Tornando al Novecento, Hannah Arendt scrisse un importante saggio Sulla violenza nel clima della guerra fredda, che costringeva a riflettere in modo del tutto nuovo sul rapporto tra ragionevolezza, obiettivi politici e ricorso al potenziale distruttivo delle armi: «Lo sviluppo tecnico degli strumenti di violenza ha raggiunto oggi un punto tale che nessun obiettivo politico potrebbe ragionevolmente corrispondere al loro potenziale distruttivo o giustificare il loro uso effettivo in un conflitto armato. Per conseguenza la guerra, da tempo immemorabile arbitra decisiva e spietata nelle dispute internazionali, ha perso molto della sua efficacia e quasi tutta la sua attrattiva» (H. Arendt, Sulla violenza, Mondadori, Milano 1971, p. 9).
Con la guerra fredda si apre un nuovo scenario, nel quale compare una forma inedita di guerra, che non è guerra aperta né preparazione alla guerra e che fa dell’«azione deterrente» il suo «scopo “razionale”»: «Lo scopo “razionale” che si propone è un’azione deterrente, non la vittoria, e la corsa agli armamenti, lungi dal costituire una preparazione alla guerra, può essere giustificata solo dalla considerazione che un’azione deterrente sempre più efficace è la migliore garanzia di pace. Alla questione di come potremo mai riuscire a districarci dall’evidente assurdità di una simile posizione, non esiste risposta» (p. 10).
Proseguendo la sua riflessione e rifiutando le prospettive di Freud e di Hobbes, Hannah Arendt sembra suggerire che la guerra continuerà ad esistere tra gli uomini fino a quando l’immaginazione politica non sarà in grado di inventarne un sostituto: «La ragione principale per cui la guerra è ancora presente fra noi non è da ricercarsi né in un segreto desiderio di morte insito nella specie umana, né in un insopprimibile istinto all’aggressione, né infine, e più plausibilmente, nei seri rischi economici e sociali inerenti al disarmo, ma nel fatto puro e semplice che sulla scena politica non è ancora apparso nessun sostituto per questo arbitro finale negli affari internazionali» (p. 11).
Esercizio in classe: Riuscite ad immaginare come dovrebbe essere questo “arbitro finale” delle contese tra gli Stati, per funzionare davvero e impedire le guerre? Da chi dovrebbe essere costituito? Con quali poteri? Con quali regole? Potrebbe un arbitro “disarmato” riuscire a fermare gli Stati armati intenzionati a fare una guerra?
La pace ha bisogno di molta più immaginazione politica della guerra e l’immaginazione politica va esercitata, facendo attenzione a quello che Primo Levi chiamava «l’ambiguo clima di vacanza morale che è stato instaurato dal fascismo, e gli sopravvive parte per inerzia, parte per sciocco calcolo»: «occorre – scriveva Levi – che ogni cittadino, fin dai banchi della scuola, impari che cosa significa verità e menzogna, e che non si equivalgono; e che si può macchiarsi di colpe gravissime a partire dal momento in cui si abdichi alla propria coscienza per sostituirla col culto del Capo “che ha sempre ragione”» (A. I. Davidson, a cura di, La vacanza morale del fascismo. Intorno a Primo Levi, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 46).
Vacanza morale del fascismo, distinzione tra verità e menzogna, culto del Capo “che ha sempre ragione”, esigenza di non abdicare alla propria coscienza e ciò che si può imparare fin dai banchi della scuola: tenendo conto di tutti questi punti è necessario continuare ad interrogarsi – analizzando se stessi e la storia – per capire quali sono e come possiamo alimentare le forze che spingono gli esseri umani al pacifismo e le istituzioni politiche capaci di immaginare e realizzare alternative alla guerra.



