La tragica vicenda di Giulia Cecchettin, che nelle ultime settimane ha tenuto con il fiato sospeso l’Italia intera, ha sconvolto moltissime persone, scuotendo tante coscienze e riportando al centro dell’attenzione il tema della violenza di genere, un problema che rimane sempre di scottante attualità nel nostro Paese.
Pochi casi di cronaca nera come questo hanno catalizzato l’attenzione collettiva, portandoci a riflettere sulla necessità di una maggiore consapevolezza sociale e, soprattutto, di un impegno comune ad agire per sgretolare le fondamenta della violenza di genere.
Per approfondire questo tema, abbiamo intervistato la professoressa Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale all'Università di Trieste ed esperta in tema di violenza contro donne e minori. Attraverso le sue riflessioni, a partire dal caso di Giulia Cecchettin, cerchiamo di fare luce sulle radici culturali della violenza di genere, sul persistere di modelli patriarcali nella nostra società e sulla necessità impellente di attivare un cambiamento culturale.
Professoressa Romito, come interpreta il tragico caso di Giulia Cecchettin in relazione ad altri casi di violenza di genere che sono accaduti nel nostro Paese?
«Il caso di Giulia ci ha sconvolti tutti, credo che molti di noi abbiano davvero sofferto con questa famiglia sperando in buone notizie. Per tutta la settimana in cui non ci sono state certezze di alcun tipo, abbiamo avuto davanti agli occhi questa vicenda e ne abbiamo seguito gli sviluppi fino ad arrivare al drammatico epilogo che ben conosciamo che ci ha spezzato il cuore.
Passando a un discorso di analisi, si tratta di un caso di giovane donna uccisa da un uomo che non accettava di essere lasciato, ed è il modello tipico di quasi tutti i casi di femminicidio.
A parte l’aspetto della fuga e il fatto che non si è saputo nulla per una settimana, giorni e giorni in cui siamo stati tutti con il cuore in mano, per il resto le caratteristiche sono quelle della maggior parte dei femminicidi: lei vuole vivere, lui non sopporta che lei abbia una vita al di fuori di lui e quando lei decide di lasciarlo la violenza diventa più acuta, fino all’omicidio.
Queste sono le caratteristiche comuni alla maggior parte dei femminicidi: uomini che non accettano di essere soli al centro della vita di una compagna, che non accettano di non essere dominanti e che non accettano di essere lasciati».
Quali elementi del contesto sociale e culturale italiano permettono il verificarsi di femminicidi?
«Bisogna capire che i fondamenti della nostra società sono di tipo patriarcale. Si tratta di fondamenti che fanno sì che gli uomini si aspettino che il mondo giri intorno a loro, di avere tutti i privilegi possibili, che considerano dei diritti, e di avere le donne a propria disposizione.
Moltissimi uomini sono cresciuti con l’idea che comportamenti di possesso, di dominazione, di controllo, di essere al centro di tutto, siano normali, e che tutto sia loro dovuto.
Il nostro contesto sociale permette violenze di questo tipo, ancora oggi siamo in questo tipo di situazione. Tante cose sono cambiate, le leggi sono cambiate, ma è più facile cambiare una legge che cambiare il sentire comune. Il sentire comune è cambiato a macchia di leopardo, non per tutti. E non è detto che nelle generazioni più giovani i cambiamenti siano così estesi.
Viviamo in una società molto tradizionalista, in cui i ruoli di genere sono messi in discussione poco, basti pensare alla scarsa presenza delle donne nel mercato del lavoro, oppure al fatto che una parte importante di donne non ha un conto in banca a proprio nome.
Questo ci dice qualcosa sull’autonomia femminile, no? Ed è chiaro che quando poi invece le donne questa autonomia la manifestano, possono trovarsi vicino un uomo che non la accetta.
Uno dei motivi di crisi tra Giulia e Filippo era che lei era più brava all’università, infatti era al passo con gli esami e stava per laurearsi, mentre lui era rimasto indietro e pretendeva che lei non si laureasse per aspettarlo.
Adesso riconosciamo questo tipo di dinamica in questo caso che è finito in una maniera spaventosamente tragica, ma quanto è comune un tipo di situazione di questo genere, quanti uomini sopportano che la loro compagna sia più brillante, abbia un lavoro più interessante, guadagni più di loro? Quanti lo sopportano senza difficoltà? Non è scontato. Quindi davvero queste tragedie mettono in evidenza contraddizioni profonde nella nostra società e molto ampie, molto comuni».
Come commenta l’appello rivolto a tutti gli uomini da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, a riflettere sui propri atteggiamenti sessisti, a eliminarli e a farli notare anche a compagni, amici, colleghi perché anche loro li eliminino? Lo condivide?
«Mi sembra che questa giovane donna sia molto coraggiosa, molto intelligente, molto lungimirante.
Dice cose molto giuste: la violenza contro le donne è un problema degli uomini, ed è un problema anche degli uomini perbene che non picchierebbero mai una donna, che non farebbero mai un gesto inappropriato ma che appunto si sentono superiori, si infastidiscono se una donna è più brillante di loro e non reagiscono quando un collega, un amico fa apprezzamenti pesanti o usa espressioni discriminatorie.
Quindi è alla maggioranza degli uomini che ci rivolgiamo, perché sta a loro cambiare. Le donne sono cambiate tantissimo. Non tutte, non a sufficienza, non c’è ancora abbastanza solidarietà tra donne, anche se ce n’è sempre di più, però sono gli uomini che devono cambiare. Non possiamo cambiare al posto loro, devono fare la loro parte».
È vero che la responsabilità degli atti di violenza è individuale, però tutti gli uomini dovrebbero sentirsi parte di questa cultura che va cambiata e farsi carico di cambiare anche quelli tra loro che invece sono pronti a commettere atti di violenza.
Cosa pensa dovrebbe essere fatto nell’educazione di ragazzi/e, nei vari contesti di vita, per affrontare la violenza di genere in modo più efficace?
«L’educazione deve riguardare tutti e tutte e deve essere fatta nelle scuole di ordine e grado. Bisogna cominciare alla scuola dell’infanzia a non essere discriminatori, a non privilegiare i maschi, a non chiedere alle bambine di fare le servette ai compagni. Questo purtroppo succede ancora in certe scuole dell’infanzia, dove i maschi sporcano e le bambine puliscono.
E poi bisogna insegnare il rispetto, l’empatia, bisogna insegnare soprattutto ai maschi a capire i loro sentimenti, a mostrarli, a parlarne.
Questa educazione deve continuare fino all’università, dove si sta facendo molto ma non abbastanza, e deve essere presente in tutti i luoghi associativi, dove i ragazzi e le ragazze passano il loro tempo, nei gruppi sportivi, nelle parrocchie, nei gruppi musicali. Dove ci sono bambini e bambine, ragazzi e ragazze bisogna che ci sia non dico necessariamente un corso formale ma un’educazione da parte degli educatori e delle educatrici a queste tematiche sì.
È un lavoro che va fatto insieme ai centri antiviolenza. Non affidiamo l’educazione a un professionista qualsiasi: bisogna essere competenti sulla questione della violenza contro le donne. In Italia questa competenza ce l’hanno i centri antiviolenza, che non faranno tutto da soli, ma sarà il centro antiviolenza a individuare gli esperti e le esperte, a coordinare le azioni. Al cuore di questi interventi è necessario che ci siano i centri, altrimenti rischiamo di fare ancora peggio».
Quali sono gli interventi che ritiene più importanti da mettere in atto, a livello politico e istituzionale, per combattere la cultura della prevaricazione e della violenza di genere?
«Di leggi ne abbiamo abbastanza e si tratta di buone leggi, come ci confermano gli esperti.
Sappiamo però, e lo dice anche la commissione anti-femminicidi del Senato, che molte di queste buone leggi non vengono applicate, che le donne non vengono credute e protette, e che i loro bambini vengono affidati a uomini violenti.
Quindi, non perdiamo tempo a fare nuove leggi, applichiamo quelle che ci sono già. Formiamo i magistrati, che oggi non sono sempre formatissimi e lavoriamo invece per applicare correttamente le leggi che ci sono senza vittimizzare ulteriormente le donne vittime di violenza».