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Search-ME - Erickson 1 Lavoro sociale
L’importanza di saper realizzare cambiamenti di emergenza ed evolutivi
Il lavoro sociale ha come finalità la realizzazione di cambiamenti. Chi opera nel lavoro sociale deve tener conto della necessità di cambiamenti rapidi, e della necessità di cambiamenti evolutivi lenti. I primi riguardano esseri umani che devono salvare la loro vita. Chi sta affogando ha bisogno di essere portato in salvo al più presto. Alle spalle del salvataggio c’è un’organizzazione dei salvataggi. Chi opera può trovarsi imbrigliato, intrappolato, nell’organizzazione che potrebbe non essere adeguata alle esigenze dei tempi, dovendo a sua volta tener conto di un’impalcatura di regole e di una normativa un po’ polverosa. Per questo diciamo che chi opera nel lavoro sociale deve essere un equilibrista: deve mantenere un equilibrio, anche caratteriale, fra due tipi di cambiamento a cui il suo operare può e deve contribuire. È l’equilibrio professionale. Il tempo del cambiamento del salvataggio sembrerebbe essere solo e unicamente quello dell’immediatezza. È davvero così? Non sempre. Chi opera nel lavoro sociale con un ruolo professionale deve tener conto dell’apparato istituzionale. Non deve usare solo l’acceleratore, ma anche le diverse marce dell’auto, e quindi anche il freno e la frizione. Senza dimenticare il volante e le segnalazioni luminose. Per accelerare, a volta è bene rallentare. L’apparato complesso che nella nostra metafora è l’automobile ha bisogno di cambiare evolvendo. Anche chi sta affogando dovrebbe cambiare evolvendo, per non ritrovarsi nelle condizioni che portavano all’annegamento. I due cambiamenti, quello dell’immediatezza e quello dell’evoluzione, devono contaminarsi. Il primo permette l’altro. Il primo riesce meglio avendo fiducia nell’altro. E contribuendo alla sua realizzazione: alla fiducia va aggiunta la capacità di attendere, la pazienza. Evolviamo lentamente e cambiamo profondamente se non ci accontentiamo della sopravvivenza immediata. L’evoluzione deve procedere come fa chi si arrampica in montagna, facendo roccia. Deve sentirsi quadrupede, e muovere un piede o una mano solo avendo le altre tre membra ben salde. Il cambiamento di chi fa roccia fa un uso prudente, parsimonioso, dell’immediatezza. Deve essere un’immediatezza ponderata. Sembra un paradosso. È il paradosso in cui vive e può svilupparsi il lavoro sociale: chi ha un ruolo professionale deve farsi carico del doppio cambiamento, quello del pronto soccorso e quello dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. L’efficienza e l’efficacia dell’immediatezza del pronto soccorso va documentata in modo da favorire il cambiamento evolutivo dell’apparato istituzionale del pronto soccorso. È una tappa di percorso delicata e insidiosa. L’apparato istituzionale, vedendo efficienza ed efficacia, potrebbe ritenere che non ci sia bisogno di alcun cambiamento. È così. Il cambiamento evolutivo è sorprendente a posteriori. Nel suo svolgimento è inavvertito. Chi ha un ruolo professionale dovrebbe stare nel tempo dell’immediatezza e in quello del cambiamento evolutivo. Evitando di scegliere l’uno o l’altro. L’uno e l’altro. Meglio: uno è nell’altro. Non è un compito facile. Non si impara in una formazione formale. È una pratica, una capacità, che nella nostra cultura si è sovente nascosta nelle donne. Consiste in quelle pratiche di routine che sembrano sempre uguali, ma coinvolgono gradualmente la partecipazione attiva dell’altro, come ad esempio un essere umano che sta crescendo. Aiutano e permettono un cambiamento evolutivo grazie alla sicurezza fornita da gesti, orari, suoni e parole, che sembrano sempre uguali. I “quadri” dell’apparato istituzionale possono assumere queste capacità? La risposta non dovrebbe ridursi alla scelta fra il sì e il no. Siamo accecati dallo stereotipo che ci fa vedere in chi dirige un guardiano inflessibile, e quindi un po’ rigido, dell’ordine stabilito una volta per tutte, senza fantasie e avventure. Ogni stereotipo contiene qualche verità e nello stesso tempo impedisce di vedere qualche verità. Nel lavoro sociale è importante allenarsi al discernimento, per non essere accecati dagli stereotipi. Essendo il lavoro sociale un lavoro di filiera, il discernimento è facilitato e reso possibile. Una filiera è composta da diverse produzioni che si collegano l’una all’altra, trasmettendosi ciascuno la propria produzione. Questa viene accolta e integrata, a volte con apposito trattamento, in una nuova produzione a sua volta trasmessa. La suddivisione del tempo, nella filiera, diventa uno strumento fondamentale per non polarizzare la propria vita in “sconfitto”/“vincente”. C’è chi vive il momento di sconfitta, e chi, in quello stesso momento, è vincente. In un altro momento i ruoli potrebbero essersi scambiati le parti. La suddivisione del tempo nella filiera non inchioda nessuno a un momento. Nella notte dei tempi, e non solo, gli esseri umani hanno alzato lo sguardo. Di giorno si sono orientati con il sole. Di notte con le stelle. Gli esseri umani, essendo nomadi imperfetti e operosi, si sono organizzati guardando in alto. Allargando l’orizzonte e cercando un punto di riferimento alto, in cui poter riporre fiducia. Può sembrare strano e paradossale: questa organizzazione spaziale è organizzazione mentale. La mente di un essere umano ha sviluppato al suo interno un’organizzazione più ampia e complessa rispetto agli altri esseri viventi. Per riconoscere, occorre ricordare. E possiamo farlo in maniera individuale e solitaria, con scarsi risultati rispetto a nostro costante bisogno di appartenenza. Gli esseri umani sono nomadi operosi sociali. Dobbiamo, quindi, avere memoria aperta alla condivisione. È una memoria nomade. Deve avere un bagaglio di conoscenze e sapere utilizzare quelle adatte alla specificità del contesto. Senza la presunzione di possedere tutte le conoscenze utili. L’incontro con l’altro è apertura alle sue conoscenze. Banalizzando, se andiamo in un posto e cerchiamo una certa strada, domandiamo a chi ci sembra del posto. Nelle pieghe della storia dell’umanità si nascondono quegli esploratori di terre che non conoscevano e che visitavano con bagaglio leggero e la speranza di trovare una popolazione autoctona a cui poter domandare. Chi conosceva quel posto poteva dire come difendersi da pericoli, come affrontare il freddo e il caldo, come nutrirsi, e forse poteva offrire un riparo per la notte. In cambio, l’autoctono poteva ricevere notizie. Tra le parti si sviluppava un insegnamento linguistico reciproco, aiutato da gesti, oggetti, segnali che diventavano condivisi. È il cambiamento evolutivo, bellezza!
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Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Natura e oggetto del lavoro sociale, una professione diversa da tutte le altre proprio per la “materia” che tratta
Un confronto tra professioni mediche e professioni sociali Il lavoro sociale, oltre a essere definito analiticamente nella propria suddivisione interna, può anche essere compreso per «contrapposizione» esterna. In particolare, si definisce in contrasto all’altra importante, e forse più popolare, area di aiuto, che è quella sanitaria (o clinica). Che cosa distingue le sopracitate professioni sociali, prese nel loro insieme, dalle professioni mediche tradizionali risulta intuitivamente evidente. Ma non altrettanto chiara è la distinzione rispetto a professioni come la psicologia clinica e la psicoterapia, le quali aderiscono al modello medico ma si occupano della riparazione di disagi psicologici e comportamentali apparentemente simili, se non identici, a quelli di cui si occupa il lavoro sociale. La cura di un malato di mente può essere responsabilità di operatori sanitari (il medico psichiatra, l’infermiere, lo psicologo esperto di riabilitazione comportamentale, ecc.) oppure di operatori sociali, come l’assistente sociale o l’educatore professionale. E quindi dov’è la differenza? Volendo abbozzare un minimo di ragionamento epistemologico ci si dovrebbe chiedere: qual è il differente oggetto? Due diverse accezioni del termine “cura” Nel linguaggio anglosassone specializzato, il termine «cura» è espresso in due differenti accezioni, a seconda che si voglia indicare la cura sanitaria o quella sociale. Nel primo caso si usa il vocabolo curing, che significa curare con l’intenzione di guarire. Nel secondo si usa il termine caring, che significa curare con l’intenzione di migliorare la qualità di vita, a prescindere dalla persistenza o meno della patologia (o della sua stessa esistenza ab origine). Lo sforzo di guarire implica sempre la ricerca di una precisa malattia (diagnosi) e di qui la ricerca (o la semplice attivazione) di un preciso corrispondente procedimento riparativo (trattamento). Lo schema diagnosi/trattamento caratterizza il modello medico, un filtro logico che, qualora trasferito nel sociale, semplifica in genere la complessità delle situazioni di disagio sociale talora al punto da oscurarle. Spesso le professioni sociali hanno fatto proprio tale incongruo modello per una sorta di attrazione inconscia, sostenuta in parte dalla maggiore semplicità cognitiva di tale approccio e in parte dal suo più alto status intrinseco. Al cuore del lavoro sociale: l’azione coordinata di più soggetti per una finalità condivisa Il lavoro sociale è un modo di guardare ai problemi sociali senza il filtro della patologia. Non si nega che molte manifestazioni di disagio sociale siano connesse a (o causate da) qualche evidente anomalia strutturale formalmente diagnosticabile, cioè qualche malattia, come ad esempio una psicosi, o una dipendenza psicofisica, o un deficit sensoriale, ecc. Ma anche in tali casi, quando la patologia «c’è» senza dubbio — diciamo così per semplificare, chiedendo venia ai costruzionisti —, l’operatore sociale, pur tenendone conto, la «bypassa» con la mente e mette a fuoco una realtà sovrastante di altro ordine: appunto il sociale di cui parliamo. L’operatore sociale ha il dovere di mettere a fuoco il sociale, altrimenti non si capisce perché possieda proprio quel nome preciso, e non un altro qualsiasi. Sfortunatamente si tratta di una percezione non proprio intuitiva, ma che non richiede tuttavia un’eccessiva propensione analitica, solo un minimo di attenzione in più. Il concetto che ci aiuta in tale percezione è quello di «azione intersoggettiva dotata di senso», caro ai fenomenologi. Il sociale di cui parliamo può essere appunto descritto come azione finalizzata di più persone interconnesse nel perseguimento di scopi condivisi, considerati dagli agenti degni di essere raggiunti in vista del loro stesso benessere. Entro questa cornice concettuale potremmo osservare situazioni correlate a malattie sanitarie anche gravi (per esempio, una malattia di Alzheimer) che tuttavia non costituiscono problema dal punto di vista specifico del lavoro sociale, qualora la capacità di azione dei soggetti coinvolti in quella specifica contingenza (il malato stesso per qualche parte, alcuni familiari o amici o alcuni specialisti professionali, ecc.) risulti adeguata a un fronteggiamento sufficiente della stessa, secondo il loro stesso giudizio. Viceversa è possibile individuare situazioni in cui non vi è alcuna malattia riscontrabile entro i parametri della sanità, e tuttavia è ben evidente anche all’occhio del profano una disfunzione sociale eclatante, attribuibile appunto alla carente capacità di azione dei soggetti coinvolti. Tutti gli agenti potrebbero essere abili, per così dire, sul piano della struttura psicofisica sottostante, rimanendo tuttavia deficitaria l’azione «sensata» emergente. È questo il caso ad esempio di situazioni di devianza, come quella di un minore non gestito dalle sue relazioni di vita che entra nel circuito penale; oppure di situazioni di conflitto relazionale all’interno della famiglia; o ancora, considerando realtà a valenza collettiva, situazioni di deprivazione socioculturale in ambienti svantaggiati, e così via. Il lavoro dei professionisti del sociale tra empowerment e rel-azione Il lavoro sociale come disciplina/prassi intenzionale studia e sostiene la capacità di azione tecnica dei professionisti del sociale. Questa azione si esplica tuttavia nel sostenere e potenziare («empower») la capacità di azione naturale delle persone direttamente o indirettamente interessate allo stesso benessere di cui il professionista, per dovere d’ufficio, deve occuparsi. Di azione si tratta quando parliamo di ciò che fa il professionista e di azione si tratta quando ci riferiamo alle persone coinvolte, sue interlocutrici. È evidente allora che il lavoro sociale, occupandosi di come un’azione possa stimolare e orientare altre azioni, sia nella sua essenza più fine rel-azione sociale. La relazione richiama l’idea della circolarità e della reciprocità degli influssi in entrambe le parti coinvolte, parti che, quando si parla di relazioni sociali, sono appunto soggetti umani agenti. Le distinzioni legate ai differenti status/ruoli in capo ai differenti soggetti non vengono del tutto superate, ma si sfumano. Questa teoria ha importanti implicazioni sul piano operativo, al punto da staccare il lavoro sociale dalla base dei mestieri tradizionali, e farne un corpus a sé. Tutte le professioni conosciute hanno una caratura tecnologica, avendo esse un oggetto statico che attira la manipolazione esterna dell’operatore esperto. Il lavoro sociale non è una tecnologia perché non ha oggetto, o meglio ha un oggetto epistemologico che è l’esatto contrario di ciò che tale termine lascia intendere. L’oggetto del lavoro sociale è una pluralità di soggetti (una rete) e quindi di autonome fonti di azione intersecantisi. In concreto, ciò vuole dire che gli utenti «non esistono» essendo essi, quando li si vede come agenti, degli «operatori» di benessere in qualche grado (che sfortunatamente a volte è un grado basso, ma mai completamente nullo). L’utente e le persone che si trovano in relazione con lui sono coterapeuti rispetto all’operatore che ufficialmente avrebbe in mano l’aiuto. A sua volta l’operatore risulta «coutente», cioè bisognoso di integrazioni esterne rispetto alla sua capacità di azione, la quale è sempre strutturalmente inadatta a perseguire scopi o a sviluppare progetti di azione per via autoreferenziale. Quando c’è di mezzo il benessere intersoggettivo, i suddetti scopi o progetti non possono mai essere del tutto coincidenti con quelli di un singolo individuo, nemmeno se questo è in una posizione di potere tale da farlo sentire autorizzato a pensare in tal modo. Quando gli scopi non sono condivisi, quando il potere d’azione (empowerment) non è ripartito tra gli agenti, i dinamismi relazionali finalizzati al bene comune si inceppano e lasciano campo aperto ai problemi sociali di vario ordine.
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Search-ME - Erickson 2 Lavoro sociale
Lettera di un’assistente sociale in smart working
Sento la necessità di riordinare le idee. È successo tutto così velocemente. Era un sabato di febbraio quando la notizia dei contagiati di coronavirus è balzata agli onori della cronaca e il lunedì in ufficio, da subito mi è stato vietato di recarmi in una certa zona e/o accogliere persone provenienti da quella zona. Da allora una restrizione continua, prima potevamo vedere le persone solo per questioni urgenti e poi all’improvviso, giovedì scorso la comunicazione che dal giorno dopo iniziava lo smart working, a giorni alterni e con la presenza in ufficio bisettimanale. Poi di nuovo ulteriori restrizioni e l’obbligo dello smart working come modalità di lavoro ordinario. E chi l’aveva mai sentito questo termine nei servizi sociali? Ovviamente il primo pensiero, come tutti noi, va alla nostra salute, ai nostri cari e alla preoccupazione di essere direttamente coinvolti e/o travolti da questa malattia, ma quando mi sono ritrovata al primo giorno di smart working, davanti al mio pc, la sensazione di disorientamento ha iniziato a prendere il sopravvento. Non tanto perché non sapessi cosa fare, anzi, tra relazioni, aggiornamenti di diari, sistemazione di cartelle ecc gli impegni sono tanti, ma il disorientamento è stato rispetto al lavoro con la persona.  Come è possibile fare l’assistente sociale a distanza? la nostra professione si fonda sulla relazione, sulla presenza fisica indispensabile per l’aiuto e come si può fare adesso? Ormai è una settimana che sono in smart working e nel corso delle giornate ho iniziato a sentire le persone, i colleghi d’ufficio e dei territori e ho iniziato ad annotarmi ogni piccolo cambiamento nel modo di essere e fare l’assistente sociale. Ho individuato alcune aree in cui si stanno verificando delle mutazioni che, chissà, potranno forse portare qualcosa di buono per la professione e per le persone con cui lavoriamo? Lo spazio di lavoro A casa è tutto diverso. Il tavolo della cucina o del salotto diventa il tuo ufficio, letteralmente invaso da documenti, fascicoli, pc e tutta la strumentazione necessaria. Ogni mattina, proprio come se andassi in ufficio, mi vesto e a volte persino mi trucco e/o indosso le scarpe, perché credo che telefonare alle persone o ai colleghi in pigiama mi renda meno credibile e sia irrispettoso, anche se non mi vedono, l’abito comunque, è il caso di dirlo, fa il monaco. Il mio fidanzato con cui convivo da diversi mesi, vive la quotidianità del mio lavoro e, finalmente, ha capito cosa fa l’assistente sociale.  Lo spazio del lavoro e lo spazio della vita privata è unico, senza alcuna distinzione e questo secondo me “informalizza” i rapporti.  A casa ci si sente a proprio agio, è un ambiente conosciuto e familiare, così anche le telefonate finiscono per essere più familiari. Inoltre i familiari partecipano alla vita lavorativa e tu partecipi alla loro, forse questo essere “così famiglia” lo avevamo perduto da tempo. Il tempo del lavoro Quando lavori in ufficio e timbri il badge, l’inizio e la fine del lavoro è scandita e quando esci dalla porta dell’ufficio fai altro. Capita di portarti il lavoro a casa, psicologicamente o materialmente, ma sono casi rari. A casa cambia invece. Finisci per guardare le mail dell’ufficio alle 22 e ti ritrovi a rispondere alla mail di una persona a qualunque ora.  Trovandoci in una condizione di emergenza continua, siamo più flessibili, maggiormente predisposti ai repentini cambiamenti e pronti a riorganizzare il lavoro anche all’improvviso, per rispondere a esempio a una skype-call di gruppo organizzata in meno di un’ora. Tra colleghi ci sentiamo in dovere aiutarci reciprocamente e forse stiamo riscoprendo la collaborazione, perduta nella fatica della gestione individuale dei carichi di lavoro. Tutti ci mettiamo a disposizione della responsabile per ciò che serve e per ciò che sappiamo fare. Il tempo del lavoro e il tempo di vita ora sembrano coincidere. Non so ancora quali possono essere le conseguenze di questo, forse può aiutarmi a prevedere eventuali conseguenze positive e negative di tale elemento. La relazione d’aiuto Questo aspetto è forse quello maggiormente delicato. Ci stiamo “reinventando” la relazione con l’altro o forse la stiamo riscoprendo, nel rispetto della distanza fisica impostaci.  Io ho la sensazione di non essere mai stata così “vicina” e così “pari” alle persone con cui lavoro. La comunanza del vivere questa situazione di emergenza ci ha reso simili e ora più che mai, io non posso essere la sola che aiuta l’utente, ma anche lui aiuta me, a capire come posso accompagnarlo al meglio in questo periodo, a capire cosa per lui è più utile e cosa per me è possibile fare lavorando in questa condizione.  La burocrazia e i convenevoli formali sembrano essere diminuiti e la relazione d’aiuto può solo beneficiarne, sembra più “pura”, liberata da una logica esperto-utente ormai esausta. Possiamo utilizzare strumenti innovativi e creativi per parlare con le persone. Ciascuno si ingegna come può per mantenere i contatti con le persone e garantire ai più fragili un supporto.  Vengono “rispolverati” strumenti forse per lo più usati in passato o in altri contesti, come la richiesta alla persona di una riflessione scritta da scambiarsi via mail. Ho la sensazione che questa situazione sta dilatando i tempi della care, siamo più riflessivi, abbiamo il tempo per pensare a ciò che facciamo e diciamo, un lusso ormai nel mondo dei servizi, fagocitati dal fare e dal rispondere alle urgenze. Questa situazione sembra aver completamente azzerato tutto ciò che era considerato urgenza improrogabile fino a qualche settimana fa e questo potrà forse cambiare i criteri con i quali definiamo indifferibile una pratica/questione. La formazione Finalmente possiamo formarci. Quasi tutti, nel nostro ufficio, utilizziamo lo smart working per seguire dei corsi di formazione a distanza e apprendere competenze nuove.  Abbiamo deciso di condividere il sapere di ogni operatore e ciascuno è chiamato, sulla base delle proprie specificità e competenze, a preparare una sessione di formazione a distanza, da trasmettere poi ai colleghi.  L’obiettivo è quello di costruire un patrimonio di sapere dell’ufficio che renda tutti egualmente competenti nei vari settori. Mai prima d’ora c’era stato il tempo per fermarsi, formarsi e riflettere individualmente su quanto appreso, credo sia un dono che non tornerà e che dobbiamo sfruttare al massimo. In sintesi, credo che questa situazione ci stia mettendo alla prova e stia cambiando il nostro modo di lavorare e di relazionarci alle persone, in maniera forse irreversibile. Credo sia importante presidiare i cambiamenti rilevati quotidianamente nel lavoro “sul campo” e continuerò a farlo, aggiornandola, se posso.  Silvia Clementi è Dottore di ricerca e Assistente Sociale. Ha lavorato alcuni anni per Enti di Terzo Settore che si occupano di Servizio Sociale, si è occupata di formazione nell’ambito dei servizi pubblici. Attualmente lavora all’Uepe ed è tutor del laboratorio di stage e guida allo stage nel corso di laurea triennale in Scienze del Servizio Sociale presso la sede dell’Università Cattolica di Brescia. È membro del gruppo di ricerca “Relational social work centre” dell’Università Cattolica. 
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Search-ME - Erickson 3 Lavoro sociale
In questo periodo di emergenza coronavirus sono tanti gli operatori del sociale e del sanitario che stanno lavorando, “riscoprendo” il loro ruolo e quello dei servizi.
Sono uno dei tanti operatori del sociale e del sanitario che in questo periodo di emergenza coronavirus stanno lavorando, perché molti dei nostri servizi non possono chiudere. Ci sono persone che stanno passando una parte della loro esistenza nei nostri servizi e quando sentono lo slogan #iorestoacasa pensano a come trascorreranno questo tempo lì: casa per loro è proprio il nostro posto di lavoro. Provo a cogliere l’invito di Fabio Folgheraiter, che chiama tutti noi che ci occupiamo di social work al dovere scientifico e morale di riflettere in questo momento particolare. Per farlo provo a proporre 5 ri-scoperte di lavoro sociale, pensate in questo tempo “sospeso”. Riscoprire la squadra nella nostra vita da mediano. Ogni giorno abbiamo negli occhi le immagini degli operatori della sanità con i segni delle mascherine, con i segni di una giornata in cui sono stati emotivamente violentati: sono le nostre prime linee, sono quelli che il mondo dei social arriva velocemente a chiamare “eroi” o “angeli”. Qualcuno di noi operatori sociosanitari sta provando timidamente ad alzare la mano dicendo “ehi ci siamo anche noi”, le seconde linee, quelle nelle comunità per disabili, quelli nelle RSA, quelli che devono convincere i minori a stare in casa. Vorrei che ri-scoprissimo di far parte della stessa squadra di un sistema sanitario e sociale con diversi servizi, professionisti con ruoli e funzioni che si integrano. Lo stiamo vedendo che siamo nella stessa squadra quando le mascherine si esauriscono in ospedale come nelle comunità, lo vediamo quando gli operatori si contagiano in ospedale come in RSA. Ne usciremo, ne siamo certi, un po’ malconci, ma con la convinzione che abbiamo e dobbiamo avere un sistema, una squadra di professionisti sociali e sanitari che sanno rispondere ai bisogni delle persone. Da oggi in poi la narrazione dovrà essere quella di far parte di una grande squadra. Riscoprire le nostre radici in Don Milani: “Sortirne tutti assieme, non uno di meno”. Ci ha fatto “rabbrividire” la prima posizione del premier britannico Boris Johnson: “abituatevi a perdere i vostri cari’. Abbiamo riscoperto in maniera chiara, forse ancora di più quando lottavamo qualche mese fa con chi tentava di definire chi può accedere ai servizi e chi no (ricordate la lotta contro i 10 anni di residenza per accedere ai servizi?).  Il valore è e rimane l’universalità dei servizi alla persona: se un essere umano sta male, ha bisogno, si aiuta senza “se” e senza “ma”. Questo stiamo vedendo succedere negli ospedali, questo abbiamo visto succedere in mare, questo vediamo succedere nei nostri servizi. Mi è piaciuto molto il post di Mauro Berruto, allenatore di pallavolo, che vi consiglio di leggere: rimanda al signor Boris Johnson l’immagine della scultura Enea, Anchise e Ascanio di Gian Lorenzo Bernini. Quella scultura rappresenta “non uno di meno”. Riscoprire che siamo intelligenti, noi operatori e anche i nostri utenti.  Per intelligenza intendo la capacità di adattarsi in maniera funzionale ai cambiamenti. Per anni abbiamo sostenuto l’importanza del setting, del non cambiare le routine, altrimenti i nostri utenti si sarebbero scompensati, dell’importanza della quotidianità scandita. Tutti temi che conosco bene e che credo fortemente siano fondati, ma tendo a chiedermi se non siano resistenze al cambiamento.  La situazione che stiamo vivendo, certo intrinsecamente destrutturante, ci ha fatto riscoprire la capacità degli operatori di re-inventarsi servizi in meno di una settimana, con risultati eccellenti.  Anche le persone che accogliamo hanno dato risposte di adattamento che non ci saremmo aspettati. Certo non tutte, ma c’è anche chi ha percepito la storicità del momento, aiutando ad accompagnare se stesso e gli operatori nelle nuove situazioni, avvertendo e trasmettendo fiducia e sviluppando un senso di autoefficacia. Riscoprire i confini delle nostre comunità. In questi giorni si è parlato molto di tempo: tempo “sospeso”, il prima e il dopo, l’attesa. I decreti governativi hanno però inciso molto anche sullo spazio, sui nostri spazi vitali: le comunità residenziali hanno visto restringere i propri confini. Sento che in questi giorni le persone che vivono la comunità dove lavoro si sentono private della libertà: non possono scegliere. Dal punto di vista contingente questo creerà inevitabilmente dei problemi da gestire (ad esempio, legati al convivere in spazi ristretti).  Ma se guardiamo un po’ più da lontano, possiamo misurare da quello che succede in questi giorni quanto il nostro lavoro sia effettivamente orientato alla libertà delle persone, di quanto ampi siano i nostri confini quando diciamo che i nostri utenti debbano essere attivi e partecipi nella comunità. Riscoprire i nostri colleghi.  Lavorare in questo periodo ci fa scoprire parti nostre e parti dei nostri colleghi che non conoscevamo. Citando Stefano Benni in Saltatempo, ho “scoperto una cosa molto semplice: che ci sono responsabilità che uno accetta con coraggio e decisione e altre che ti cadono addosso, pesanti e incomprensibili, e tu devi affrontare le seconde proprio come le prime”. Sto conoscendo molti copioni diversi miei e dei miei colleghi e vorrei descriverne alcuni prendendo spunto da Enzo Jannacci con la sua Quelli che, scritta nel 1975 ma sempre attualissima, per proporre la nostra personale Quegli operatori che... Quelli che speriamo non succeda niente agli utenti Quelli che vengo al lavoro, tutto il tempo a casa non resisto Quelli che di mestiere ti spengono il cero Quelli che il virus non ci risulta Quelli che l’animazione a mille Quelli che fanno la videochiamata con l’utente Quelli che da tre anni fanno un lavoro d'equipe convinti d'essere stati assunti da un'altra ditta Quelli che ci credono senza “se” e senza “ma” Quelli che ma siamo in ferie, in cassa integrazione, in permesso, o lavoriamo? Quelli che per principio non per i soldi Quelli che stanno in malattia fino a metà aprile Quelli che non abbandonano la nave Quelli che è tutta un’esagerazione Quelli che organizzano tutto Quelli che organizzeranno quando sarà tutto finito Quelli che fanno un mestiere come un altro Quelli che aspettano la fine ridendo e scherzando Quelli che Venezia sott’acqua, il Virus, e l’anno bisesto Quelli che nell’imprevedibile si realizza un senso profondo di verità e anche, persino, di “utilità” professionale Quelli che andrà tutto bene.
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Metodo Montessori e anziani fragili Lavoro sociale
Due assistenti sociali spiegano l’importante ruolo di utenti e familiari esperti nella progettazione di percorsi di sostegno alle persone con fragilità psichica e raccontano l’esperienza vissuta durante l’emergenza Covid-19
Il periodo di lockdown imposto in Italia per affrontare l’emergenza sanitaria Covid-19 ha messo a dura prova la vita di tutti noi, in particolar modo di coloro che già prima dell’emergenza sanitaria soffrivano di disturbi psichici e dei loro familiari. Durante il periodo di confinamento le persone con problemi di salute mentale si sono trovate a dover riorganizzare la propria vita in funzione delle misure di protezione imposte dal governo e per molti di loro la mancanza di stimoli e di relazioni personali ha comportato un aggravamento della loro condizione esistenziale e ha dissestato i delicati percorsi riabilitativi e di cura precedentemente intrapresi. La sospensione, seppur temporanea, dell’aiuto offerto dagli operatori dei servizi ha inoltre imposto un faticoso riadattamento della quotidianità di molte persone che soffrono, direttamente o indirettamente - come, ad esempio, i familiari ad esempio - di problemi di salute mentale. Come creare vicinanza alle persone con disagio psichico? L’esperienza di un’associazione lombarda L’Associazione As.V.A.P.4 (Associazione Volontari per l’Aiuto agli Ammalati Psichici) di Saronno, in provincia di Varese, che opera sul territorio con l’obiettivo di sostenere e tutelare le persone con disagio psichico e i loro familiari, si è adoperata in questi mesi per elaborare nuove e diverse strategie orientate a garantire la vicinanza con e tra le persone. Volontari, familiari ed esperti in supporto alla pari si sono interrogati su come poter essere d’aiuto e offrire supporto alle persone con problemi di salute mentale e ai loro familiari, lavorando congiuntamente alla progettazione e realizzazione di interventi innovativi. L’apporto di persone che stanno vivendo - o che hanno vissuto - un’esperienza di disagio psichico e dalla quale sono riusciti a trarre risorse ed energie per aiutare altre persone in situazioni di vita simili diventa indispensabile in un processo di progettazione aperta e partecipata. Ideare interventi per far fronte a bisogni nuovi e inaspettati insieme a delle persone che hanno già vissuto esperienze di disagio psichico aumenta la probabilità che le azioni pensate risultino maggiormente efficaci e coerenti con le preoccupazioni espresse dai diretti interessati. Questo rappresenta uno dei principi chiave del metodo Relational Social Work, che incentiva operatori e manager di servizi a valorizzare il prezioso contributo di utenti e familiari in quanto portatori di un sapere esperienziale in grado di arricchire e completare il sapere esperto dei professionisti dell’aiuto. Il sapere “dal di dentro” cosa significhi vivere una sofferenza psichica conclamata è detta “competenza esperienziale” e deriva dall’esperienza che le persone hanno maturato vivendo la propria condizione di disagio ed il proprio percorso terapeutico.  La rimodulazione dei servizi durante il lockdown Per riuscire a mantenere la vicinanza e a garantire sostegno alle persone con problemi psichici e ai loro familiari, l’Associazione ha ripensato i propri servizi e occasioni di incontro. Per rispondere alle esigenze delle persone che sul territorio vivono problemi di salute mentale l’Associazione ha trasformato lo “Sportello di orientamento in tema di salute mentale”, avviato a gennaio 2020, in un servizio telefonico, con l’obiettivo di accogliere ed ascoltare le varie situazioni di disagio e sofferenza e di garantire alle persone in condizione di disagio psichico e ai loro familiari una corretta informazione sui servizi presenti sul territorio e sulle possibilità di sostegno assistenziale, sanitario ed emotivo. Lo Sportello è stato gestito da volontari adeguatamente formati e da esperti di supporto alla pari che, grazie al proprio sapere esperienziale, si sono dedicati all’accoglienza e sostegno in diverse situazioni di sofferenza. Tale servizio è nato con l’intento di accogliere ed orientare le persone che vivono difficoltà connesse a problemi di salute mentale e che, soprattutto in una prima fase, risultano “spaesate” rispetto a tutto quello che ne deriva. Il progetto “Uno Spazio Per…” Volontari, familiari ed esperti di supporto alla pari hanno ritenuto necessario lavorare in rete per mantenere viva la mission di sostenere le persone con disagio psichico e i loro familiari in un momento di grande solitudine e di forte disorientamento. L’ascolto di situazioni di vita difficili accolte presso lo Sportello ha permesso a familiari, volontari ed esperti di supporto alla pari di lavorare congiuntamente per ideare il progetto “Uno Spazio Per …”. La proposta è nata dalla volontà di dare spazio e concretezza a desideri, abilità e competenze delle persone che vivono problemi di salute mentale ed ha richiesto la collaborazione con realtà̀ che sul territorio organizzano e gestiscono attività̀ ludico-ricreative e di socializzazione. Attraverso un percorso dedicato e con il sostegno e monitoraggio di operatori e volontari si è pensato di consentire l’accesso e la partecipazione a tali attività̀ anche ai soggetti più fragili, promuovendo legami comunitari e sconfiggendo lo stigma spesso connesso ai disturbi psichici. Da anni As.V.A.P.4 promuove inoltre gruppi di auto-mutuo aiuto per il sostegno ai familiari di persone che vivono problemi di salute mentale. I facilitatori dei gruppi, insieme ai familiari e ai volontari, hanno cercato di dare continuità all’attività nonostante il distanziamento fisico imposto. Durante il periodo di lockdown, il lavoro del gruppo di auto-mutuo aiuto è stato quindi svolto in forma telematica ed ha rappresentato un’importante occasione per mantenere vivo il supporto tra pari in un momento critico e di forte preoccupazione. Il progetto descritto è un esempio di come utenti e familiari esperti siano una risorsa imprescindibile nel costruire percorsi di aiuto - siano essi individuali, di gruppo e/o di comunità - inediti e creativi, maggiormente “a misura” delle persone in condizione di fragilità. Il coinvolgimento attivo di chi il disagio psichico lo vive da vicino scardina la logica aiutante-aiutato: anche coloro “portatori” di una difficoltà del vivere possono essere al contempo portatori di un sapere unico e soggettivo, capace di aiutare e sostenere altre persone che vivono una condizione di vita simile. Utenti e familiari esperti quindi vengono conosciuti e ri-conosciuti per il loro sapere di vita, che quando viene condiviso può produrre effetti benefici secondo il principio dell’helper therapy.
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Search-ME - Erickson 4 Lavoro sociale
Dalla cittadinanza attiva alle reti di solidarietà e prossimità
Che cos’è il segretariato sociale e qual è la sua funzione Secondo la cornice legislativa italiana il segretariato sociale svolge la funzione di orientamento e di informazione dei cittadini rispetto ai diritti, alle risorse e ai servizi a cui possono accedere per migliorare la propria situazione. Il servizio viene identificato come “porta unica” di accesso al sistema di servizi pubblici e del privato sociale. La sua impostazione ha trovato diverse declinazioni nelle regioni italiane ma la maggior parte concepiscono la funzione del segretariato come strumento per la promozione della cittadinanza attiva, che si realizza soprattutto fornendo informazioni corrette e complete utili per accedere a prestazioni o interventi sociali. Questo tipo di impostazione è però tutt’altro che scontata e richiede di compiere alcune riflessioni. Infatti, gli/le assistenti sociali potrebbero interrogarsi se sia sufficiente offrire informazioni per affrontare i problemi dei cittadini. Sicuramente l’operatore/trice sociale non si limita a dare indicazioni: parte del suo compito è rivolto anche a orientare e a comprendere al meglio la richiesta che viene portata dal cittadino. Nonostante gli sforzi, però, molto spesso, tra le mura del suo ufficio, i cittadini scoprono di non avere i requisiti per accedere a un sistema di prestazioni sociali oppure comprendono che non esistono interventi sociali per rispondere alla loro particolare situazione. Lo sfortunato operatore/trice, pertanto, si trova a gestire la frustrazione, talvolta la rabbia, delle persone orientate verso servizi privati a pagamento, oppure, nelle peggiori delle ipotesi, rimaste scoperte da qualsiasi aiuto. Inoltre, ai professionisti impegnati nel segretariato sociale si pone un’ulteriore questione: come essere d’aiuto anche ai cittadini che pur vertendo in condizioni di fragilità non accedono al servizio. Nonostante la buona preparazione e organizzazione degli/delle assistenti sociali alcuni cittadini, per timore o per poca conoscenza, non varcano la porta del loro servizio pur avendo avendone necessità. Pertanto, l’operatore/trice sociale si domanda sull’efficacia della sua azione. Il segretariato sociale come strumento di promozione del benessere della collettività Qualche suggestione utile a rispondere ai dilemmi degli/delle assistenti sociali del segretariato sociale ci viene offerta dallo slogan dell’appena concluso Social Work Day 2021 "Ubuntu: io sono perché noi siamo". L'invito dell’International Federation of Social Workers (IFSW) è di promuovere la solidarietà nelle comunità, nelle società e nel mondo intero. La solidarietà deve essere considerata come la base per la co-costruzione di strategie e di azioni per garantire a tutti un futuro sostenibile, equo e socialmente giusto. Per il segretariato sociale ne consegue l’opportunità di potenziare l’efficacia della sua azione facendo riferimento anche alla solidarietà espressa dalle comunità locali per cui è al servizio. In tal senso l’operatore/trice sociale riuscirebbe in questo modo ad accogliere i problemi delle persone che non rientrano nella rigida maglia del sistema degli interventi pubblici e, attraverso la collaborazione con cittadini, volontari delle associazioni, ecc., si renderebbe possibile la costruzione di interventi di aiuto personalizzati che tengano conto delle risorse pubbliche e informali. Pertanto, se il servizio di segretariato sociale costituisce la “porta unica” di accesso agli interventi sociali, questa deve essere aperta alla comunità locale per permettere all’operatore/trice di costruire ponti solidi allo scopo di concorrere al benessere della collettività. In questa prospettiva l’assistente sociale del segretariato sociale avrà quindi il compito di promuovere e facilitare reti di solidarietà e di prossimità sociale. I vantaggi dell’apertura del segretariato sociale verso la comunità locale L’apertura verso la comunità locale consentirebbe inoltre di raggiungere anche quei bisogni che spesso rimangono silenti. Infatti, non sempre i problemi sociali arrivano al segretariato sociale o, talvolta, arrivano segnalazioni di situazioni gravemente a rischio. Raggiungere categorie sociali fragili, come persone anziane o con disabilità o persone senza dimora, sta diventando sempre più complesso anche a causa dell’attuale situazione pandemica: le sole energie dei servizi sociali non sono sufficienti. In tal senso l’apertura del segretariato è essenziale per monitorare, vigilare e co-costruire interventi sociali. Ciò risulta estremamente utile anche per intercettare situazioni faticose e precarie che difficilmente verrebbero viste, se non in casi di estrema emergenza. Per esempio, basti pensare alla crescente sofferenza degli adolescenti, all'aumento di giovanissimi caregiver o alle difficoltà generate dalla DAD nelle famiglie fragili. La nascente cooperazione con la comunità locale ha altresì il vantaggio di estendere e diffondere le funzioni del segretariato sociale. La comunità può diventare cassa di risonanza per agevolare la diffusione di informazioni, per esempio, relative a misure economiche a contrasto alla povertà o a sostegno dei caregiver. Ciò rende immaginabile anche il dislocamento del segretariato sociale in luoghi inusuali allo scopo di potenziale la sua funzione, ad esempio nelle sedi della Caritas oppure nelle biblioteche o nelle scuole. La diffusione di informazioni e la riduzione della distanza tra il servizio e la cittadinanza consentirebbero di avvicinare e raggiungere proprio quelle persone che non accederebbero al servizio. In conclusione, la porta aperta del segretariato sociale verso la comunità, e il tentativo di consolidare ponti, permette di facilitare reti di solidarietà e prossimità utili a promuovere la cittadinanza attiva, dove i cittadini non sono solo fruitori di prestazioni e di servizi bensì sono anche attori nella produzione del benessere personale e comunitario. Alcuni consigli di lettura: Saggi di Welfare. Qualità delle relazioni e servizi sociali. Fabio Folgheraiter Contiene diversi saggi volti a esaltare il contributo di ogni attore sociale nella produzione e realizzazione dei servizi di Welfare. Particolare attenzione viene dedicata al ruolo fondamentale degli utenti e famigliari e dei cittadini motivati nella promozione del benessere della comunità. Contribuisce alla riflessione relativa alla co-costruzione di interventi d’aiuto. Linee guida e procedure di servizio sociale. Manuale ragionato per lo studio e la consultazione. Maria Luisa Raineri, Francesca Corradini Manuale indispensabile per la pratica professionale quotidiana. Sono presentate e approfondite le linee guida e le procedure in uso nei servizi sociali. Utile per gli operatori/trici del segretariato sociale che devono disporre di una panoramica generale dei vari ambiti del servizio sociale.  Principi e fondamenti del servizio sociale. Concetti base, valori e radici storiche. Francesca Biffi, Annalisa Pasini Preziosa guida per riflettere sull’agire etico degli/lle assistenti sociali nello svolgimento dell’attività professionale. Ricordare e ribadire il principio di giustizia sociale, e non solo, risulta particolarmente utile per ripensare e strutturare le attività del segretariato sociale.
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