Essere generativi del fare: per se stessi e per l’intera comunità

di Chiara Ambrosini, Antonio Caferra

Essere generativi del fare: per se stessi e per l’intera comunità

Ciò che andiamo a presentare è il FareAssieme, esperienza di progettazione ed attivazione di iniziative a favore di persone senza dimora nel territorio di Trento.
Il progetto ha origine nel 2012 con il coinvolgimento di alcuni utenti esperti (poi Hope) a cui è stata affidata la gestione di un dormitorio a Trento durante l’accoglienza invernale. Questa prima sperimentazione ha favorito la nascita di un gruppo di Coordinamento delle attività e un gruppo di Avvicinamento, con lo scopo di coinvolgere le persone senza dimora nelle fasi di pensiero e progettazione di servizi a loro dedicati.
Il Coordinamento del progetto si è consolidato nel corso degli anni ed è attualmente composto dall’Area Inclusione Sociale del Servizio Welfare e Coesione Sociale del Comune di Trento e da due Enti del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Villa Sant’Ignazio e Fondazione Caritas Diocesana. Il gruppo di lavoro è strutturato su più livelli di partecipazione e coinvolge in maniera diversa professionisti, peer operator e beneficiari.
I peer operator coinvolti nel progetto vengono chiamati Hope, parola che richiama l’inglese “speranza” e che è anche l’acronimo di Homeless Peer. Gli Hope sono persone che hanno vissuto un’esperienza di precarietà abitativa e che, grazie ad un percorso di affiancamento e formazione e al supporto di operatori sociali, mettono a disposizione la loro esperienza per la progettazione e attuazione di servizi e attività rivolte alle persone senza dimora.
Ad oggi il progetto si sviluppa nella gestione di due case comunitarie, in collaborazione con la Provincia Autonoma di Trento, ovvero Casa Orlando, nel quartiere della Bolghera e Casa Giuseppe nel centro storico e in attività di mediazione presso la Biblioteca Comunale di Trento e presso lo Sportello Unico di accoglienza. Nel corso degli anni, sulla base di un’attenta e continua lettura dei bisogni da parte del gruppo di lavoro e su richieste specifiche di intervento provenienti dal territorio, sono state attivate ulteriori attività di mediazione che hanno portato un contributo nell’evoluzione positiva della situazione. 

La partecipazione risulta centrale per il progetto e crea le basi per la costruzione di un benessere collettivo e dunque di risposte efficienti ai bisogni emergenti. Il modello di partecipazione attuato dal progetto è proprio quello del Fare Assieme, attraverso il coinvolgimento attivo dei diversi attori in tutte le fasi della progettazione:
le tre realtà coinvolte, che curano la forma e l’evoluzione del progetto in ogni suo aspetto, definendone continuamente visione e obiettivi;
i destinatari del servizio, alcuni dei quali, gli Hope, superano la loro condizione di senza dimora per diventare attori protagonisti e professionisti dell’accoglienza; 
la comunità locale, formata da cittadini/e e servizi/istituzioni.

Una comunità può essere definita come un insieme di persone che sviluppano legami sociali sulla base di valori condivisi e che tendenzialmente compiono azioni per la collettività. In questo senso le persone coinvolte nel processo partecipativo sopra descritto formano la comunità di riferimento sulla quale vogliamo soffermarci. 
All’interno di questa comunità locale, che condivide uno stesso territorio, si individua anche una comunità di interessi condivisi che accomuna un gruppo di persone, siano essi gli operatori sociali, i destinatari del servizio, i volontari e tutti i cittadini interessati al tema dell’accoglienza.

L’idea è quella di un lavoro “a cascata”: se lavorano bene i primi gruppi, che quindi raggiungono gli obiettivi sociali nelle case e nei servizi, a cascata ne godrà anche il terzo gruppo.
L’idea di base è quella della presenza di una sorta di circolo del fare, un modello nel quale si inseriscono tutti gli attori coinvolti, con l’obiettivo di creare beneficio.
1) Il beneficio è in primis per gli Hope che vivono una sorta di riabilitazione identitaria, che divenendo operatori dell’accoglienza possono ritrovare se stessi e ritrovarsi in una rigenerazione vitale nella quale trovano possibilità di cambiamento che gli permette di costruirsi una strada verso l’autonomia; in seconda battuta il beneficio è per tutti coloro che lavorano quotidianamente con gli Hope, operatori sociali che hanno la possibilità di costruire, al meglio, un ponte con le persone e capire più a fondo i bisogni delle stesse portando un bagaglio esperienziale che aiuta a fare meglio il proprio lavoro. 
2) I destinatari, individuati nel secondo gruppo, sono persone in stato di bisogno ospiti delle case, beneficiari dei servizi di mediazione, o che potenzialmente potrebbero esserlo, che traggono un beneficio diretto avendo la possibilità di godere di questi servizi (grazie anche alla relazione con l’Hope) e indiretto nel momento in cui vedono gli Hope come testimoni di speranza: un esempio che può innescare un circolo virtuoso di una seconda possibilità.
3) Infine la comunità si completa con quello che è il gruppo più “numeroso” ovvero la cittadinanza dei quartieri coinvolti. La comunità gode dei vantaggi diretti dell’azione delle mediazioni (biblioteca, sportello d’accoglienza) e della presenza, nei territori di riferimento, delle case. In questo senso si viene a creare una comunità composta anche da persone che, grazie al supporto ricevuto, hanno la possibilità di avere un “posto sicuro” per riproporsi alla società con risorse differenti con l’idea di apportare un nuovo valore.

La speranza è che questo circolo del fare porti le persone coinvolte ad essere generative per se stesse e per l’intera comunità in un welfare che, prendendo ad esempio il modello del Welfare Generativo delle 5 R sviluppato dalla Fondazione Zancan nel rapporto del 2013, dovrebbe essere valorizzato da 5 parole chiave: raccogliere, redistribuire, rigenerare, rendere e responsabilizzare [W=f(r1, r2, r3, r4, r5)].

Chiara Ambrosini

Cooperativa di solidarietà sociale Villa Sant’Ignazio, Trento
antoniocaferra@vsi.it

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