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I mini gialli dei dettati 2
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Search-ME - Erickson 1 Lavoro sociale
Dalla giustizia sociale allo sviluppo delle capacità residue
Che aiuto può dare il lavoro sociale agli anziani fragili e alle loro famiglie? La risposta a questa domanda può sembrare una banalità. Infatti, se pensiamo a cosa fanno in concreto gli assistenti sociali, gli educatori, gli operatori socio-assistenziali, ci vengono subito in mente funzioni legate all’assicurare direttamente o indirettamente assistenza concreta alla persona (aiutarla a nutrirsi, tenersi pulita, gestire le varie incombenze domestiche, seguire le indicazioni dei sanitari sulle varie terapie da effettuare) e, se la persona è ancora abbastanza lucida, al “farle compagnia”. Questa risposta non è sbagliata, ma è molto parziale e rischia di portare a dei fraintendimenti.   Ci sono anche dei "valori profondi" ai quali dovrebbero far riferimento i professionisti dell'aiuto per un “buon” lavoro sociale con gli anziani e le loro famiglie. Ecco quali sono. 1. Agire per promuovere giustizia sociale e comprensione intergenerazionale 2. Opporsi agli stereotipi nei confronti degli anziani 3. Impegnarsi per il rispetto dei diritti umani delle persone anziane 4. Avere una visione plurale dell’età anziana e dell’invecchiamento 5. Comprendere l’oppressione molteplice che si può subire 6. Dare valore all’esperienza soggettiva degli anziani 7. Promuovere una visione riflessiva dell’invecchiamento 8. Valorizzare prospettive differenti 9. Lavorare in modo creativo per promuovere le capacità residue delle persone anziane
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Search-ME - Erickson 2 Anziani
Come mediare tra dignità, relazioni, cure efficaci
Un segmento importante dei servizi rivolti alle persone anziane è entrato in crisi: la tragedia del Covid-19 ha lasciato segni molto pesanti nell’organizzazione delle residenze, segni che non potranno essere cancellati con interventi di superficie. È quindi necessario prevedere profonde modificazioni dell’organizzazione dell’assistenza a chi è vecchio e fragile, perché queste strutture possano continuare a servire il paese in un settore delicatissimo della convivenza nelle comunità. Lo scopo principale è rispettare la dignità di ogni persona, indipendentemente dall’età, conservare gli equilibri all’interno delle famiglie (le relazioni), essere contenitori di cure adeguate alle specifiche esigenze di chi soffre per le malattie, la perdita dell’autosufficienza, le fragilità sia di ordine somatico che psicosociale. La dignità dell’anziano Un punto fondamentale riguarda la dignità del singolo anziano; viene collocata al primo posto in questo breve elenco, perché il rispetto della persona in tutte le sue dinamiche è premessa indiscutibile a qualsiasi progetto concreto. Nessun motivo organizzativo, nessuna contingenza, per quanto temporanea, potrà permettere di avvicinare l’anziano come un insieme di bisogni, invece che come contenitore vivo di volontà, di speranze, di relazioni, talvolta anche di povertà e di disperazione. Il rispetto della complessità - caratteristica fondante dell’umano - non premette approcci segmentari; la dignità dell’anziano non dipende dalla volontà degli altri, ma è un valore indiscutibile, legato all’essenza di essere persona. Quindi non è mai contrattabile; o viene accettata come premessa o non è lecito instaurare alcun rapporto. La presa in carico della persona Il secondo motivo conduttore nella logica di una residenza che voglia realizzare un servizio è la funzione di presa in carico della persona, in modo che la famiglia possa essere sollevata dal compito di strutturare l’assistenza per chi non è in grado di organizzarsi da solo. Le residenze per anziani devono svolgere una funzione di sostituzione per compiti che la famiglia non sa eseguire; ciò riguarda sia aspetti di aspetti di assistenza al soma, sia di assistenza psicologica. La famiglia non è più capace, oltre un certo grado di complessità, di svolgere una funzione adeguata; la struttura residenziale sa invece come accompagnare il malato e la sua famiglia, garantendo una vicinanza tecnicamente valida nei momenti di crisi e, allo stesso tempo, garantendo una qualità della vita che permetta all’ospite di vivere senza stress e senza sofferenze e alla sua famiglia di osservarne serenamente le giornate, senza perdite e senza dolore. La cura Il terzo motivo è la cura. La residenza deve garantire una cura adeguata, che si sviluppa in interventi specifici, che derivano da una visione complessiva dei bisogni dell’ospite. Cura inizia con una valutazione accurata e ripetuta dei principali motivi di sofferenza; poi cura significa farsi carico delle principali malattie ed evitare i momenti di solitudine che possono rende insostenibile una giornata. Cura è occuparsi dell’ospite e del suo caregiver, impegnandosi anche a rimarginare le ferite psicologiche, incominciando dai frequentemente diffusi sensi di colpa. Cura è essere vicini a chi soffre, con gentilezza, generosità, intelligenza, cultura professionale: doti che il personale delle RSA ha saputo mostrare al massimo nel corso della recente drammatica pandemia.
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia clinica
Chi, dopo una diagnosi di demenza, ne sta vivendo le prime fasi, ha bisogno di supporto per comprendere meglio la sua condizione e affrontarla con maggiore autoefficacia. Ecco che cosa può essere di aiuto in queste situazioni
Crediamo che spesso siano le emozioni che circondano la demenza a far sì che parlarne sia difficile. Le persone potrebbero essere preoccupate per il futuro, arrabbiate e frustrate perché perdono la memoria o in lutto per quello che è ormai al di fuori della loro portata. Parlare della propria diagnosi di demenza risulta spesso difficile per ragioni ben comprensibili. Innanzitutto, bisogna considerare che ricevere una diagnosi di demenza fa paura. La demenza è una malattia progressiva che non può essere curata e che comporta la perdita graduale di molte delle capacità che definiscono la persona, rendendola sempre più dipendente dagli altri. Non sorprende quindi che le persone siano spaventate da quello che le aspetta. Spesso però le persone hanno delle misconcezioni e credono, ad esempio, che peggioreranno rapidamente o che non potranno più avere una qualche qualità della vita. In secondo luogo, occorre tener presente che spesso c’è uno stigma per la demenza. È uno dei principali fattori che impedisce di parlare dei problemi di memoria e spesso anche di ricevere una diagnosi e il supporto che questa implica. Una delle reazioni più comuni allo stigma è preferire di non parlare dei propri problemi. Spesso è difficile per i familiari e gli amici, che pure cercano di adattarsi alla malattia essi stessi, sapere come fornire il supporto emotivo necessario. Il supporto emotivo è tuttavia molto importante: può aiutare la persona a parlare più apertamente della sua malattia e quindi a adattarsi alla sua condizione. Il supporto deve però essere fornito con tempi adeguati alla persona, che sia subito dopo diagnosi o più avanti, quando si sente pronta. Idealmente, il supporto andrebbe fornito anche ai suoi familiari o ad altre persone coinvolte da vicino, sia per aiutarli a adattarsi sia per favorire la comunicazione tra loro e la persona con demenza, a livello di coppia o di famiglia. È importante che le persone con diagnosi di demenza abbiano l’opportunità di conoscere meglio la propria malattia, se lo desiderano. Questo però può essere difficile, proprio perché la demenza è una malattia che fa paura. Per molte persone, un corso che offre supporto in un setting sicuro e con un facilitatore competente, può permettere di incontrare altri che stanno attraversando le loro stesse esperienze e ridurre in parte la paura riguardo alla demenza. Il gruppo offre inoltre l’occasione di imparare e aiutarsi a vicenda.
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Metodo Montessori e anziani fragili Anziani
Il social work con le persone anziane: un’area di lavoro poco desiderabile  In Italia, un terzo degli assistenti sociali si occupa di persone non autosufficienti, però le ricerche da un lato, e il contatto diretto con i professionisti e con gli studenti dei corsi di laurea in servizio sociale dall’altro, ci dicono che gli assistenti sociali non desiderano lavorare nella cosiddetta “area anziani”. Le ragioni possono essere diverse, ad esempio: il lavoro con le persone anziane viene ritenuto più semplice di quello, ad esempio, di chi si occupa di tutela minori, che, nell’immaginario collettivo, richiama un’idea di maggiore complessità, sia in tema di assessment che di progettazione; il lavoro con le persone anziane viene ritenuto finalizzato essenzialmente all’erogazione di prestazioni standardizzate e quindi routinario, meno stimolante, burocratizzato; il lavoro sociale con le persone anziane richiede una stretta connessione con l’ambito sanitario, quindi sembra che le competenze sociali debbano necessariamente essere “subordinate” alle indicazioni dei sanitari; il lavoro sociale con le persone anziane richiede un costante contatto con temi che la nostra società tende ad emarginare, come la malattia, la dipendenza dagli altri, la morte. Il social work con le persone anziane: indicazioni dalle ricerche Alcune recenti ricerche hanno approfondito le funzioni e i compiti degli assistenti sociali che si occupano di persone anziane. È emerso un quadro molto differente rispetto agli stereotipi correnti, a conferma del fatto che il lavoro sociale si muove sempre all’interno di percorsi eterogenei e richiede alte competenze e professionalità. Sintetizzando, si può affermare che l’assistente sociale che si occupa di persone anziane fragili è chiamato, fra l’altro, a: lavorare in contesti complessi, con situazioni multiproblematiche, in cui le condizioni cliniche e le patologie spesso si affiancano a problematiche di natura sociale, prima fra tutte la solitudine; trovare un difficile equilibrio tra il dovere, previsto dal Codice Deontologico, di rispettare l’autodeterminazione delle persone e il dovere, umano ancor prima che professionale, di agire per proteggere le persone deboli, anche in maniera coercitiva; garantire l’accesso alle prestazioni assistenziali previste dai sistemi di welfare e, al contempo, accompagnare le persone e le famiglie nella costruzione di una progettazione individualizzata e “tagliata su misura” per ciascuna situazione; costruire percorsi condivisi con le persone, le famiglie e gli altri servizi, fra tutti l’ospedale, i medici di medicina generale, i servizi territoriali e quelli specialistici; individuare e valorizzare l’apporto che proviene dalla comunità territoriale e dalle reti informali, ad esempio amici, vicini di casa, volontari, associazioni, che possono collaborare alla progettazione individuale e alla pianificazione di interventi e servizi; agire come gatekeeper per favorire l’accesso alle prestazioni assistenziali secondo i regolamenti e le disposizioni degli enti in cui lavora, ma anche essere disposto a ricoprire una funzione di advocate, cioè di portavoce delle istanze delle famiglie nei confronti degli enti e delle istituzioni. In generale, l’assistente sociale che si occupa di persone anziane costruisce una progettazione in cui assembla le risorse istituzionali, le risorse delle persone e delle famiglie e le risorse della comunità, ma non lo fa ponendosi all’esterno, si sente invece parte di questi percorsi. In tal senso, spesso assume una funzione di guida relazionale: non è tanto un coordinatore che prende decisioni e neppure un case manager che mette insieme le differenti prestazioni, è piuttosto un punto di riferimento per tutti gli attori coinvolti, che vengono accompagnati nel costruire assieme dei percorsi realmente condivisi. Alcuni consigli di lettura Il Social Work con le persone non autosufficienti. Una ricerca qualitativa sui “casi andati bene” Il volume presenta gli esiti di una ricerca sulle pratiche professionali degli assistenti sociali, a partire dal racconto di alcune situazioni che sono state giudicate dagli stessi professionisti dei “casi di successo”. La ricerca presenta una narrazione corale, in cui le voci degli assistenti sociali, delle persone anziane, dei loro familiari e dei diversi collaboratori, si intrecciano in un dialogo su ciò che ha reso efficaci i percorsi di aiuto. Riconsiderare la demenza Il classico testo di Tom Kitwood costituisce una pietra miliare per gli operatori che si occupano di persone con decadimento cognitivo e/o demenza. L’autore fornisce una chiave di lettura che pone al centro la Persona e, alla luce di questo paradigma, invita a rivedere e ricostruire tutto il sistema di assistenza. Conoscere le prime fasi della demenza. Una ricerca partecipativa con anziani e caregiver Il testo presenta un’interessante ricerca, che ha coinvolto, con un approccio partecipativo, persone anziane e caregiver nell’esplorare i vissuti che sorgono nelle prime fasi di decadimento cognitivo. Il coinvolgimento dei diretti interessati nella progettazione e nella realizzazione della ricerca rende ancora più preziosi i risultati ottenuti e le conseguenti indicazioni operative.
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Metodo Montessori e anziani fragili Anziani
Un’analisi della situazione di fragilità psicologica vissuta dagli anziani nelle RSA in seguito all’adozione delle misure anti-Covid impone una riorganizzazione urgente per ristabilire le possibilità di contatto con i propri cari
Siamo immersi nella seconda ondata lunga di Covid-19 anche in Italia, pare prossimi alla terza, ed è comprensibile che tutte le attenzioni siano puntate sul contenimento della diffusione del contagio. Ma non possiamo permetterci di trascurare anche questa volta altri aspetti importanti per la vita delle persone, in primis le relazioni. Come ricorda l’OMS, la salute è “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale, non solo assenza di malattie o infermità”. La tutela della salute fisica è centrale e, in questo periodo, si esprime soprattutto nell’ambito igienico-medico. L’applicazione dei protocolli sanitari di sicurezza è fondamentale e richiede la responsabilità di tutti i cittadini, a maggior ragione di autorità ed enti. Ridurre le morti e l’aggravarsi delle condizioni dei malati di coronavirus, così come gestire al meglio l’afflusso dei pazienti negli ospedali e abbattere le possibilità di contagio nelle residenze sanitarie, sono obiettivi indispensabili per affrontare le pesanti criticità della pandemia. L’arrivo del vaccino mette sicuramente in circolo speranze nuove e contribuisce a stemperare l’allarme nelle RSA, dove si stanno vaccinando operatori ed anziani. I danni psicologici provocati agli anziani nelle RSA dall’isolamento sociale Le misure adottate per tutelare la salute fisica non possono azzerare le altre dimensioni umane e oscurare gli ambiti di fragilità diversi da quelli emergenziali. Altrimenti la prevenzione rischia di esporci ad altrettanti danni psicologici che hanno diretti effetti sulla salute corporea e sullo stesso tessuto sociale. In particolare, «la grave preoccupazione delle strutture sociosanitarie è stata di limitare il contagio ma, nell’emergenza, non si è valutato bene gli effetti collaterali di queste misure su persone vulnerabili che sulla stabile relazione con i familiari o con i volontari o con gli stessi operatori basano tutta la loro vita» come ha sottolineato Fabio Folgheraiter, professore di metodologia del lavoro sociale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. La sopravvivenza stessa, così come la modalità di vivere tempi difficili come questi, chiama la nostra coscienza a una cura allargata, che non separi la nostra unità intrinseca di corpo-mente-anima. Nelle RSA gli ospiti stanno vivendo un periodo particolarmente doloroso per la riduzione degli spazi di relazione con i propri cari, soprattutto del contatto diretto, visivo e fisico. Chiamate e videochiamate sono validi strumenti di continuità relazionale, ma spesso sono inadeguate per la tipologia di persone accolte, per i pazienti incoscienti o particolari ostacoli fisici o psichici. Pratiche virtuose attuale nelle RSA per permettere il contatto tra familiari Potremmo aver di fronte mesi di oscillazioni dei contagi. Dovremmo rimodulare diritti e opportunità di supporto emotivo. Per questi motivi, supportati da intenzioni condivise ed esempi già realizzati, auspichiamo che vengano predisposti e diffusi in tutte le RSA dei protocolli che tengano conto della complessità dei bisogni delle persone non autosufficienti nelle RSA: trovare e istituire luoghi e tempi definiti e protetti per il contatto con i familiari. Sono già state sperimentate e attuate delle soluzioni concrete: ambienti predisposti per l’incontro a distanza, anche con barriere protettive in vetro e alluminio oppure in plexiglass a tutta altezza, o postazioni denominate “Emozioni dell’abbraccio”. Si tratta di stanze in cui ospiti e congiunti possono parlarsi, toccarsi grazie a dei guanti e stringersi grazie all’utilizzo di materiale plastico trasparente morbido, che permette di restare separati e protetti da possibili contagi. Con questa tecnica gli anziani possono riabbracciare i propri cari e ricevere conforto in un momento così difficile. Anche solo rivedersi faccia a faccia e poter sentire le voci dal vivo provoca un calore umano difficile da creare attraverso gli strumenti tecnologici. E sappiamo che per stare bene, anche fisicamente, abbiamo bisogno di stati emotivi positivi e contatti relazionali, soprattutto se le persone non hanno risorse interne per compensarne la mancanza. Più ancora, una carezza o un abbraccio possono calmare e rigenerare le persone, come nient’altro è in grado di fare, soprattutto per persone dalle condizioni fisiche e psichiche fragili. Sono molto apprezzabili gli sforzi degli operatori di accompagnare chiamate e videochiamate o inventarsi modi per condividere con i familiari la quotidianità o le occasioni speciali vissute dagli ospiti nella struttura. Anche stimolare parenti e volontari o la comunità locale (es. le scuole) a entrare in contatto con gli anziani, tramite lettere di auguri o disegni, è un’iniziativa preziosa per mantenere i legami e il ricordo vivo della loro presenza nella società. La creatività e l’attenzione tenera sono caratteristiche che diventano ancora più importanti nelle condizioni attuali, soprattutto se messe in campo dagli operatori, che vivono anch’essi le loro fatiche personali e familiari. La necessità di riorganizzare le RSA per permettere il contatto anche fisico tra ospiti e familiari Le attività implementate spontaneamente in varie RSA non possono tuttavia sostituire i rapporti diretti tra gli ospiti e i loro cari con manifestazioni affettive anche corporee. Dovrebbero andare in parallelo per permettere alle RSA di uscire dallo stato di isolamento istituzionalizzato e dalla rassegnazione alla distanza fisica tra ospiti e parenti. Ė significativo evidenziare, come fa il presidente dell’Uneba Franco Massi, le grosse difficoltà di comprensione dei DPCM e della situazione generale da parte degli ospiti, che si sentono spesso abbandonati. Spesso non capiscono cosa sia il DPCM, faticano a rendersi conto di cosa stia succedendo davvero dentro e fuori dalle case di riposo a causa della pandemia. Solo si chiedono “Perché i miei figli non vengono a trovarmi? Perché li sento solo al telefono e non posso abbracciarli? Non mi vogliono più, non gli interessa di me?”. Alcuni vorrebbero essere portati a casa e non accettano la situazione, reggono con grande difficoltà al divieto di visita, si isolano e si deprimono, regrediscono anche cognitivamente. Basta davvero poco per poter ridar loro la speranza e il sorriso. Ora le possibilità pratiche sono note e auspicate anche dal Ministero della Salute. Occorre adoperarsi per trovare i fondi per la rimodulazione organizzativa e strutturale delle RSA, in sinergia con l'azienda sanitaria, la politica e tutte le parti coinvolte per dare sollievo ai nostri cari e alla situazione delicata in cui si trovano. Possiamo e dobbiamo farcela!
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Metodo Montessori e anziani fragili Psicologia
Un medico, formatore e psicoterapeuta spiega l’importanza del cordoglio anticipatorio sia per l’individuo che lo vive che per gli operatori socio-sanitari e la società in generale
La vita umana, inevitabilmente, si confronta con fasi di cambiamento identificabili come «lutti»: un licenziamento, il consumarsi di una relazione, un trasferimento, fino all’insorgere di una disabilità. Nell’affrontare questi accadimenti, non c’è soltanto il “dopo”, ma anche il “prima”, che si dipana sovente in modo poco funzionale attraverso angosce e proiezioni negative. Questo processo trova il nome di “cordoglio anticipatorio”. Il cordoglio anticipatorio è un costrutto che definisce i sentimenti sperimentati dall’uomo quando accoglie nella mente il pensiero che accadranno eventi futuri indesiderabili, ritenuti quanto meno sgradevoli e a volte catastrofici. Si tratta di un concetto poco conosciuto nel mondo dei professionisti sanitari e sociali, con l’eccezione di chi si occupa del fine vita, in particolare in oncologia e negli hospice. Neppure in questi ambienti, pure molto competenti, il cordoglio anticipatorio è ritenuto un tema di cui occuparsi con attenzione e costanza. Nella quotidianità sono molto numerosi i colloqui, gli interventi, i conflitti che nei servizi socio-sanitari tanto pubblici quanto privati vedono la loro motivazione principale nella sofferenza originata da un cordoglio anticipatorio, senza che esso sia riconosciuto come tale, con questo nome. Con il rischio che gli operatori concentrino l’attenzione sulla domanda esplicita che il paziente presenta, che appare diversa, lasciando un po’ sullo sfondo il bisogno profondo sottostante, taciuto perché non ha nome: rimane un concetto, un sentimento indicibile. Nelle occasioni di formazione in cui ho modo di proporre di riconoscere in situazioni vitali la presenza del cordoglio anticipatorio, i professionisti dopo l’iniziale sorpresa e qualche titubanza colgono con sollievo la possibilità di dare il nome giusto a qualcosa che sperimentano già e spesso lo riconoscono presto come una chance per i loro interventi, anche clinico terapeutici, per renderli più mirati ed efficaci. Il cordoglio anticipatorio è un fenomeno presente regolarmente nell’arco dell’intera storia naturale umana. Anche questa constatazione può sorprendere gli operatori, perché, non identificandolo più esclusivamente con il «lutto anticipato» e con gli eventi che caratterizzano il fine vita, vedono cambiare completamente l’orizzonte di senso della storia naturale in cui inscriverlo e scoprono quanto rientri a pieno titolo nelle proprie competenze. Infatti, se il fenomeno interessasse davvero solo il tempo finale della vita non rientrerebbe nella sfera di interesse della maggior parte degli operatori che non sono in questo coinvolti professionalmente, almeno fino a quando non ne verranno investiti nell’ambito personale. Certamente l’applicazione del paradigma di pensiero del cordoglio anticipatorio all’intera storia naturale umana ha conseguenze importanti e riguarda tutti, come persone, come educatori, come membri di una comunità, in misura doppia come operatori della salute. La risposta ai problemi che hanno il loro fuoco nel cordoglio anticipatorio è affidata senz’altro, in tante occasioni ma non in tutte, ai professionisti della salute. È vero però che funzioni essenziali in questo ambito spettano alla famiglia, alla prossimità di ogni persona e all’intera comunità. Soprattutto se si riconosce all’universo delle persone l’identità di «guaritore ferito», di un maestro accogliente, attribuendo alla comunità una funzione importante, essenziale, nel fronteggiamento del cordoglio anticipatorio.
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