Inclusione scolastica: forma giuridica e sostanza psicopedagogica

Inclusione scolastica: forma giuridica e sostanza psicopedagogica

Nella patria del diritto romano, l'impianto normativo che regola l'accesso al diritto all'istruzione è particolarmente complesso e, ugualmente fragile; spesso persino farraginoso.

Per fare un esempio, l'introduzione del nuovo PEI prevede una modalità di compilazione online che consentirebbe una reale condivisione e corresponsabilità da parte di tutti i componenti del GLO. Finalmente è (o, meglio, sarebbe) possibile, anche per le famiglie, consultare e collaborare, per la propria parte, alla stesura del PEI e coinvolgere attivamente tutti i colleghi curricolari. Eppure la normativa lo prevede ma non dà istruzioni chiare sul relativo obbligo.

Compilare collettivamente il PEI non può considerarsi semplicemente una previsione normativa ma un processo che vedrebbe finalmente applicata una visione di corresponsabilità educativa in cui si esce da una prassi burocratizzata e delegante e si entra in una dimensione che si avvicina al progetto di Vita, in cui ciascun componente del GLO offre la sua specificità e il suo contributo.

Negli ultimi tempi, le forze politiche di governo hanno prodotto un’ampia congerie normativa che tende, come spesso in passato, a modificare l’idea stessa della scuola come è attualmente. Dalla “stabilizzazione” dei corsi brevi Indire riguardo il sostegno didattico, alle limitazioni sull’educazione socio-affettiva, alle modifiche all’esame di Stato, alla conferma della “scelta” degli insegnanti specializzati da parte di famiglie e dirigenti scolastici (non a caso, a tal proposito, il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi ha espresso l’anelito di “poter scegliere” tutti gli insegnanti graditi).

Non è un’assoluta novità che ad ogni cambio di dirigenza politica si assista all’avvicendarsi di riforme e nomenclature. Ciò che veramente continua a stupire è la mancanza di una vera visione psico-pedagogica in grado di sostenere e giustificare tali modifiche.

Per fare un esempio: è possibile continuare a rimandare, fin dalla più tenera età l’insegnamento delle competenze emotivo-affettive e legate alla sessualità in un Paese come il nostro in cui la violenza di genere rappresenta un fenomeno trasversale e presente anche in fasce d’età adolescenziali? Eppure, uno degli ultimi provvedimenti va esattamente in questa direzione, fino ad arrivare a vietare espressamente tali insegnamenti fino alla fine della scuola secondaria di primo grado.

Si continua a proporre, su questi temi, una visione ideologica che non tiene in considerazione né la realtà dei nostri studenti, né le evidenze e le indicazioni che giungono dal mondo della ricerca in ambito psico-pedagogico.

Il terreno apparentemente più fertile per l’appropriazione ideologica in atto nella scuola sembrerebbe essere proprio l’impianto stesso dell’inclusione scolastica.

A partire da un dato di fatto che ne costituisce la base stessa: siamo sicuri che sia sufficiente “imporre” il paradigma dell’inclusione per svilupparlo, come sentimento e tensione ideale, in tutte le componenti della scuola?

Ovvero, quanto la rappresentazione mentale abilista è diffusa anche fra gli insegnanti?

Si tratta di una questione di base che bisogna porsi, se è vero che ancora permangono situazioni di forte criticità, dalla delega alle figure di supporto, alla logica della “copertura” delle ore, alla mancanza di adeguata formazione dei docenti curricolari (giova ricordare, in tal senso, il fallimento del corso di formazione obbligatorio di qualche anno fa).

Il Sistema scuola mostra ancora forti resistenze all’idea reale di includere tutti e tutte; ancora si fa fatica a pensare un’idea di didattica personalizzata, in grado di adattarsi alle esigenze degli alunni, e ad una relazione educativa di qualità basata su reciprocità e dialettica.

Altra questione, mai sopita, è la concezione “vocazionale” degli Insegnanti specializzati su sostegno didattico. Poco e pochissimo si parla di professionalità, codici deontologici e formazione continua.

Si ritiene più utile dedicarsi ad operazioni ideologiche come proposte di cambi di nome (“docente per l’inclusione”) o per istituire la “cattedra di sostegno” (come se il sostegno didattico fosse, in sé stesso una disciplina) che interrogarsi sulla deriva che ha assunto la formazione iniziale, sempre più stringata e “telematica” e sulla mancata programmazione del numero di corsi attivati negli ultimi anni che ha causato forti disuguaglianze fra necessità e offerta, laddove sulla scuola dell’infanzia e primaria continua a mancare personale e in secondaria di secondo grado ormai si parla di graduatorie con migliaia di aspiranti che forse non lavoreranno mai. Porsi qualche domanda su questo fenomeno potrebbe, forse, aiutare a comprenderne le motivazioni sottostanti.

Non basta elencare numeri: bisogna chiedersi perché ci sono luoghi e cicli scolastici in cui c’è carenza e luoghi e cicli in cui c’è una sovrabbondanza.

Bisognerebbe chiedersi com’è possibile che circa 10.000 insegnanti specializzati all’anno decidano di richiedere la mobilità per passare su cattedra comune/curricolare. Avere un atteggiamento proibizionista o parlare di calo vocazionale non è utile né ci aiuta a comprendere. Vale lo stesso ragionamento per quella che ormai possiamo definire l’emorragia delle figure educative dalla scuola (relegate spesso ad una condizione lavorativa “suppletiva” rispetto al sostegno e in condizione esterna e subalterna rispetto all’istituzione scolastica in cui lavorano).

Ci sono condizioni che rendono il lavoro, alla lunga, troppo difficile, pesante, da svolgere? E’ possibile che la costante delega e marginalizzazione delle figure cosiddette preposte dall’inclusione rispecchi una possibile marginalizzazione degli stessi studenti con disabilità?

Dobbiamo francamente porci alcune domande e cercare le risposte nei posti giusti e con la necessaria onestà intellettuale.

Farlo ci consentirebbe di capire, questa benedetta inclusione, da quale parte sta andando; forse sarebbe il caso di ripensare e ricostruire daccapo, magari ripensando l’inclusione in un’ottica di equità, per tutta la comunità educante.

Come direbbe Andrea Canevaro: “a ciascuno ciò che spetta; né di più, né di meno”.