La scelta di intraprendere un percorso terapeutico non è mai semplice. Un vortice di paure, pregiudizi, incognite porta le persone a chiedere aiuto anche molto tempo dopo l’insorgere del problema; in alcuni casi, una richiesta di aiuto non arriva mai. Questo è ancora più vero per la popolazione LGBTQIA+ poiché al disagio psicologico si associa la paura del giudizio, lo stigma, la minaccia di una rivittimizzazione, il timore di dover «confessare» qualcosa che può essere visto o, peggio ancora, viene vissuto come sbagliato.
Non è possibile far prescindere un buon intervento terapeutico dalla preparazione del clinico circa le caratteristiche specifiche della popolazione LGBTQIA+ che, infatti, si contraddistingue per aspetti socio-culturali e problematiche specifiche: per esempio il coming out, una maggiore vulnerabilità a incorrere in alcune malattie fisiche (come per esempio malattie cardiovascolari, polmonari o oncologiche), la possibile presenza di episodi di vita anche traumatici, legati all’omofobia e al bullismo, la mancanza di esempi sociali rispetto alla vita di coppia omosessuale o bisessuale, la mancanza di conoscenze sulla sessualità gay o lesbica. Le persone che appartengono a una minoranza sessuale, infatti, presentano specifiche caratteristiche individuali, culturali, sociali, interpersonali, religiose, politiche, che non possono essere sovrapposte a quelle della popolazione eterosessuale.
A noi piace pensare che il terapeuta che prende in carico la popolazione LGBTQIA+, oltre a essere un professionista della salute mentale, debba anche essere in qualche modo un antropologo e un sociologo. Solo così potrà interpretare l’esperienza personale del paziente nella sua complessità e unicità e fare della terapia un successo.
Perciò la questione dell’omosessualità va studiata in tutte le sue implicazioni e sfaccettature, non solo ai fini terapeutici ma anche come indispensabile momento di formazione personale per il terapeuta stesso.
Molti specialisti, infatti, sostengono di essere liberi da certi condizionamenti culturali legati all’omosessualità e più in generale all’orientamento sessuale, ma è possibile che alcuni di questi emergano inconsapevolmente nel lavoro terapeutico.
Come insegniamo ai nostri allievi della scuola di specializzazione in psicoterapia, ogni terapeuta dovrebbe prendersi del tempo per guardarsi dentro e riconoscere la possibile presenza di stereotipi o pregiudizi omofobici (spesso normo accettati e per questo non chiaramente manifesti alla propria consapevolezza). Dovrebbe prendersi del tempo per lavorare sui propri possibili pensieri, credenze, emozioni, o atteggiamenti di chiusura verso un mondo che le principali fonti di trasmissione culturale ci hanno descritto come sbagliato, marginale, negativo.
Qui sotto si trovano alcune domande che speriamo possano essere da guida per implementare l’autoriflessione.
Domande utili per i terapeuti con pazienti LGBTQIA+
- Credi che l’orientamento sessuale possa o debba essere cambiato, soprattutto se è il paziente a chiederlo perché lo percepisce come egodistonico?
- Quale training di formazione specifico hai fatto per lavorare con pazienti appartenenti a una minoranza sessuale?
- Quali libri hai letto sulla psicologia/psicoterapia con pazienti LGBTQIA+?
- Che lavoro hai fatto su te stesso per individuare eventuali tuoi pregiudizi omofobi?
- Quando hai frequentato l’ultima volta un workshop/seminario di aggiornamento sulla psicoterapia con pazienti LGBTQIA+?
- Hai frequentato posti di ritrovo politici o ludici rivolti alla popolazione LGBTQIA+?
Se non si dà seguito a quanto viene suscitato in queste domande, la terapia con i pazienti LGBTQIA+ avrà un risultato parziale, attribuibile alle mancate conoscenze e riflessioni del terapeuta stesso. Non si tratta di essere gay friendly (atteggiamento di variabile apertura al mondo LGBTQIA+), ma si tratta di essere gay informed (essere informati e consapevoli del mondo LGBTQIA+).