IT
I mini gialli dei dettati 2
Carrello
Spedizioni veloci
Pagamenti sicuri
Totale:

Il tuo carrello è vuoto

|*** Libro Quantità:
Articoli e appuntamenti suggeriti

Tematica (1)
Argomento
Utile in caso di
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Non vi è alcun filtro disponibile, allarga la tua ricerca per ottenere più risultati
Non vi è alcun filtro disponibile, allarga la tua ricerca per ottenere più risultati
Filtra
Filtra per
Tematica (1)
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Informazione obbligatoria
Argomento
Utile in caso di
Risultati trovati: 136
Search-ME - Erickson 1 Lavoro sociale
L’importanza di saper realizzare cambiamenti di emergenza ed evolutivi
Il lavoro sociale ha come finalità la realizzazione di cambiamenti. Chi opera nel lavoro sociale deve tener conto della necessità di cambiamenti rapidi, e della necessità di cambiamenti evolutivi lenti. I primi riguardano esseri umani che devono salvare la loro vita. Chi sta affogando ha bisogno di essere portato in salvo al più presto. Alle spalle del salvataggio c’è un’organizzazione dei salvataggi. Chi opera può trovarsi imbrigliato, intrappolato, nell’organizzazione che potrebbe non essere adeguata alle esigenze dei tempi, dovendo a sua volta tener conto di un’impalcatura di regole e di una normativa un po’ polverosa. Per questo diciamo che chi opera nel lavoro sociale deve essere un equilibrista: deve mantenere un equilibrio, anche caratteriale, fra due tipi di cambiamento a cui il suo operare può e deve contribuire. È l’equilibrio professionale. Il tempo del cambiamento del salvataggio sembrerebbe essere solo e unicamente quello dell’immediatezza. È davvero così? Non sempre. Chi opera nel lavoro sociale con un ruolo professionale deve tener conto dell’apparato istituzionale. Non deve usare solo l’acceleratore, ma anche le diverse marce dell’auto, e quindi anche il freno e la frizione. Senza dimenticare il volante e le segnalazioni luminose. Per accelerare, a volta è bene rallentare. L’apparato complesso che nella nostra metafora è l’automobile ha bisogno di cambiare evolvendo. Anche chi sta affogando dovrebbe cambiare evolvendo, per non ritrovarsi nelle condizioni che portavano all’annegamento. I due cambiamenti, quello dell’immediatezza e quello dell’evoluzione, devono contaminarsi. Il primo permette l’altro. Il primo riesce meglio avendo fiducia nell’altro. E contribuendo alla sua realizzazione: alla fiducia va aggiunta la capacità di attendere, la pazienza. Evolviamo lentamente e cambiamo profondamente se non ci accontentiamo della sopravvivenza immediata. L’evoluzione deve procedere come fa chi si arrampica in montagna, facendo roccia. Deve sentirsi quadrupede, e muovere un piede o una mano solo avendo le altre tre membra ben salde. Il cambiamento di chi fa roccia fa un uso prudente, parsimonioso, dell’immediatezza. Deve essere un’immediatezza ponderata. Sembra un paradosso. È il paradosso in cui vive e può svilupparsi il lavoro sociale: chi ha un ruolo professionale deve farsi carico del doppio cambiamento, quello del pronto soccorso e quello dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. L’efficienza e l’efficacia dell’immediatezza del pronto soccorso va documentata in modo da favorire il cambiamento evolutivo dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. È una tappa di percorso delicata e insidiosa. L’apparato istituzionale, vedendo efficienza ed efficacia, potrebbe ritenere che non ci sia bisogno di alcun cambiamento. È così. Il cambiamento evolutivo è sorprendente a posteriori. Nel suo svolgimento è inavvertito. Chi ha un ruolo professionale dovrebbe stare nel tempo dell’immediatezza e in quello del cambiamento evolutivo. Evitando di scegliere l’uno o l’altro. L’uno e l’altro. Meglio: uno è nell’altro. Non è un compito facile. Non si impara in una formazione formale. È una pratica, una capacità, che nella nostra cultura si è sovente nascosta nelle donne. Consiste in quelle pratiche di routine che sembrano sempre uguali, ma coinvolgono gradualmente la partecipazione attiva dell’altro, come ad esempio un essere umano che sta crescendo. Aiutano e permettono un cambiamento evolutivo grazie alla sicurezza fornita da gesti, orari, suoni e parole, che sembrano sempre uguali. I “quadri” dell’apparato istituzionale possono assumere queste capacità? La risposta non dovrebbe ridursi alla scelta fra il sì e il no. Siamo accecati dallo stereotipo che ci fa vedere in chi dirige un guardiano inflessibile, e quindi un po’ rigido, dell’ordine stabilito una volta per tutte, senza fantasie e avventure. Ogni stereotipo contiene qualche verità e nello stesso tempo impedisce di vedere qualche verità. Nel lavoro sociale è importante allenarsi al discernimento, per non essere accecati dagli stereotipi. Essendo il lavoro sociale un lavoro di filiera, il discernimento è facilitato e reso possibile. Una filiera è composta da diverse produzioni che si collegano l’una all’altra, trasmettendosi ciascuno la propria produzione. Questa viene accolta e integrata, a volte con apposito trattamento, in una nuova produzione a sua volta trasmessa. La suddivisione del tempo, nella filiera, diventa uno strumento fondamentale per non polarizzare la propria vita in “sconfitto”/“vincente”. C’è chi vive il momento di sconfitta, e chi, in quello stesso momento, è vincente. In un altro momento i ruoli potrebbero essersi scambiati le parti. La suddivisione del tempo nella filiera non inchioda nessuno a un momento. Nella notte dei tempi, e non solo, gli esseri umani hanno alzato lo sguardo. Di giorno si sono orientati con il sole. Di notte con le stelle. Gli esseri umani, essendo nomadi imperfetti e operosi, si sono organizzati guardando in alto. Allargando l’orizzonte e cercando un punto di riferimento alto, in cui poter riporre fiducia. Può sembrare strano e paradossale: questa organizzazione spaziale è organizzazione mentale. La mente di un essere umano ha sviluppato al suo interno un’organizzazione più ampia e complessa rispetto agli altri esseri viventi. Per riconoscere, occorre ricordare. E possiamo farlo in maniera individuale e solitaria, con scarsi risultati rispetto a nostro costante bisogno di appartenenza. Gli esseri umani sono nomadi operosi sociali. Dobbiamo, quindi, avere memoria aperta alla condivisione. È una memoria nomade. Deve avere un bagaglio di conoscenze e sapere utilizzare quelle adatte alla specificità del contesto. Senza la presunzione di possedere tutte le conoscenze utili. L’incontro con l’altro è apertura alle sue conoscenze. Banalizzando, se andiamo in un posto e cerchiamo una certa strada, domandiamo a chi ci sembra del posto. Nelle pieghe della storia dell’umanità si nascondono quegli esploratori di terre che non conoscevano e che visitavano con bagaglio leggero e la speranza di trovare una popolazione autoctona a cui poter domandare. Chi conosceva quel posto poteva dire come difendersi da pericoli, come affrontare il freddo e il caldo, come nutrirsi, e forse poteva offrire un riparo per la notte. In cambio, l’autoctono poteva ricevere notizie. Tra le parti si sviluppava un insegnamento linguistico reciproco, aiutato da gesti, oggetti, segnali che diventavano condivisi. È il cambiamento evolutivo, bellezza!
Leggi di più
Search-ME - Erickson 2 Lavoro sociale
L’invecchiamento delle persone con disabilità intellettive pone nuove sfide al Lavoro Sociale
Negli ultimi decenni le condizioni di vita nella nostra società sono notevolmente migliorate, producendo un aumento delle aspettative di vita, con un conseguente innalzamento dell’età media della popolazione. Questo fenomeno di progressivo invecchiamento rappresenta uno dei temi più dibattuti sul futuro dell’Europa, e ci costringe a interrogarci anche sul futuro delle persone con disabilità. Oggi, infatti, siamo di fronte alla prima generazione di persone con disabilità che vive a lungo: basti pensare per esempio che negli anni Trenta del secolo scorso la sindrome di Down era considerata una condizione pediatrica e la speranza di vita non arrivava alla maggiore età. Questa realtà ci mette di fronte a nuovi cambiamenti e a questioni che fino a pochi decenni fa non venivano nemmeno prese in considerazione. Spesso le istituzioni sembrano fare fatica a gestire queste situazioni, sia a livello di singolo caso (l’invecchiamento porta con sé deficit che si aggiungono a precedenti disturbi del neurosviluppo, con evidenti ripercussioni sulla persona) e nel macrocontesto (le nuove sfide poste al Lavoro Sociale e ai suoi operatori, ma anche agli stessi familiari).  Per fronteggiare il problema dell’invecchiamento delle persone con disabilità intellettiva servono strumenti che aiutino a distinguere la condizione di deficit legata a una sindrome del neurosviluppo da quella determinata dall’avanzamento nell’età.  Questo richiede un diverso approccio, culturale, sociale, ma anche professionale, che ponga al centro una riflessione globale sul fenomeno, che metta in primo piano i diritti delle persone con disabilità intellettive e che consideri la qualità di vita degli individui come obiettivo principale di qualsiasi intervento. Sappiamo che, con il procedere dell’età, alcune funzioni tendono a declinare o a rallentare, che altre rimangono inalterate e che questi cambiamenti sono naturali. Riconoscere questo processo nelle persone con disabilità intellettiva pone nuove sfide ai familiari, ai servizi e alle persone stesse che invecchiano. Diventa quindi fondamentale valutare correttamente la persona, il suo bisogno di sostegno, il livello di stimolazione più adeguato al momento della vita in cui si trova. Esistono strumenti provenienti dalla letteratura internazionale che permettono di effettuare lo screening per la demenza anche in persone con disabilità intellettiva: un passo importantissimo, che diventerebbe ancor più fondamentale se si lavorasse in parallelo sull’inclusione delle persone con disturbi del neurosviluppo nel Piano nazionale demenze, come raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità e come già è stato fatto negli Stati Uniti e alcuni Paesi europei. Un altro aspetto da sottolineare è che in Italia quasi il 50% delle persone con disabilità intellettiva vicina all’età anziana vive in casa e l’aumento delle patologie tipiche dell’invecchiamento aumenta le difficoltà che i carer e gli stessi adulti con questa forma di disabilità devono affrontare. Diventano cruciali interventi che permettano un adeguato contesto ambientale e relazionale, affinché la persona sia accompagnata a vivere in modo dignitoso questa condizione.   L’articolo completo a cura di Tiziano Gomiero, Coordinatore Project DAD di ANFFAS Trentino è disponibile sul numero di agosto 2019 della rivista Erickson Lavoro Sociale.
Leggi di più
Search-ME - Erickson 3 Lavoro sociale
Per mettere in campo interventi efficaci è necessario l'impegno di tutte le figure che lavorano in questo ambito.
Quando si parla di violenza maschile contro le donne si sentono spesso anche altre espressioni, come violenza domestica e violenza di genere. L’espressione violenza domestica fa riferimento al fatto che, secondo dati a livello globale, le donne subiscono abusi soprattutto tra le mura di casa, ossia in quello che dovrebbe essere il più protettivo e sicuro dei contesti. La violenza di genere fa riferimento alle motivazioni culturali e alle dinamiche relazionali che sono alla base della violenza maschile contro le donne.   L’inclusione del concetto di genere nelle definizioni internazionali di violenza contro le donne è stata una conquista storica. Nella Convenzione di Istanbul – ratificata dall’Italia nel 2013 – si definisce così la violenza contro le donne: «…una violazione dei diritti umani e una forma di discri­minazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono su­scettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata». QUALCHE DATO SUL FENOMENO Nel mondo, secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, 1 donna su 3 (il 35% delle donne della popolazione mondiale) ha subìto nel corso della vita una forma di violenza da parte di un uomo. Un femminicidio su 4 è compiuto dal partner.    In Italia 6 milioni 788 mila donne nel corso della propria vita hanno subìto violenza fisica o sessuale da parte di un uomo (fonte Istat). Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Nove volte su 10 il crimine non viene denunciato e una donna su 4 non parla con nessuno della violenza subita. Sono 14 mila le donne che ogni anno si rivolgono ai centri antiviolenza italiani: 7 su 10 sono cittadine italiane, così come italiani sono la maggioranza degli aggressori (72%). (Fonte: D.i.Re, www.direcontrolaviolenza.it)   Ogni tre giorni viene uccisa una donna. Secondo il rapporto Eures, nel 2018  sono state uccise 130 donne all’anno. In 2 casi su 3 l’assassino è il partner o l’ex.   VIOLENZA NON SOLO FISICA A differenza di quanto il senso comune suggerisce, non è affatto necessario aggredire il corpo per mantenere qualcuno in uno stato di soggezione. In una relazione caratterizzata dal controllo, la violenza fisica ha un ruolo decisamente marginale, mentre centrali sono strategie più sottili, come, ad esempio, le ingerenze sul modo in cui la vittima affronta la propria vita quotidiana, l’isolamento o altre forme di manipolazione affettiva che includono l’uso di una comunicazione seduttiva e ambigua e l’induzione di idee di incapacità.    Le micro-violenze preparano alle forme più esplicite di abuso. Le percosse compaiono solo se e quando il terreno è stato preparato e rappresentano un’opzione che può anche rivelarsi superflua.   Quel che fa di un legame una relazione d’abuso non è dunque l’alta frequenza di numerosi e variegati comportamenti violenti o la presenza di azioni particolarmente efferate, ma una dinamica di pretesa e di controllo potenzialmente in grado di condizionare la vita della vittima e di danneggiarne profondamente l’autostima.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Alcuni principi guida utili a livello di prevenzione e per migliorare la qualità di vita di chi ha avuto un incidente sul lavoro
Il sistema di sicurezza sul e del lavoro deve includere chi lavora. Chi opera, rischia. Il rischio zero è un obiettivo che dovrebbe essere sostituito dallo “zero incidenti”. Quotidianamente, giornali e televisioni informano di incidenti, sovente mortali, sul lavoro. Suggeriscono maggiori controlli, aumentando il numero degli ispettori. Riteniamo che l’obiettivo “zero incidenti” meriti un’altra logica. Le storie delle vite di chi ha avuto un incidente sul lavoropossono essere un deposito di conoscenze da intrecciare con altre conoscenze. Può accadere che chi ha le altre conoscenze ritenga invece di avere la conoscenza, tutta. Di conseguenza, le conoscenze dei contesti concreti sono azzerate. Chi le ha si convince di avere conoscenze inutili, senza alcun valore. Se siamo convinti che le cose siano così, andiamo pure avanti. Se invece abbiamo anche solo un piccolo dubbio, interroghiamoci e interroghiamo le conoscenze dei contesti concreti. Ne potrebbero derivare informazioni e conoscenze per migliorare la qualità degli ambienti di lavoro; e la qualità della vita di chi è stato protagonista di un incidente sul lavoro.Migliorare la qualità degli ambienti di lavoro: prevenzione. Migliorare la qualità della vita di chi ha un incidente sul lavoro: cura. Dal dialogo di conoscenze possono derivare alcuni principi-guida: Combattere la propria inerzia entrando in contatto con altre situazioni. Attivare le reti di scambio dei “tesori nascosti in casa”, cercando l’elemento che permette di evitare la perdita di identità, di riconoscimento, di connessioni. E quindi guardare la realtà con il gusto dell’impegno, della comprensione profonda, vivendo lo scambio non come un dovere che si assolve nel tempo libero ma come impegno professionale. Fare in modo che i punti precedenti non siano risolti sul piano personale – del singolo – ma abbiano un riscontro reale e percepibile nell’organizzazione istituzionale. Riconoscendo l’importanza dei mediatori, individuare i mediatori efficaci in funzione della prospettiva inclusiva. Individuando le buone prassi nella società complessa, rendere leggibili le tracce – tracciabilità - non facendo confusione. Il dialogo fra conoscenze diverse. La mappatura dei rischi. Il dialogo fra conoscenze diverse, come quelle fra chi ha vissuto un’esperienza traumatica e quella di chi ha studiato l’organizzazione del trattamento post traumatico.  Il linguaggio, dialogando, cambia, attraversando fasi di salutare incertezza. Il vocabolario di chi è stato vittima esce dal vittimismo. Quello di chi è attivo nell’organizzazione del trattamento post traumatico esce dal tecnicismo. È possibile che entrambe abbandonino il gergo come barriera protettiva.Il linguaggio può aprire delle finestre che permettono di vedere un paesaggio prima sconosciuto. Percorre la strada dell’assunzione di responsabilità. Ciascuno deve assumere la responsabilità, e quindi la conoscenza e la coscienza, dei rischi che corre.Chi inciampa e rischia di cadere si appoggia a quello che trova a disposizione. Coinvolgiamo chi ha un bisogno nella realizzazione del progetto della mappatura dei rischi. La mappa dei rischi può essere realizzata individuando, nei percorsi abituali di ciascuno, le zone e gli orari in cui possono più facilmente essere presenti dei pericoli. Un angolo di strada alle 10 del mattino può essere tranquillo, e dieci ore dopo no. La mappa dei rischi è completabile e integrabile con l’aggiunta di nuovi percorsi, e con l’inserimento delle terre di mezzo. Ha una caratteristica fortemente personalizzata. Non riguarda rischi generali, ma i rischi che corre una singola persona, con le sue originalità, i suoi tempi di reazione, i suoi ritmi che producono il suo affaticamento e la sua capacità di organizzarsi. Ha inizio dall’esame dettagliato compiuto da una persona di una sua giornata qualunque. Quali sono i momenti e i luoghi, gli spazi, le funzioni, che comportano dei rischi? Dopo aver risposto, costruendo una vera e propria mappa, alla domanda, proviamo, magari avendone fatto delle copie, a variare i giorni della settimana, le stagioni dell’anno … scoprendo che il tal giorno, grazie alla presenza della tal persona, i rischi cambiano. Cambiano anche secondo che faccia freddo o caldo. Ciascuno ha i suoi gusti. E ciascuno ha i suoi rischi. Che possono essere affrontati ciascuno a suo modo. Ciascuno avendo le sue terre di mezzo, che non hanno niente a che fare, probabilmente, con le terre di mezzo di Tolkien. Riferimenti bibliografici Cfr. D. CECCARELLI E. COCEVER (2019), Storie sulla pelle. Vivere (e raccontarsi dopo un infortunio, Erickson, Trento. Cfr. D. CECCARELLI E. COCEVER (2019), Storie sulla pelle. Vivere (e raccontarsi dopo un infortunio, Erickson, Trento. Cfr. DAMASIO A.R. (1995 ; 1994), L’erreur de Descartes. La raison des émotions, Ed. O. Jacob, Paris. L’edizione italiana è presso l’editore Adelphi. La mappa dei rischi è frutto dell’impegno di Ivar Oddone (1923-2011). L’INAIL, nel 2006, ha ristampato la dispensa sindacale L’ambiente di lavoro, da lui curata, uscita per la prima volta nel 1969. Ivar Oddone, medico del lavoro e docente universitario a Torino, riteneva di avere conoscenze mediche che dovevano incontrare le conoscenze empiriche dei singoli operai. La mappa dei rischi era uno dei modi di rappresentare le conoscenze.
Leggi di più
Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Natura e oggetto del lavoro sociale, una professione diversa da tutte le altre proprio per la “materia” che tratta
Un confronto tra professioni mediche e professioni sociali Il lavoro sociale, oltre a essere definito analiticamente nella propria suddivisione interna, può anche essere compreso per «contrapposizione» esterna. In particolare, si definisce in contrasto all’altra importante, e forse più popolare, area di aiuto, che è quella sanitaria (o clinica). Che cosa distingue le sopracitate professioni sociali, prese nel loro insieme, dalle professioni mediche tradizionali risulta intuitivamente evidente. Ma non altrettanto chiara è la distinzione rispetto a professioni come la psicologia clinica e la psicoterapia, le quali aderiscono al modello medico ma si occupano della riparazione di disagi psicologici e comportamentali apparentemente simili, se non identici, a quelli di cui si occupa il lavoro sociale. La cura di un malato di mente può essere responsabilità di operatori sanitari (il medico psichiatra, l’infermiere, lo psicologo esperto di riabilitazione comportamentale, ecc.) oppure di operatori sociali, come l’assistente sociale o l’educatore professionale. E quindi dov’è la differenza? Volendo abbozzare un minimo di ragionamento epistemologico ci si dovrebbe chiedere: qual è il differente oggetto? Due diverse accezioni del termine “cura” Nel linguaggio anglosassone specializzato, il termine «cura» è espresso in due differenti accezioni, a seconda che si voglia indicare la cura sanitaria o quella sociale. Nel primo caso si usa il vocabolo curing, che significa curare con l’intenzione di guarire. Nel secondo si usa il termine caring, che significa curare con l’intenzione di migliorare la qualità di vita, a prescindere dalla persistenza o meno della patologia (o della sua stessa esistenza ab origine). Lo sforzo di guarire implica sempre la ricerca di una precisa malattia (diagnosi) e di qui la ricerca (o la semplice attivazione) di un preciso corrispondente procedimento riparativo (trattamento). Lo schema diagnosi/trattamento caratterizza il modello medico, un filtro logico che, qualora trasferito nel sociale, semplifica in genere la complessità delle situazioni di disagio sociale talora al punto da oscurarle. Spesso le professioni sociali hanno fatto proprio tale incongruo modello per una sorta di attrazione inconscia, sostenuta in parte dalla maggiore semplicità cognitiva di tale approccio e in parte dal suo più alto status intrinseco. Al cuore del lavoro sociale: l’azione coordinata di più soggetti per una finalità condivisa Il lavoro sociale è un modo di guardare ai problemi sociali senza il filtro della patologia. Non si nega che molte manifestazioni di disagio sociale siano connesse a (o causate da) qualche evidente anomalia strutturale formalmente diagnosticabile, cioè qualche malattia, come ad esempio una psicosi, o una dipendenza psicofisica, o un deficit sensoriale, ecc. Ma anche in tali casi, quando la patologia «c’è» senza dubbio — diciamo così per semplificare, chiedendo venia ai costruzionisti —, l’operatore sociale, pur tenendone conto, la «bypassa» con la mente e mette a fuoco una realtà sovrastante di altro ordine: appunto il sociale di cui parliamo. L’operatore sociale ha il dovere di mettere a fuoco il sociale, altrimenti non si capisce perché possieda proprio quel nome preciso, e non un altro qualsiasi. Sfortunatamente si tratta di una percezione non proprio intuitiva, ma che non richiede tuttavia un’eccessiva propensione analitica, solo un minimo di attenzione in più. Il concetto che ci aiuta in tale percezione è quello di «azione intersoggettiva dotata di senso», caro ai fenomenologi. Il sociale di cui parliamo può essere appunto descritto come azione finalizzata di più persone interconnesse nel perseguimento di scopi condivisi, considerati dagli agenti degni di essere raggiunti in vista del loro stesso benessere. Entro questa cornice concettuale potremmo osservare situazioni correlate a malattie sanitarie anche gravi (per esempio, una malattia di Alzheimer) che tuttavia non costituiscono problema dal punto di vista specifico del lavoro sociale, qualora la capacità di azione dei soggetti coinvolti in quella specifica contingenza (il malato stesso per qualche parte, alcuni familiari o amici o alcuni specialisti professionali, ecc.) risulti adeguata a un fronteggiamento sufficiente della stessa, secondo il loro stesso giudizio. Viceversa è possibile individuare situazioni in cui non vi è alcuna malattia riscontrabile entro i parametri della sanità, e tuttavia è ben evidente anche all’occhio del profano una disfunzione sociale eclatante, attribuibile appunto alla carente capacità di azione dei soggetti coinvolti. Tutti gli agenti potrebbero essere abili, per così dire, sul piano della struttura psicofisica sottostante, rimanendo tuttavia deficitaria l’azione «sensata» emergente. È questo il caso ad esempio di situazioni di devianza, come quella di un minore non gestito dalle sue relazioni di vita che entra nel circuito penale; oppure di situazioni di conflitto relazionale all’interno della famiglia; o ancora, considerando realtà a valenza collettiva, situazioni di deprivazione socioculturale in ambienti svantaggiati, e così via. Il lavoro dei professionisti del sociale tra empowerment e rel-azione Il lavoro sociale come disciplina/prassi intenzionale studia e sostiene la capacità di azione tecnica dei professionisti del sociale. Questa azione si esplica tuttavia nel sostenere e potenziare («empower») la capacità di azione naturale delle persone direttamente o indirettamente interessate allo stesso benessere di cui il professionista, per dovere d’ufficio, deve occuparsi. Di azione si tratta quando parliamo di ciò che fa il professionista e di azione si tratta quando ci riferiamo alle persone coinvolte, sue interlocutrici. È evidente allora che il lavoro sociale, occupandosi di come un’azione possa stimolare e orientare altre azioni, sia nella sua essenza più fine rel-azione sociale. La relazione richiama l’idea della circolarità e della reciprocità degli influssi in entrambe le parti coinvolte, parti che, quando si parla di relazioni sociali, sono appunto soggetti umani agenti. Le distinzioni legate ai differenti status/ruoli in capo ai differenti soggetti non vengono del tutto superate, ma si sfumano. Questa teoria ha importanti implicazioni sul piano operativo, al punto da staccare il lavoro sociale dalla base dei mestieri tradizionali, e farne un corpus a sé. Tutte le professioni conosciute hanno una caratura tecnologica, avendo esse un oggetto statico che attira la manipolazione esterna dell’operatore esperto. Il lavoro sociale non è una tecnologia perché non ha oggetto, o meglio ha un oggetto epistemologico che è l’esatto contrario di ciò che tale termine lascia intendere. L’oggetto del lavoro sociale è una pluralità di soggetti (una rete) e quindi di autonome fonti di azione intersecantisi. In concreto, ciò vuole dire che gli utenti «non esistono» essendo essi, quando li si vede come agenti, degli «operatori» di benessere in qualche grado (che sfortunatamente a volte è un grado basso, ma mai completamente nullo). L’utente e le persone che si trovano in relazione con lui sono coterapeuti rispetto all’operatore che ufficialmente avrebbe in mano l’aiuto. A sua volta l’operatore risulta «coutente», cioè bisognoso di integrazioni esterne rispetto alla sua capacità di azione, la quale è sempre strutturalmente inadatta a perseguire scopi o a sviluppare progetti di azione per via autoreferenziale. Quando c’è di mezzo il benessere intersoggettivo, i suddetti scopi o progetti non possono mai essere del tutto coincidenti con quelli di un singolo individuo, nemmeno se questo è in una posizione di potere tale da farlo sentire autorizzato a pensare in tal modo. Quando gli scopi non sono condivisi, quando il potere d’azione (empowerment) non è ripartito tra gli agenti, i dinamismi relazionali finalizzati al bene comune si inceppano e lasciano campo aperto ai problemi sociali di vario ordine.
Leggi di più
Search-ME - Erickson 4 Lavoro sociale
Un nuovo approccio alla demenza
Maria Montessori e i suoi metodi educativi sono di solito associati all’infanzia e, in effetti, la prima scuola Montessori a Roma era dedicata ai bambini in età prescolare. Tuttavia, nel corso del tempo, i suoi metodi sono stati applicati a una fascia di età che va dai bambini nella prima infanzia (18 mesi) agli adolescenti (fino ai 18 anni). Mai valori, le tecniche e il sapere di Maria Montessori sono di eccezionale rilevanza anche per il trattamento delle persone con demenza.   Una domanda che spesso sorge quando viene discusso il binomio Metodo Montessori e Alzheimer è: «Significa che trattate gli anziani come bambini?». La risposta è, ovviamente: «No!». Non si possono trattare gli anziani con rispetto, dignità e uguaglianza se li si considera bambini. Questi valori di Maria Montessori ci guidano costantemente. Lei trattava i bambini come persone, vedendo ognuno di essi come un essere unico e speciale. E questo è il modo in cui dobbiamo trattare le persone con demenza: riconoscendo a ognuna di loro origini, contesto, interessi e capacità peculiari.   Diversi elementi chiave del Metodo Montessori possono applicarsi direttamente alla cura della demenza.   Il primo è che fornire scelte è essenziale. Alle persone con demenza dovrebbe essere data la possibilità di fare scelte nel corso della giornata, e ogni interazione con una persona con demenza è un’opportunità per fornire scelte. Molto importante è anche dimostrare sempre cosa volete che una persona faccia prima di chiederle di farlo. Questo è un punto semplice ma di eccezionale importanza. Spiegare solo a voce a una persona — con o senza demenza — come fare qualcosa è un cattivo modo di insegnare e spesso porta a fallimento e frustrazione. Come «un’immagine vale mille parole», così una dimostrazione ne vale diecimila. Inoltre, dobbiamo essere sicuri che la persona abbia la capacità di fare ciò che le stiamo per chiedere. Spesso, ciò significa modificare il compito o i materiali per adattarsi a problemi fisici e/o cognitivi.   Un altro elemento chiave del Metodo Montessori è conoscere l’individuo. Quali sono i punti di forza di una persona, le sue preferenze e il suo contesto? Di cosa ha paura? Quali valori rispetta?   Meglio conosciamo e capiamo una persona, meglio siamo in grado di fornire un ambiente e dei compiti che siano coinvolgenti e significativi. Un elemento essenziale di un ambiente adatto per le persone con demenza è che esse devono sentire di appartenere a una comunità e di svolgere al suo interno ruoli significativi.
Leggi di più
;