Leggendo le “Nuove indicazioni 2025. Scuola primaria e Primo ciclo d’istruzione”, pubblicate dal Ministero dell'Istruzione e del Merito nel mese di marzo 2025, alcuni aspetti hanno attirato la nostra attenzione: in primo luogo, una marcata insistenza sulla correttezza e accuratezza linguistica (in special modo ortografica e grammaticale); in secondo luogo, il persistente riferimento agli “errori”, visti esclusivamente in chiave negativa e privati della loro imprescindibile valenza formativa («È importante che l’ortografia sia acquisita in modo sicuro e naturale nei primi anni di scuola, senza cedere a eccessi di spontaneismo per giustificare errori e usi impropri, poi difficili da eliminare»); infine, l’uso pervasivo del verbo dovere e di espressioni che indicano obbligo e perentorietà, non di rado accompagnate da avverbi categorici e “assoluti” (necessariamente, assolutamente, ecc.), che comunicano un senso di rigidità e di condanna per gli “inadempienti”. Insomma, nel complesso, il contenuto, lo stile e il tono di questo testo rischiano (intenzionalmente o no, siano le lettrici e i lettori a deciderlo) di veicolare un certo tipo di messaggio: chi commette “errori” (per i motivi più disparati, indipendente dall’area geografica di provenienza) sarebbe da guardare con un po’ di sospetto, da giudicare (male) e da correggere severamente. Perché (sembra voler dire chi ha scritto il documento) chi commette “errori” non solo sbaglia, ma offende anche gli altri e manca ai propri doveri sociali («La chiarezza deve essere presentata anche come un modo di avere rispetto degli altri: dunque anche come un dovere sociale, oltre che un vantaggio per chi comunica in maniera appropriata»).
Al di là delle parole
In un mondo “superdiverso” come il nostro (dove le identità degli individui sono sempre più complesse e multifattoriali), viene da chiedersi se sia davvero utile, oltre che auspicabile, coltivare visioni della realtà e “filosofie” rigide e monodimensionali che, sottopelle, ci fanno sentire più tesi, impauriti, giudicanti e dunque incattiviti (cosa che di norma e “naturalmente” tutti tendenzialmente già siamo). Al di là di ogni buonismo e bandiera ideologica, chiediamoci se alimentare un certo tipo di pensieri e modi di essere possa davvero portare a qualcosa di buono per noi, per i nostri apprendenti e per le istituzioni in cui lavoriamo, chiediamoci se un certo tipo di atteggiamento possa davvero aumentare l’efficacia del nostro insegnamento e della nostra azione didattica. Confortati dalla scienza, possiamo serenamente affermare di no. Infatti, la ricerca ha da tempo confermato quello che nella nostra esperienza di docenti tocchiamo con mano tutti i giorni: la dimensione relazionale, affettiva ed emotiva influenza profondamente l’apprendimento, promuovendolo o, al contrario, ostacolandolo.
L’insegnante come antropologo
Marianella Sclavi, nel suo libro Arte di ascoltare e mondi possibili, illustra chiaramente che, nel nostro multiverso, le e gli insegnanti che desiderano essere più efficaci e inclusivi devono imparare ad essere anche un po’ antropologi, ossia apprendere a rapportarsi a se stessi e agli altri mettendo al centro le dinamiche della complessità e dell’interculturalità (l’ascolto attivo, il non giudizio e l’intelligenza emotiva, solo per citarne alcune). Un insegnante efficace, insomma, è un costruttore di ambienti di apprendimento ariosi e fertili … non di gattabuie in cui nessuno vorrebbe stare. Questo non significa rinunciare a correggere gli “errori”, quando necessario, ma imparare a farlo partendo da un atteggiamento decentrato, aperto e costruttivo anziché punitivo e giudicante.
Tu sei il messaggio
Nella comunicazione, dentro e fuori dall’aula, trasmettiamo non solo contenuti e informazioni, ma la nostra persona, nella sua interezza (le nostre convinzioni, filosofie e credenze, anche e soprattutto quello profonde e inconsce): a “parlare”, infatti, non sono tanto le nostre parole, quanto il nostro tono di voce, la nostra postura, i nostri occhi, i nostri gesti. In classe, quindi, volenti o nolenti, diamo e comunichiamonoi stessi, letteralmente. Di conseguenza, se vogliamo essere professionisti responsabili, impegniamoci a prenderci curadei pensieri che incarniamo e che ci abitano (anche involontariamente), dei giudizi e delle aspettative che proiettiamo sugli altri (fortunatamente o nostro malgrado), delle cornici e degli schemi di pensiero che ci liberano o che ci limitano. Tutti i giorni, almeno un po’.
Bibliografia
- Ailes R. (1998), You Are the Message, Dow-Jones Irwin, Homewood.
- Gümüşay K. (2021), Lingua e essere, Fandango libri, Roma.
- Hakuzwimana E. (2024), Tra i banchi di scuola. Voci per un’educazione accogliente, Einaudi Editore, Torino.
- Mastroianni B. (2017), La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Franco Cesati Editore, Firenze.
- Sclavi M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano.