Educare è un atto politico.
Educare significa porsi la questione educativa come lettura interpretativa del mondo.
Educare significa aprire le porte all’adultità dei nostri allievi.
Vederli crescere e formarsi una propria volontà, dei propri desideri; mettere le basi per una capacità di sfruttare i propri doni e superare i propri limiti e, quando questo non è possibile o estremamente difficoltoso, imparare a girarci attorno e trovare soluzioni alternative, diverse, creative.
Educare è un atto politico perché richiede, all’educatore, una visione aperta; la capacità di uscire da sé e «vedere l’altro», dargli la possibilità di essere l’adulto che merita e vuole essere. Per fare questo, è necessario che l’educatore abbia lo sguardo aperto a ogni possibilità, che creda profondamente nel valore della possibile divergenza di cui ogni allievo è portatore. E, in particolare, chi lavora ogni giorno con allievi con disabilità, deve essere consapevole della ricchezza di questa divergenza, senza lasciarsi sopraffare dalle inevitabili difficoltà che questa divergenza comporta.
L’educatore deve essere in grado, sempre di «pensare il pensiero» per dirla con Bion, osservare, trattenere il pensiero, implicarsi nella relazione ed essere capace di uscirne e rientrare nuovamente per affinarlo, quel pensiero, renderlo progetto vivo e pulsante di sviluppo e crescita al solo servizio del proprio studente.
L’assistente specialistico all’autonomia e alla comunicazione è, all’interno del nostro Sistema Scolastico, colui a cui è affidata la cura e lo sviluppo di tutte quelle abilità basilari che fanno dei nostri allievi, dei soggetti di diritto, delle persone il cui futuro, nei limiti del possibile e, spesso, dell’immaginato, è pensabile solo nelle loro mani.
Basilarmente, le abilità legate all’autonomia e alla comunicazione degli studenti con disabilità, sono da considerarsi abilità trasversali, che costituiscono la base per costruire tutto il resto. Per semplificare, uno studente può imparare la storia solo se è in grado di conoscere la propria personale storia, se è in grado di conoscere lo scandirsi del tempo della giornata, come si fa con un’agenda visiva. Ecco, dunque, che uno strumento di autonomia semplice come un’agenda visiva, diventa il presupposto per l’apprendimento di una disciplina scolastica, nelle forme e con gli adattamenti che possono, di volta in volta, essere necessari.
E ancora, la comunicazione è, come sappiamo bene, quel corollario squisitamente umano che non è semplicemente linguaggio, ma auto ed etero regolazione, scambio, relazione con gli altri e il mondo.
Dunque, ora più che mai, è necessario porre l’accento e comprendere quali sono le funzioni e gli ambiti di intervento di quest’oggetto misterioso che è l’assistente specialistico all’autonomia e comunicazione. Tanto più che, se si ignora questo, difficilmente si può comprendere a quali bisogni educativi corrisponde il suo lavoro e, di conseguenza, di cosa abbiano bisogno i nostri studenti con disabilità certificate.
Chi è, quindi, l’assistente specialistico per l’autonomia e la comunicazione?
Questa «mansione» è prevista nella legge 104/92, art. 13, c.3: «Nelle scuole di ogni ordine e grado, fermo restando, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e successive modificazioni, l'obbligo per gli enti locali di fornire l'assistenza per l'autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali […]». Se parliamo di «mansione» è perché, nel corso degli ultimi trent’anni, gli Enti Locali hanno, in autonomia, assegnato questo ruolo a professionisti di varia natura, decidendo diverse forme organizzative, diversi percorsi formativi e assegnando denominazioni anche molto diverse e spesso piuttosto fantasiose, con un fiorire di sigle e siglette tale per cui, a un non addetto ai lavori, l’assistente specialistico possa davvero apparire come un oggetto misterioso, davvero non ben identificato e inquadrabile.
Intanto, occorre specificare che, rispetto alle iniziali intenzioni del legislatore, fiumi e fiumi sono scorsi sotto i ponti di quella che, allora, si chiamava «Integrazione scolastica». A quell’epoca, la priorità riconosciuta era quella di fornire «assistenza» e riguardava i quadri di compromissione «grave», soprattutto in termini di disabilità sensoriale o fisica. La scuola di allora era una scuola che, faticosamente, cominciava a fare i conti con l’abolizione delle classi differenziali e si avviava, zoppicante e poco convinta, verso il passaggio successivo, ossia quello dall’integrazione, ossia lo «stare insieme», all’inclusione, ossia l’«essere insieme» in classe. Ci sono stati, nel frattempo, pochissimi e scarni aggiornamenti giuridici che riguardassero questa mansione. Si pensi per esempio al fatto che, a tutt’oggi, non esiste un Codice ATECO nella categorizzazione delle Professioni di ISTAT (ISTAT, 2019). Pur tuttavia, ai vari mansionari locali che sono fioriti in questi trent’anni, gli operatori si sono trovati davanti al fatto che, imposta dalle normative, l’inclusione degli studenti con disabilità andava fatta, non semplicemente pensata. E quindi, accanto a scarne indicazioni giuridiche nazionali e locali, c’era l’esigenza, di fatto di garantire l’effettivo accesso al diritto all’istruzione degli alunni con disabilità.
Ciò che ognuno di noi ha maturato in seguito, svolgendo ogni giorno sul campo questo lavoro, è che bisogna garantire non solo il diritto all’istruzione ma anche, e soprattutto, il diritto alla felicità degli studenti con disabilità. Il diritto ad essere autonomi e autodeterminati, il diritto a comunicare, comprendere ed essere compresi, il diritto a stare con gli altri nelle relazioni, il «diritto di essere invitati alla festa e decidere se ballare» (Verna Myers).