La continuità didattica e educativa è un diritto che riguarda tutti e che veicola il fatto di avere garantito uno sviluppo armonico dello studente in quanto persona.
Riguardo alla questione della continuità sul sostegno, un dato su cui non ci si sofferma mai abbastanza riguarda il passaggio su “materia” degli insegnanti specializzati e abilitati. Si parla di almeno 5.000 insegnanti all’anno, con punte del 20% sul totale che, trascorsi i cinque anni di vincolo, decidono di passare sulla propria materia di insegnamento ( si veda l’articolo de “La tecnica della scuola”: Sostegno disabili, ogni anno oltre 5mila docenti chiedono di nadare su materia, andrebbe impedito? Sondaggio )
Perché, è bene ricordarlo, il “sostegno” non è una disciplina, bensì una specializzazione.
Una delle possibili ipotesi che, in quanto uomini e donne di scienza, dobbiamo porci, riguarda il fatto che, stante l’incremento costante di ruoli relativi al sostegno, esso sia utilizzato come un modo “semplice” di entrare stabilmente a scuola e, trascorso il tempo di vincolo, passare sulla propria disciplina. Mi è capitato di conoscere diversi colleghi che hanno seguito questa strada e ho concluso, con sollievo, che era la cosa migliore per loro ma, soprattutto, per i loro alunni. Non si tratta, né mai si dovrebbe trattare di “vocazione” al supporto degli altri ma di visione del mondo improntata ad una concezione inclusiva non solo della scuola ma della vita in generale.
E tuttavia, ciò che le statistiche non dicono, riguarda quella parte di insegnanti stanchi di una scuola in cui il docente specializzato sul sostegno è, troppo spesso, relegato ad una sedia in fondo all’aula, lasciato solo nella stesura e progettazione del Piano Educativo Individualizzato, costretto a “fare arredamento” mentre il collega curriculare svolge “indisturbato” la sua lezione (perlopiù frontale, verticale e passiva, con buona pace di tutta la didattica inclusiva spiegata nelle università e glorificata in corsi e convegni). Un ruolo spesso marginale e marginalizzato che deve, una volta per tutte, interrogarci sulla qualità generale dell’inclusione scolastica.
Quando alcuni anni fa, decisi di lasciare il mio lavoro di assistente all’autonomia e comunicazione (dopo 14 anni di lavoro intenso e frustrante per le condizioni inumane in cui veniva svolto), risposi alla “domanda motivazionale” alle selezioni per il TFA sostegno dicendo semplicemente: “Se non sono tutelata e inclusa nel mio lavoro, non posso tutelare e includere i miei studenti”.
Non si tratta di rivendicazione sindacale (che pure rispetto agli assistenti specialistici è un nodo critico e fondamentale e riguarda la loro stabilizzazione nei ruoli dello Stato) ma di interrogarsi sulla qualità reale dell’inclusione delle nostre classi e di quanto anche le motivazioni più salde possano essere messe in crisi da una situazione che fotografa un mondo reale assai diverso da quello ideale che tutti vorremmo e continuiamo a cercare di realizzare.
Un altro sintomo evidente di ciò che comunemente intendiamo con “delega” all’inclusione alle figure specializzate è l’idea che, se l’inclusione dell’alunno con disabilità non funziona, la colpa è dell’insegnante di sostegno, che va sostituito, cambiato, allontanato.
Non ci si pone quasi mai il dubbio che un sistema è più della somma delle sue parti e che per funzionare ha bisogno dell’interdipendenza positiva di ciascuna di esse.
E qui torno al concetto di continuità didattica, concetto espresso, giuridicamente, già dagli anni 90 (Legge Finanziaria n. 662 del 23-12-96 art. 1 c. 72) e ribadito in più momenti, incluso il D.lgs. 66/17. È necessario chiedersi: tale continuità può riferirsi solo ad uno specifico alunno, quello con disabilità (e dunque, ipso facto, “speciale”) e ad un singolo docente, quello specializzato su sostegno? O piuttosto non dovrebbe riguardare tutte e tutti gli studenti e tutte e tutti gli insegnanti, non foss’altro che per un principio di equità?
La necessità di conoscere profondamente le esigenze, le capacità e le competenze, le motivazioni e aspirazioni di ciascuno studente e la conseguente capacità di improntare azioni didattiche e educative congruenti deve riguardare l’intero corpo docente, sempre; non può mai, in nessun caso essere delegato ad un singolo professionista, pena il fallimento in partenza del progetto educativo.
Per tornare ai freddi dati statistici, che vanno non solo citati ma di necessità interpretati, si ripete molto spesso che circa il 30% dei docenti utilizzati sul sostegno didattico non possiede la necessaria specializzazione. Ma ciò è vero solo in parte. Non riguarda quasi più il sud (e il centro) Italia, in cui abbiamo regioni, come la Sicilia, in cui la percentuale scende drasticamente al 3% e in cui la specifica riguardante la scuola secondaria di secondo grado è assolutamente sovradimensionata rispetto al bisogno reale. Ciò è accaduto per l’evidente sproporzione di posti messi a bando dalle università del sud rispetto a quelle del nord, verso cui si prospetta un’emigrazione di insegnanti specializzati degna degli anni 50, con tutto ciò che ne consegue. E dunque, dove non arrivano la pedagogia e la visione pedagogica generale sul perché l’inclusione scolastica in Italia languisca e non decolli ancora, nonostante un impianto giuridico di prim’ordine, arriva la demagogia.
Arrivano i procedimenti giuridici d’urgenza, quale il DL 71/24, (Quella mancanza di visione sui delicati equilibri della relazione educativa) in cui si pone, da un lato, una sorta di sanatoria, con annesso mini corso per chi abbia svolto tre anni di servizio su sostegno o chi, ahinoi, abbia acquisito le famose e lucrose specializzazioni estere (con le immaginabili conseguenze sul versante della qualità della formazione stessa e con la discriminazione rispetto a chi abbia seguito il percorso ordinario, il TFA selettivo) e dall’altra, la possibilità di confermare quel docente precario (si ricorda, a tal proposito, l’enorme sproporzione fra le cattedre “di fatto”, ossia quelle a tempo determinato e quelle “di diritto”, che rendono la scuola uno dei bacini di lavoro più precari che esistano) su indicazione della famiglia e col beneplacito finale del Dirigente Scolastico.
Si diceva del discrimine fra pedagogia e demagogia. È del tutto comprensibile che le famiglie e le associazioni che le rappresentano sentano il bisogno di incidere maggiormente sui progetti educativi dei figli e di vedere riconosciuta la continuità didattica cui hanno diritto (e non solo loro). Ma far passar il concetto che una specifica tipologia di insegnante e non altri debba essere sottoposta a criteri di accettazione personale di parte di privati cittadini mette in pericolo l’idea stessa dell’autonomia didattica, costituzionalmente garantita a tutti gli insegnanti. E il principio che la relazione educativa si basa sull’interdipendenza e sulla reciprocità, che sarebbe definitivamente inquinata dall’idea che, per essere riconfermati si debba fare ciò che è richiesto anziché ciò che è giusto per quello studente. Divenendo, definitivamente e senza appello, gli unici responsabili della qualità del processo di inclusione. Con buona pace di chi ritiene che l’inclusione è una visione del mondo che ha bisogno di essere collettiva e ha necessità di un’assunzione di responsabilità condivisa.
Ciascuno cresce, come scriveva Danilo Dolci, solo se sognato.