  Sono quindi gli aspetti esistenziali che vengono messi al centro di questo intervento, nella convinzione che dare un senso alla propria presenza nel mondo sia esigenza fondamentale di ogni essere umano, ancora più pressante quando la vita è profondamente sconvolta dalla malattia. Questi aspetti talvolta sono considerati erroneamente al di là dell’ambito di competenza dell’intervento psicologico, in quanto filosofici o «spirituali»; al contrario, essi riguardano ogni essere umano e sono al centro del nostro progetto di intervento. In esso, anche l’uso di strategie di promozione dell'autoefficacia viene inserito all’interno della ricerca di nuovi obiettivi significativi, capaci di ridare senso alla propria vita e di renderla degna di essere vissuta.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
I comportamenti tipici delle persone affette dal Disturbo Borderline di Personalità (DBP) e le difficoltà che incontrano i familiari di queste persone
Che cos’è il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è un disturbo psichiatrico grave e persistente, caratterizzato da marcata impulsività, instabilità dell’umore e problemi nei rapporti interpersonali. Il DBP è stato inserito tra i vari disturbi di personalità del DSM-IV-TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quarta edizione rivisitata, 2000), pubblicato dall’Associazione Psichiatrica Americana. Il DBP è stato definito nel DSM-IV-TR come un’ «instabilità pervasiva delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in un’ampia varietà di contesti». Viene identificato sulla base di 5 (o più) criteri, che comprendono: Sforzi disperati di evitare un abbandono reale o immaginario. Un quadro di relazioni interpersonali intense e instabili, caratterizzate dall’alternanza tra i due estremi dell’idealizzazione e della svalutazione. Alterazione dell’identità: immagine di sé marcatamente e persistentemente alterata. Impulsività in almeno due aree potenzialmente dannose per il soggetto (ad esempio: spese compulsive, sesso promiscuo, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate). Ricorrenti comportamenti, gesti e minacce di carattere suicidario o comportamenti automutilanti. Instabilità affettiva dovuta a marcata reattività dell’umore (ad esempio: episodi di intensa disforia episodica, irritabilità o ansia che solitamente durano alcune ore e solo raramente più di alcuni giorni). Sentimenti cronici di vuoto. Rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (ad esempio: frequenti manifestazioni di collera, rabbia costante, ricorrenti scontri fisici). Ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, correlati allo stress. Marsha Linehan, l’ideatrice del più studiato trattamento per il DBP basato su evidenze scientifiche, sa descrivere il disturbo in un modo più comprensibile per le famiglie, rispetto al DSM, con il suo linguaggio ufficiale. Le persone con DBP presentano disregolazione emotiva (scoppi d’ira, instabilità emotiva), disregolazione interpersonale (instabilità delle relazioni volta a evitare l’abbandono), disregolazione comportamentale (minacce di suicidio o comportamenti suicidari), comportamenti impulsivi (comportamenti disfunzionali), disregolazione cognitiva (scarsa capacità di risolvere i problemi, rigidità di pensiero, pensiero del tipo «o bianco o nero», ideazione paranoide e autoreferenzialità) e disregolazione del Sé (confusione del senso di identità, dilagante senso di vuoto e dissociazione). Le difficoltà delle famiglie nell’accettare una diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità Molti familiari sono all’oscuro del fatto che i comportamenti preoccupanti con cui hanno a che fare tutti i giorni sono in realtà sintomi di un disturbo specifico chiamato DBP. Benché la persona che amate presenti evidenti segnali di malessere emotivo, spesso i clinici non informano le famiglie che il loro caro soddisfa i criteri per una diagnosi di DBP, non parlano loro dei sintomi o di quanto il DBP possa incidere sulla loro vita. Le famiglie che lottano contro il DBP si sentono isolate perché il DBP è un disturbo pressoché sconosciuto. La sua diagnosi è confusa, i trattamenti di provata efficacia non sono disponibili ovunque ed è spesso difficile trovare sostegno, materiale informativo e comprensione. Questi fattori possono contribuire a delineare il quadro delle difficoltà che incontrano i familiari nell’accettare una diagnosi di DBP. La percezione generale che si ha oggi del DBP equivale a quella relativa alla comparsa dell’AIDS negli anni Ottanta, prima che questa sindrome venisse accettata e capita. Attualmente, il DBP è considerato un po’ la cenerentola della psicoterapia; nonostante la devastazione che provoca e la sua diffusione, questa patologia riceve pochissimi fondi per la ricerca. I comportamenti tipici delle persone con Disturbo Borderline di Personalità Molte persone con DBP sono grado di controllare i propri comportamenti in situazioni pubbliche o in presenza di sconosciuti. Essi hanno la capacità di apparire calmi e competenti, di agire «come se» stessero «bene», ma non riescono a mantenere questo stesso comportamento anche nel rapporto con i propri familiari. Per le famiglie, questa competenza apparente è uno tra i più frustranti, inquietanti e sconcertanti aspetti del DBP. I familiari che osservano i repentini cambiamenti nei comportamenti del proprio caro, che manifesta forte disregolazione emotiva a casa ma è apparentemente calmo e posato in presenza di altri, cominciano a dubitare delle loro impressioni. Potrebbero credere di aver immaginato l’esistenza di una malattia. In parte è proprio a causa di questa «competenza apparente» che è così difficile accettare o credere che la persona che amate stia veramente provando quell’estrema sofferenza emotiva che caratterizza il DBP. In genere, le capacità intellettive di gran parte di coloro che hanno il DBP non sono interessate dal disturbo. Essi sono perfettamente in grado di laurearsi, diventare medici, avvocati, amministratori delegati e avere carriere di successo. Molti sono dotati di un notevole talento creativo. Ma nonostante le loro competenze intellettive, i sintomi di sofferenza emotiva persistono. Molte delle persone con DBP non hanno mai subito un ricovero, né tentato il suicidio o compiuto atti autolesivi. Tuttavia, nonostante la loro «alta funzionalità» e competenza apparente, spesso le persone con DBP non riescono a raggiungere un alto grado di soddisfazione nella loro vita e sembrano invece vivere un’esistenza di quieta disperazione. È sconcertante vivere con qualcuno che in pubblico si comporta benissimo ed è in grado di assumere condotte altamente funzionali, mentre in famiglia è estremamente irrazionale e violento. In presenza di tale dualità, è difficile continuare a essere di supporto e provare compassione per la persona amata.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Riconoscere e capire le proprie reazioni a un’esperienza traumatica è il primo passo per rielaborare l’accaduto e superarlo, riprendendosi la propria vita
Un trauma è un qualsiasi evento stressante che, nell’esperienza di chi lo vive, stravolge totalmente le normali risorse di fronteggiamento. Come conseguenza la persona vive un senso di impotenza, paura intensa o terrore. Un trauma può riguardare una minaccia reale, o percepita, alla nostra o altrui integrità fisica o anche una minaccia di morte. Spesso un’esperienza traumatica comporta ferite fisiche reali o il decesso. Anche l’essere stati testimoni di un evento traumatico accaduto a un’altra persona può portare a reazioni traumatiche in colui che ha assistito. Poiché non possiamo prepararci prima, dobbiamo cercare di capire il trauma dopo che è successo. Gli eventi traumatici fanno provare sensazioni molto diverse da qualsiasi altra cosa possiamo aver provato nel corso della vita, perciò è probabile che siano un’esperienza totalmente nuova, tanto più che non è in alcun modo possibile prepararsi ad essa. È quindi normale sentirsi confusi e non comprendere i cambiamenti che sono avvenuti così improvvisamente; spesso le persone vittime di un trauma dicono di non riconoscersi più, perché si sentono completamente diverse. Non riescono a spiegarsi le emozioni che ora provano, i loro comportamenti e anche i diversi pensieri che possono avere. Non capendo i cambiamenti accaduti in seguito al trauma, le persone spesso credono di essere responsabili delle loro reazioni e di dover fare qualcosa per affrontarle. Anche altri vicini a loro, come il partner, i figli, i genitori, i parenti oppure i colleghi di lavoro, possono notare questi mutamenti e talora esserne infastiditi fino al punto di colpevolizzare la vittima dell’incidente o del trauma perché «non riesce a tirarsi su e a tornare com’era prima»! Questo può far sentire ancora più sconvolta la persona che ha vissuto il trauma, che penserà di non avere alcun diritto di sentirsi così, che è tutta colpa sua, e che avrebbe dovuto fare qualcosa per evitare di cambiare e di reagire come sta facendo. Tuttavia, proprio per la natura di un trauma, le reazioni ad esso sono esperienze che possono essere elaborate e comprese soltanto dopo che l’evento è successo. Non c’è nulla che avresti potuto fare prima per prevenire le tue reazioni al trauma. Non è colpa tua! Ora comunque, dopo il trauma, può essere molto utile comprendere come hai reagito e come esso ti ha danneggiato, così da poter elaborare tale esperienza, darle un senso e adattare la tua vita conseguentemente. Non ci potrà essere una guarigione completa fino a quando non avrai trovato un modo per capire la tua esperienza traumatica. «Comprendere» non significa necessariamente trovare le risposte a tutte le domande che il trauma può averti suscitato: significa piuttosto trovare un modo per «integrare» l’esperienza traumatica nella tua vita. Lo scopo è che tu senta di poter riavere una vita piena nonostante il trauma! Comprendere il trauma vuol dire riguadagnare il controllo sulla tua vita malgrado il trauma e i cambiamenti che ha comportato! La piena guarigione implica la capacità di costruire un nuovo modello di vita, un modello che includerà l’esperienza del trauma. Questo ti permetterà di continuare la tua vita ritrovando in essa senso e obiettivi. Per la maggior parte delle persone, questo processo di guarigione implica un periodo di scombussolamento, di disorientamento e di irrequietezza. La durata e l’intensità di questo periodo variano da persona a persona, ma molte delle reazioni che avrai durante questo processo sono comuni e sono state vissute da altri che hanno avuto la tua stessa esperienza.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
Chi, dopo una diagnosi di demenza, ne sta vivendo le prime fasi, ha bisogno di supporto per comprendere meglio la sua condizione e affrontarla con maggiore autoefficacia. Ecco che cosa può essere di aiuto in queste situazioni
Crediamo che spesso siano le emozioni che circondano la demenza a far sì che parlarne sia difficile. Le persone potrebbero essere preoccupate per il futuro, arrabbiate e frustrate perché perdono la memoria o in lutto per quello che è ormai al di fuori della loro portata. Parlare della propria diagnosi di demenza risulta spesso difficile per ragioni ben comprensibili. Innanzitutto, bisogna considerare che ricevere una diagnosi di demenza fa paura. La demenza è una malattia progressiva che non può essere curata e che comporta la perdita graduale di molte delle capacità che definiscono la persona, rendendola sempre più dipendente dagli altri. Non sorprende quindi che le persone siano spaventate da quello che le aspetta. Spesso però le persone hanno delle misconcezioni e credono, ad esempio, che peggioreranno rapidamente o che non potranno più avere una qualche qualità della vita. In secondo luogo, occorre tener presente che spesso c’è uno stigma per la demenza. È uno dei principali fattori che impedisce di parlare dei problemi di memoria e spesso anche di ricevere una diagnosi e il supporto che questa implica. Una delle reazioni più comuni allo stigma è preferire di non parlare dei propri problemi. Spesso è difficile per i familiari e gli amici, che pure cercano di adattarsi alla malattia essi stessi, sapere come fornire il supporto emotivo necessario. Il supporto emotivo è tuttavia molto importante: può aiutare la persona a parlare più apertamente della sua malattia e quindi a adattarsi alla sua condizione. Il supporto deve però essere fornito con tempi adeguati alla persona, che sia subito dopo diagnosi o più avanti, quando si sente pronta. Idealmente, il supporto andrebbe fornito anche ai suoi familiari o ad altre persone coinvolte da vicino, sia per aiutarli a adattarsi sia per favorire la comunicazione tra loro e la persona con demenza, a livello di coppia o di famiglia. È importante che le persone con diagnosi di demenza abbiano l’opportunità di conoscere meglio la propria malattia, se lo desiderano. Questo però può essere difficile, proprio perché la demenza è una malattia che fa paura. Per molte persone, un corso che offre supporto in un setting sicuro e con un facilitatore competente, può permettere di incontrare altri che stanno attraversando le loro stesse esperienze e ridurre in parte la paura riguardo alla demenza. Il gruppo offre inoltre l’occasione di imparare e aiutarsi a vicenda.
Leggi di più
;