Il Convegno “Sono adulto” di quest’anno è per noi un evento speciale. Non solo per la presenza di molti relatori illustri, in particolare di Tom Shakespeare, che è un grande sociologo e un grande autore della nostra Casa editrice e che ci onora della sua presenza.
È speciale questo Convegno anche purtroppo per una perdita che ha colpito tutto il mondo della cultura italiana e anche noi del Centro Studi Erickson.
Nel maggio di due anni fa, il prof. Andrea Canevaro ci ha lasciati. Questo è il primo Convegno “Sono Adulto!” che prende il via senza il suo coinvolgimento e i suoi consigli.
Molti di voi senz’altro avranno avuto il piacere di conoscerlo personalmente o comunque sanno chi era, o avranno letto qualcuno dei tanti libri che ha scritto o che ha curato.
Per chi non lo conoscesse, dirò che il prof Andrea Canevaro è stato un Maestro. Un professore che era … più di un professore! Un Maestro impareggiabile. Lo è stato per tanti operatori sociali, per tante famiglie, per tanti insegnanti e anche per tanti professori universitari, tanti di noi qui compresi.
È stato per anni il faro accademico per tutti i pedagogisti speciali italiani e per quanti hanno operato nel campo dell’inclusione scolastica dei bambini/bambine con disabilità. Ma altrettanto è stato un riferimento anche per tanti altri studiosi ed esperti di educazione extrascolastica, per tanti operatori sociali, volontari e cooperatori italiani…
Era un pedagogista ma allo stesso tempo molto di più, era uno studioso di scienze sociali e appassionato del Sociale, della vita delle famiglie e dei territori.
Per questo sentiamo che sia doveroso e bello dedicare questo breve intervento introduttivo – un ricordo– alla sua figura e al suo pensiero.
Qualche giorno fa, ci siamo messi a riguardare il video del suo intervento da remoto nella plenaria della scorsa edizione del Convegno, nel maggio del ’21, un anno esatto prima della sua morte.
Era un intervento sotto forma di un’intervista con il collega Dario Ianes. È stato commovente risentirlo e abbiamo pensato di mostrare qui alcuni piccoli estratti di quel filmato.
Conoscendolo, forse lui non gradirebbe neppure questa nostra attenzione. In vita non amava mettersi sotto i riflettori. Non ha mai sentito bisogno degli omaggi e dei troppi complimenti. Anzi ne provava un sottile fastidio. Ma noi oggi desideriamo metterlo al centro della nostra attenzione, e ricordarlo.
Andrea ha sempre cercato di tenersi sullo sfondo, di parlare delle cose in cui credeva in semplicità, in totale rilassamento e umiltà. Tutto voleva tranne mettersi su un piedistallo o in cattedra.
Era un grande professore, ma anche una persona di grande semplicità.
Mi soffermo un attimo su questo aspetto della sua personalità.
SEMPLICITÀ
Una caratteristica di Andrea era la istintiva simpatia e la fiducia che suscitava in chi lo incontrava o lo ascoltava.
Tra di noi ci siamo chiesti tante volte perché Andrea ci facesse così tanto piacere incontrarlo, perché ci rassicurasse e ci aiutasse anche con la sua sola presenza.
Potremmo dire di lui che aveva il carisma della semplicità, dell’essere alla mano.
I filosofi da sempre dicono che tutte le cose davvero importanti sono semplici, ma le cose semplici, purtroppo, non ci appaiono importanti.
“È curioso – diceva Leopardi– vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre però le maniere semplici sono prese come indizio di poco valore”.
Con Andrea non era così. La sua semplicità era l’evidenza lampante del suo valore. Semplicità e profondità erano in lui la stessa cosa. E si vedeva a occhio.
Incominciamo a dire intanto una cosa forse ovvia: che sotto quel pensiero delicato, soffice e sussurrato, e che ci sembra così semplice (e forse così ovvio) ci sono delle basi teoriche e umanistiche fortissime (che purtroppo nei nostri tempi si vanno perdendo).
Forse la caratteristica più forte di Andrea era quella di sapere sempre aggirare con maestria un paradosso sottile ma abbastanza fastidioso, che inavvertitamente avvelena i nostri discorsi e le nostre relazioni ….parliamo della tendenza (involontaria, in buona fede) ad usare un linguaggio ‘biforcuto’ (diciamo così).
Il nostro linguaggio di noi comuni mortali è pieno di queste trappole.
Si desidera dire una cosa, e però si trasmette sotto sotto, proprio perché si dice quella cosa, l’esatto contrario. Anche nel mondo dei servizi sociali e del lavoro di cura …. usiamo spesso dei termini a scopo retorico, convinti di affermare una verità nobilissima e invece, senza accorgerci, contemporaneamente, spargiamo in giro allusioni di senso opposto.
Tante parole nobili ma abusate del nostro linguaggio nei Servizi mostrano questo imbarazzante limite.
A volte, ad esempio, peroriamo il Rispetto e lasciamo passare un’impressione di svalutazione o di sottile disprezzo. Auspichiamo la Reciprocità (la Parità), e lasciamo passare l’impressione di una certa nostra ovvia superiorità (un certo ‘suprematismo morale’, come si dice). Rivendichiamo i Diritti, e lasciamo intendere un’idea di vecchia assistenza, di assistenzialismo.
Queste scivolate inconsce verso il contrario di ciò che si auspica con le parole, non si sentivano mai in Andrea Canevaro. Era sempre congruente in sé stesso, direbbe Carl Rogers.
Egli sapeva come pochi associare ai suoni delle parole importanti che pronunciava sempre il loro senso vero, profondo, non retorico.
Quello che pensava, quello che diceva e quello che sentiva dentro, erano tutt’uno. E si percepiva.
Mentre parlava di rispetto, rispettava. Mentre parlava di Reciprocità e di parità, egli era pari. Mentre parlava di Diritti, egli li agiva.
DIRITTI E DOVERI
A proposito di Diritti, il pensiero di Andrea era questo: dare dei diritti per poter esercitare dei doveri. I diritti sono sani solo se consentono alle persone di potersi sentire dei cittadini a tutti gli effetti, capaci di percepire di poter dare un apporto (piccolo o grande) alla società, alla loro famiglia e a sé stessi.
Spesso noi parliamo dei Diritti solo come delle compensazioni, come qualcosa che ci deve essere dato per risarcire una menomazione o uno svantaggio o un torto subito dalla sorte, eccetera. Parliamo dei diritti come una legittima e civile aspirazione all’assistenza, quando essa serve.
Andrea sapeva che è giusto rivendicare l’assistenza che la legge stabilisce, ma sapeva anche che nessuno desidera essere pensato e trattato come … un minorato.
Al contrario, tutti esigiamo il riconoscimento dei nostri diritti affinché venga dato il giusto riconoscimento all’essere che noi sentiamo di essere, il riconoscimento a quel lato buono e prezioso che ogni persona – quale essa sia – rappresenta per ciascuna altra.
Questa intuizione Andrea la sapeva pensare profondamente e la sapeva dire semplicemente, perché sapeva davvero concepire ogni difficoltà delle persone, anche le proprie difficoltà, ad esempio di anziano, come delle inaspettate opportunità, dei valori.
Il diritto per eccellenza – il perno di tutti i diritti – è il sacrosanto diritto ad essere rispettati, di avere una dignità. Ora: si è rispettati se si possiede un valore. E si sente di avere un valore se possiamo ‘donare’, essere utili agli altri.
Parlare di diritti – nel ruolo di operatori sociali – vuol dire sapere che ogni persona va ascoltata perché ha sempre qualcosa da dirti, anche se non parla, anche se non vuole parlare. Il diritto a che sia intesa la propria voce è primario.
Altrimenti le nostre retoriche diventano affabulazioni che rischiano di rivelarsi addirittura sottilmente offensive.
INCLUSIONE E RECIPROCITÀ
Un altro aspetto collegato a quello dei diritti è quello dell’ Inclusione e della Reciprocità (rimaniamo quindi ancora in tema di Rispetto).
Inclusione vuol dire accesso alla piena vita sociale per tutti, dice Andrea. Dunque, se come operatori guardiamo l’altra faccia della medaglia, per Reciprocità, dobbiamo saper contemplare anche la possibilità… della nostra stessa inclusione!
Nell’intuizione che ci ha proposto Andrea, non siamo solo noi operatori ad essere così buoni e cari da auspicare l’inclusione per i cosiddetti ‘svantaggiati’ … cioè ad accettare che i cosiddetti ‘fragili’ o ‘ultimi’ o ‘scarti’ (come denuncia da tempo Papa Francesco) si avvicinino a noi, ossia siano incoraggiati o sollecitati ad entrare nei nostri ambienti.
Andrea ci dice tra le righe che, se vogliamo che l’inclusione sia vera, deve essere biunivoca (reciproca). Anche gli stessi operatori (o in generale i cosiddetti ‘normodotati’) debbono accettare di aver essi stessi un grande bisogno di … essere inclusi.
Inclusi in cosa? Inclusi negli spazi vitali ed emotivi delle persone di cui ci prendiamo cura. A loro volta, le persone da noi ‘incluse’ nei nostri progetti di inclusione devono sentire il piacere di accorgersi di essere così generosi di accogliere nel loro mondo tutti noi ‘normodotati’ volenterosi (genitori, insegnanti, educatori, medici, ricercatori, ecc.) che forse ai loro occhi sembriamo così strani nelle nostre sicurezze.
Andrea sapeva profondamente che tutti gli esseri umani sono forti e fragili allo stesso tempo. A nessuno serve una certificazione formale per sentire di essere fragile. Fragili lo siamo tutti costitutivamente (basta solo mettersi d’accordo rispetto a cosa).
Tutti abbiamo bisogno di essere accolti, rispettati e amati.
Dalle sue parole Andrea lascia trasparire che anche per noi esperti è sempre una benedizione stare a contatto con le persone ‘vulnerabili’, godere della loro amicizia e benevolenza. Godere della loro umanità, potremmo dire semplicemente.
“La malattia e il dolore ”– diceva Thomas Mann – sono più umani della salute.
Anche Andrea sentiva così. E con grande tristezza, io credo, sapeva che la nostra società dell’efficienza e dell’abilismo stritola e succhia la nostra umanità …. Sentiva che, quanto più siamo costretti ad essere abili per vederci riconosciuti nella nostra dignità, tanto più avremmo bisogno più spesso di apprezzare e toccare con mano l’umanità come essa è (e le persone che soffrono, o hanno sofferto, per l'appunto ne hanno ‘di più’).
Andrea ci dice che ‘inclusione’ è davvero profonda e bella quando tutti siamo i benvenuti nella vita di tutti!
OPEROSITÀ
Un altro concetto a cui Andrea teneva molto è quello di Operosità (e del connesso Rispetto).
Lui che parlava come si mangia ha tradotto così, come ‘operosità’, il famoso termine “agentività” di Bandura. Non gli piaceva il termine ma gli piaceva il concetto, l’idea della serietà, dell’impegno morale a fare bene le proprie cose, ad assumersi le proprie responsabilità, a voler fronteggiare e risolvere problemi.
Non a caso, ‘operosità’ è stretto sinonimo della care di don Milani, al quale Andrea si è sempre ispirato.
Andrea sapeva molto bene che tutto il benessere sociale –non solo l’efficienza dei nostri Servizi – dipende dalla operosità profonda (dalla serietà e dalla moralità) di ciascuno di noi (di nuovo: di tutti!).
L’operosità profonda, come la intendeva Canevaro, non è mai produttivismo o efficientismo. È sempre un valore legato al rispetto e alle relazioni. Un ‘fare assieme’, ciascuno per quello che ha, e che può donare.
Torniamo però qui sempre al nocciolo dei concetti.
È facile dire che problemi di vita non sono questioni tecnologiche. È facile dire teoricamente che gli aiuti veri debbono sempre generarsi ‘in rete’, cioè in un concerto ‘democratico’ di tante ‘umanità’ diverse ma pari, portatrici della stessa dignità.
Il vero problema è saper vedere, o intuire, quanto Rispetto c’è dentro queste parole, dentro nel loro midollo quasi.
I professionisti del ‘sociale’ sono tali – ci dice Andrea– solo quando, in ultimo, sentono che la loro operosità sorregge e smuove l’operosità di tutti i potenziali interessati, ciascuno potendo mettere il suo.
In questo modo gli operatori a cui guardava Andrea lavorano in ultimo affinché qualsiasi persona (al di là delle etichette che la opprimono) possa sentirsi orgogliosa e fiera di sé, perché a fine giornata potrà dire “io ho fatto questo … che mi rende felice”.
Ogni persona non è quello “che è” (o che possiede, e che tiene per sé), ma quello “che fa”, e che esprime come dono per gli altri, ci direbbe Andrea Canevaro se fosse qui con noi.
Certamente sarebbe contentissimo di vederci qui tutti così attenti e operosi….
Lui penserebbe senz’altro che ritrovarci qui a ragionare assieme è espressione di nobilissima e di altissima operosità, e ne sarebbe contento.
Buon lavoro a tutti/e voi!