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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Disabilità
Utilità e applicazioni della «pratica del prestare attenzione»
Che cos’è la mindfulness? La risposta più semplice a questa domanda potrebbe essere: la pratica del prestare attenzione, sapere dov’è e poter scegliere dove dirigerla. Potremmo anche dire che la mindfulness è una forma di «meditazione di consapevolezza» ampiamente praticata da millenni, anche se negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera esplosione dell’interesse e delle ricerche a riguardo. A chi può essere utile? La mindfulness ha molte applicazioni pratiche in cui si dimostra assai utile, compresi i seguenti ambiti: salute mentale: prevenzione delle ricadute nella depressione, ansia, disturbo di panico, stress, regolazione emotiva e promozione dell’intelligenza emotiva, miglioramento della qualità del sonno, disturbi di personalità, dipendenze; neurologico: cambiamenti strutturali e funzioni nel cervello, neurogenesi, miglioramento del funzionamento esecutivo, miglioramento della circolazione sanguigna e possibile prevenzione della demenza; clinico: gestione del dolore, controllo dei sintomi, fronteggiamento di malattie come il cancro, benefici metabolici, alterazioni ormonali e cambiamenti nella funzione e nella riparazione genetica; prestazionale: sport, studio e leadership; spirituale: pace profonda, percezione netta (insight), unità. Come si pratica? La scansione corporea è l’esercizio di consapevolezza più praticato e, in genere, il migliore per cominciare. Consiste nel prendere consapevolezza di ciascuna parte del corpo, partendo dai piedi, e lasciando che l’attenzione resti lì per un po’, percependo tutto quel che c’è da percepire. Altre forme di «meditazione di consapevolezza» includono: l’attenzione al respiro e l’ascolto consapevole. Si può praticare la meditazione di consapevolezza anche con gli altri sensi, compresi il gusto e l’olfatto. Come iniziare? Per chi si accosta alla mindfulness per la prima volta, una buona «dose iniziale» potrebbe essere un esercizio di 5 minuti per due volte al giorno. La durata dell’esercizio può essere portata a 10, poi a 15, poi a 20 fino anche a 30 minuti o più. Per la meditazione raccomandiamo la posizione da seduti, perché in verticale è più difficile addormentarsi. Si può praticare a occhi aperti, ma chiudendoli è più facile far entrare in gioco gli altri sensi, quelli che di solito trascuriamo. Spesso la gente pensa che la mindfulness sia un esercizio di rilassamento poiché, non di rado, quando la si pratica ci si rilassa. Ma in realtà è innanzitutto una pratica di allenamento dell’attenzione, e il rilassamento è più che altro un effetto collaterale. Com’è nata la mindfulness? La pratica della meditazione è stata divulgata per la prima volta in Occidente alla fine degli anni Cinquanta, quando Maharishi Mahesh Yogi introdusse in California la meditazione trascendentale. Nel decennio successivo, Herbert Benson condusse all’Università di Harvard le prime ricerche scientifiche sull’antico fenomeno della meditazione che ora faceva tendenza. Benson capì che la meditazione produce una risposta contraria a quella dello stress e introdusse l’espressione «risposta di rilassamento» nel suo famoso libro sull’argomento, The relaxation response (Benson, 1975).
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Metodo Montessori e anziani fragili Disabilità
Per creare una società veramente su misura di tutte e di tutti è necessario comprendere il valore della parola e usare un linguaggio consapevole
Si può dire: «Ci vediamo domani!» a una persona cieca, oppure: «Andiamo a fare due passi?» rivolgendosi a qualcuno in carrozzina. Si può, anzi si deve dire! Normalizzare significa anche parlare liberamente: modificare il linguaggio o censurarsi se si parla o di una persona con disabilità, o quando questa è comunque presente, sarebbe un «riguardo» discriminatorio. Per non incappare in questo tipo di errore è importante tenere a mente quattro semplici promemoria. #1 – La «persona» prima di tutto La disabilità, di per sé, non esiste. La disabilità nasce dall’interazione con un ambiente sfavorevole, per questo è una «caratteristica» come qualunque altra. Non dobbiamo mai evidenziare la disabilità senza anteporre la persona! Un soggetto, anche se disabile, non è rappresentato dalla sua carrozzina o, in generale, dalle sue difficoltà, ma da un nome: è una persona con emozioni e sentimenti, con un carattere fatto di pregi e difetti che non possono essere ignorati, sostituiti o annullati da una cartella clinica o una certificazione. Quindi è sbagliato dire: un disabile / un handicappato / un sordo / un cieco, ma è corretto dire: una persona con disabilità / una persona cieca o sorda. #2 – La disabilità non è una malattia La disabilità è una «condizione» momentanea durante la quale non riusciamo a fare qualcosa: è superabile con i giusti strumenti o facilitatori, come ad esempio carrozzine, ascensori, computer, servizio di assistenza domiciliare, insegnante di sostegno, contributi, sconti e sovvenzioni... Ciò non significa che si debba negare, sminuire o nascondere le patologie, ma accettare il fatto che esse debbano essere distinte dalla disabilità e trattate in modo individuale: d’altronde ci sono persone disabili che non sono malate e persone malate che non hanno una disabilità! #3 – Vietato il politicamente (s)corretto Usare il termine «diversamente» o la negazione «non» non addolcisce niente né migliora certe condizioni, bensì discrimina ulteriormente la persona interessata, girando intorno a un qualcosa che, così facendo, verrà percepito come un ostacolo da superare o che è meglio ignorare, e non come una caratteristica come qualunque altra. Anziché dire «Diversamente abile» è preferibile «Persona con disabilità», oppure anziché «non vedente», «persona con disabilità visiva». Infine ricordiamoci che le persone adulte con disabilità... sono adulte! Perciò basta con l’infantilizzazione e trattiamo chi abbiamo davanti esattamente come tratteremmo una persona sua coetanea «normodotata». #4 – I «disabili» e i «normodotati» non esistono Chi non ha una disabilità evidente non è detto che non sia una persona con disabilità: in fin dei conti ognuno di noi non sa fare qualcosa o può ritrovarsi in una condizione di svantaggio momentaneo in base al contesto sfavorevole in cui si trova. Usare il termine normale implica che tutti gli altri non lo siano, e quello di «normalità» è un concetto impossibile da definire in senso assoluto. Mettere delle semplici virgolette alla parola «Normodotati» può sembrare cosa da poco, eppure è già sufficiente per far capire che si tratta di un termine approssimativo, tecnicamente scorretto, di circostanza.
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Search-ME - Erickson 2 Disabilità
Le letture consigliate dell’Associazione Italiana Persone Down Onlus
C’è una raccolta di testimonianze che racconta, attraverso la voce dei protagonisti, le piccole-grandi conquiste quotidiane verso l’autonomia. Ci sono le guide pratiche - nate dall’esperienza dei Percorsi di educazione all’autonomia dell’AIPD – nelle quali vengono presentati materiali, attività, esercitazioni per insegnare le abilità fondamentali per l'autonomia ai ragazzi e agli adolescenti con disabilità intellettiva. E ci sono saggi che favoriscono una riflessione più ampia. Sono i 15 libri selezionati dall’Associazione Italiana Persone Down Onlus: testi da non perdere su questo argomento scritti da importanti autori come Anna Contardi, Carlo Scataglini, Martina Fuga, Carlo Lepri, Salvatore Nocera. Libri che possono accompagnare i lettori alla scoperta di ostacoli superati e altri ancora da superare, per continuare la preziosa battaglia per contrastare i pregiudizi nei confronti delle persone con Sindrome di Down portata avanti da quarant’anni a questa parte da AIPD. Scopri i titoli consigliati: .image-carousel-container{ width:60%;} .mondo-erickson .banner-container [class^='banner-lev'] { position: relative; width: 60%; } @media (max-width:767px){ .image-carousel-container{ width:100% !important;} .mondo-erickson .banner-container [class^='banner-lev'] { position: relative; width: 100%; } }
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Search-ME - Erickson 3 Autismo e disabilità
Un’esperienza vissuta a Villa Angaran a Bassano del Grappa, nel lavoro di cura di ragazzi con disabilità
Il contesto in cui sono collocabili quasi tutti i nostri «racconti» è formalmente un Centro diurno che gode dell’opportunità di fare parte di un macrocontesto come quello di Villa Angaran San Giuseppe, situato a pochi passi dal centro storico di Bassano del Grappa. Per raggiungere quest’ultimo è possibile sfruttare un meraviglioso sentiero che costeggia il fiume, immerso per un breve tratto nella natura, percorribile esclusivamente a piedi o in bicicletta. In alcune riunioni d’équipe si è molto discusso sul senso della proposta di qualche operatore di cogliere l’opportunità offerta da quell’angolo di ambiente naturale per far vivere ai nostri ragazzi la Bellezza di quel paesaggio. Il gruppo di operatori si è diviso in due «partiti»: i conservatori e i possibilisti. I primi sostenevano che il parco che circonda la Villa era più che sufficiente per dare un’ottima possibilità a tutti di potersi muovere anche in libertà in quanto privo di pericoli. I possibilisti ritenevano che fosse importante interpretare il concetto di vita attiva allargando i rassicuranti confini del contesto ben conosciuto per far vivere ai ragazzi il territorio circostante. Alla fine ha prevalso la proposta di quest’ultimi ma, e ciò è notevole, non solo con l’accordo di tutti ma anche con la disponibilità alla collaborazione nel gestire i ragazzi che rimanevano al Centro in quanto veniva alterato il rapporto ottimale fra chi restava e chi usciva (un piccolo gruppo, composto da 4 ragazzi, di cui uno in carrozzina, e 3 operatori) per cui in servizio sarebbero rimasti molti meno operatori con un numero maggiore di ragazzi. C’erano comunque da affrontare alcuni problemi non secondari: il rischio di possibili emergenze sanitarie (ad esempio crisi epilettiche) in spazi non immediatamente adiacenti al nostro Centro, la probabilità che i ragazzi potessero arrecare danni a oggetti, ferire se stessi o altre persone o ancora l’ipotesi di dover intervenire per contenere atteggiamenti inusuali attirando sguardi e giudizi di chi potrebbe non comprendere. Il progetto e i relativi rischi, oltre che fra colleghi, sono stati condivisi con i familiari che hanno ben compreso il senso dell’esperienza. È la Bellezza del rischio. Ora questo progetto è diventato di routine. Il piccolo gruppo parte il venerdì mattina, ci si veste se fa freddo e si prepara uno zaino (rosso, sempre lo stesso) contenente, oltre al necessario per le emergenze, pezzi di pane raffermo, un thermos con una bevanda e dei bicchieri. La ritualità della preparazione ha consentito agli ospiti coinvolti, dopo poche uscite, di comprendere anticipatamente cosa sarebbe successo: alla vista dello zaino rosso qualcuno si dirige verso l’armadietto per farsi mettere la giacca, o si avvicina alla porta d’uscita. Il percorso è di circa due chilometri con dei punti fissi in cui ci si ferma — li chiamiamo marcatori emotivi-affettivi — per avere dei riferimenti, un po’ per riposare, un po’ per sentire l’acqua che scorre, per osservare le piante e per incontrare animali (in genere uccelli). Fin da subito gli operatori hanno notato sguardi di interesse nei confronti delle anatre che vivono in quel tratto di fiume. È bellissimo far notare come i cambi di stagione offrano occasioni e sensazioni diverse per i colori, il rumore delle foglie sotto i piedi durante l’autunno, la luce che cambia, i profumi, l’adattare i passi ai ciotoli. Rachel e Stephen Kaplan definiscono tali elementi «fascinazione semplice». Secondo questi studiosi delle preferenze paesaggistiche «l’ambiente naturale consentirebbe di diffondere l’attenzione sullo spazio in modo rilassato e rilassante».
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Search-ME - Erickson 4 Autismo e disabilità
Le persone fragili sono quelle con maggiori difficoltà occupazionali, in particolar modo nei periodi di crisi. Com’è opportuno impostare l’accompagnamento lavorativo per loro?
Per una persona con disabilità, fragile, vulnerabile, svantaggiata, che dir si voglia, a occupabilità complessa, l’inclusione lavorativa e sociale in un ambiente ordinario di lavoro, in azienda profit, in una cooperativa, o in un ente pubblico, è un obiettivo auspicabile ma sempre più difficile da raggiungere. Tra il 70 e l’80% delle persone inoccupate/disoccupate, anche dopo ripetute azioni orientative, formative, di tirocinio e accompagnamento al lavoro non viene assunto e per chi ottiene una occupazione il più delle volte è un part-time, a tempo determinato, per periodi brevi. Il problema si aggrava in periodi di crisi, come il precedente dal 2008 ad oggi e come l’attuale, per emergenza pandemica e concomitante/successiva crisi economica e occupazionale generalizzata, che ci accompagnerà per un lungo arco temporale. In queste critiche circostanze, chi rischia di più, con una permanente estromissione dal mercato del lavoro, sono le situazioni liminali/marginali, ovvero le persone che già in periodi ordinari hanno difficoltà occupazionali per mancanza dei requisiti richiesti dalle aziende. Inoltre, con il cambiamento tecnologico, informatico, robotico dei processi produttivi progressivamente caleranno in quantità e qualità i lavori compatibili per queste persone, verranno generate nuove professioni a più elevata specializzazione, raggiungibili solo da una qualificata minoranza, con un incremento delle persone disoccupate e una maggiore competizione tra coloro che si dovranno contendere decrescenti opportunità e impieghi sempre più degradati, precari, mal retribuiti. Se aumentano i disoccupati e con lo sviluppo tecnologico progressivamente andranno a calare sia il tempo sia le possibilità di lavoro, soprattutto per chi ha una occupabilità complessa, non può essere che sia il vuoto esistenziale, anomico, di perdita di identità, di dignità, di sussistenza del «non lavoro», nella sua accezione negativa, a prevalere. Va allora rivisto e cambiato il «paradigma della centralità del lavoro», risignificando quello che adesso viene considerato «non lavoro». «Risignificare il tempo di non lavoro» per queste persone può volere dire consentire loro di avere una base economica sulla quale fare affidamento per una esistenza dignitosa, promuovendo le stesse persone a coltivare la propria crescita culturale, la propria capacitazione (anche con l’istruzione e la formazione, informale non formale-formale), stimolandole a coinvolgersi in azioni di pubblica utilità, in modo non obbligato, per soggettivo, motivato interesse e impegno socialmente riconosciuto. L’ambito nel quale può avvenire tale conversione di senso, di utilità e di rinascimento sociale, non è il «mercato» né il «profit», che hanno logiche prestazionali, di scambio economico e strumentale, indifferenti alle, quando non espulsive delle, risorse umane non efficienti e convenienti. Non è il «pubblico» che, al di là delle lodevoli «intenzioni equitarie» e di presidio del bene collettivo, non riesce ad accogliere le specificità soggettive con modalità inedite, innovative, personalizzate/individualizzate e si trova in contrazione di risorse, spesso appesantito da logiche burocratiche. Fondamentale invece potrebbe essere la collaborazione del pubblico con il terzo settore. Il terzo settore, infatti, solidale con i più svantaggiati, è l’ambito elettivo più promettente per la conversione auspicata, perché agisce secondo reciprocità, investimento fiduciario, scambio simbolico, nella produzione di beni relazionali e, in prospettiva, con possibilità di impiego retribuito delle persone meno occupabili nel profit tramite l’imprenditoria sociale della economia cosiddetta civile, rappresentata ad esempio dalle cooperative sociali di tipo B (di inserimento lavorativo).
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Search-ME - Erickson 5 Disabilità
L'impegno per gli operatori sociali e la sfida del cambio di paradigma
L’introduzione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006; ratificata in Italia nel 2009) rappresenta il punto di partenza di una svolta importante per gli operatori che lavorano nei servizi dedicati a questa area di intervento. Il cambiamento sotteso alla Convenzione non è solo giuridico, ma anche, e soprattutto, culturale. Diversi autori concordano infatti su come la Convenzione non riconosca nuovi diritti: i diritti umani erano già patrimonio di tutti e di ciascuno prima dell’approvazione di questo atto. Tuttavia, la Convenzione nasce dall’esigenza di ribadire che l’applicazione dei diritti umani vale anche per le persone con disabilità, che non ci sono “deroghe” al riconoscimento di questi diritti legate alla capacità o alla condizione individuale e che questi diritti richiedono un impegno attivo da parte della società e delle istituzioni per essere rispettati e realizzati. Il cambiamento è, quindi, culturale: la Convenzione pone la necessità di riconoscere le persone con disabilità innanzitutto come cittadini. Questo significa ripensare anche l’organizzazione dei servizi per la disabilità in modo radicale: come suggerisce Cecilia Marchisio, i servizi non devono avere lo scopo di vicariare le cure genitoriali per la persona con disabilità quando esse vengono meno - il “dopo di noi” - ma devono essere orientati primariamente a supportare la realizzazione di un progetto di vita della persona con disabilità, che possa comprendere l’abitare, le relazioni sociali e familiari, il lavoro, il tempo libero e tutte le altre sfere di significato di cui si compone la vita di ciascuno di noi. Ciò non è in contrasto con l’erogazione delle prestazioni assistenziali o la necessità di supportare anche le famiglie nel prendersi cura dei loro bambini prima, adulti poi, con una disabilità: tuttavia, è necessario rimettere al centro la persona con disabilità nei percorsi di aiuto. La Convenzione ONU propone un paradigma nuovo, quello dei diritti umani, attraverso il quale rileggere l’esperienza e l’identità delle persone con disabilità e rimodulare il loro ruolo nella società. In questo processo di cambiamento, che vede coinvolte tutte le parti della società, gli operatori sociali si trovano in una posizione privilegiata per favorire dentro le istituzioni e le organizzazioni in cui lavorano questa nuova rappresentazione delle persone con disabilità: non persone che devono essere solo assistite sul piano dei bisogni, ma persone che possono trovare il loro spazio di piena inclusione nella vita sociale, economica e culturale della società, secondo le proprie volontà e desideri. Da un lato, questo vuol dire riconoscere loro la capacità di formulare un progetto per sé, di prendere delle decisioni e rispettare la loro volontà; dall’altro, comporta un’azione attiva di incoraggiamento e di sostegno da parte degli operatori che consenta alle persone, anche se in condizione di fragilità, di esprimere i propri desideri e preferenze e le aspettative sulla propria vita. Il lavoro sociale con le persone con disabilità deve quindi focalizzarsi non solo sul contenuto, cioè le prestazioni e gli interventi, ma anche sul processo, ovvero sull’affiancamento della persona nel progettare la propria vita, leggere i propri bisogni e aspirazioni e costruire possibili strade di risposta. Questo focus sull’accompagnare è tipico del ruolo degli operatori sociali, eppure in questa area di intervento fatica ad essere riconosciuto ed agito da questi ultimi in modo consapevole. Diversi autori individuano l’origine della logica prestazionale dei servizi per la disabilità nell’evoluzione storica di questi ultimi, che si sono strutturati a partire dalla domanda di assistenza delle famiglie e dalla necessità di individuare forme di aiuto alternative all’istituzionalizzazione degli adulti con disabilità. Potremmo dire, quindi, che la sfida del cambio di paradigma per gli operatori sociali non è solo sul cosa, ma anche sul come: è una questione di metodo. Il metodo Relational Social Work incontra l’urgenza imposta dalla Convenzione ONU di rimettere al centro le persone con disabilità nei percorsi di aiuto, per favorire una loro piena partecipazione alle decisioni che riguardano la loro vita. Sul piano metodologico, infatti, il metodo RSW chiede all’operatore di costruire relazioni fondate sulla reciprocità e sulla parità – il come, nelle quali operatori e persone possano equamente contribuire alla definizione della finalità - e dei contenuti degli interventi di aiuto – il cosa, favorendo processi di empowerment. Gli operatori sono quindi chiamati in questa epoca a rendersi parte attiva del processo di cambiamento culturale in atto, a partire dalla pratica quotidiana dell’aiuto nei servizi per le persone con disabilità: non più utenti, ma cittadini titolari di diritti, in primis quello di partecipare e decidere per sé stessi. Alcune letture consigliate Disabilità e società, di Tom Shakespeare: l’autore espone con uno stile denso, ma chiaro, i tratti principali degli approcci sociologici che hanno nel tempo provato a rispondere alla domanda: che cos’è la disabilità? A partire dalla sua formazione accademica e dalla sua stessa esperienza di vita, in quanto persona con disabilità, Shakespeare propone la sua risposta a questo complesso interrogativo, lasciando spazio anche ad alcune importanti riflessioni e sollecitazioni per il lettore sulle più importanti questioni di bioetica attuali. Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva, di Carlo Lepri: in questo testo l’autore racconta le contraddizioni e le sfide che le persone con disabilità intellettiva affrontano nel passaggio dall’età infantile all’età adulta, attraverso un esperto sguardo psicologico e pedagogico sul tema, esemplificato anche con racconti di storie di vita. Il volume aiuta gli operatori a tenere alta l’attenzione sulla disabilità intellettiva e su come poter supportare l’identità adulta delle persone con questo tipo di disabilità. L’autodeterminazione nelle persone con disabilità, di Lucio Cottini: in questo libro gli operatori che lavorano nell’area della disabilità possono trovare strumenti operativi educativi utili per declinare in pratica l’autodeterminazione, valutarla e supportarla anche in presenza di disabilità gravi, a partire da una riflessione critica sul concetto e su quel che contiene. Fondamenti di metodologia relazionale, di Fabio Folgheraiter: l’autore offre una riflessione analitica sul paradigma della cura nel lavoro sociale, per delinearne i tratti distintivi e accompagnare gli operatori sociali a coglierne la logica profonda e i presupposti, per poi illustrarne l’applicazione sul piano della pratica quotidiana dell’aiuto, attraverso la metodologia relazionale di rete.
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