Nonostante il fatto che se ne parli ormai da decenni e che molti interventi educativi siano dedicati alla prevenzione e al contrasto nelle scuole, questo fenomeno non sembra accennare a diminuire. Certo il bullismo costituisce una struttura relazionale complessa che coinvolge direttamente o indirettamente non solo gli studenti, ma le famiglie, il corpo docente, la dirigenza scolastica e persino il personale ausiliario e tecnico. Tale complessità non autorizza a sperare risultati positivi in un breve periodo, specialmente nel caso del bullismo omo/bi/transfobico, quasi giustificato da una società che si struttura sulle stesse forme di discriminazione basate su maschilismo ed eteronormatività.
È tuttavia da riconoscere che dei limitati effetti che gli interventi educativi hanno avuto sia causa anche un difetto di interpretazione del fenomeno. La vasta letteratura scientifica sul bullismo appare infatti accomunata da una stessa struttura: si descrive il fenomeno, distinguendo le varie tipologie di bulli, di vittime e di spettatori, passando poi alla proposta di un intervento educativo centrato sulla valorizzazione delle differenze, sullo stimolare il corpo studentesco al rispetto. Il bullismo è visto come un dato di fatto e mancano del tutto ipotesi sull’eziologia del fenomeno, cioè sul perché esso esista. Mancando una preliminare ricerca delle cause, l’intervento educativo non può non essere generico e, quindi, solo limitatamente efficace. Se questo fenomeno nasce da un brodo di coltura formato da 1) un modello patriarcale di maschilità, 2) una condizione adolescenziale di laboriosa costruzione del modo (individuale e sociale) di esprimere la maschilità e 3) uno spazio di socializzazione caratterizzato dalla ricerca della validazione, da parte dei pari, del proprio ruolo di genere, appare insufficiente un intervento educativo basato solo sul rispetto delle differenze. Certo l’incontro con persone e associazioni LGBT+ in un setting scolastico adeguatamente organizzato potrebbe essere molto utile a smontare stereotipi e pregiudizi, ma ciò appare sempre più difficile in una scuola intimorita dalle intimidazioni di quegli imprenditori morali organizzati che attaccano una fantomatica «ideologia gender». In modo complementare a questo tipo di intervento, poi, un altro dovrebbe essercene, centrato sui bisogni — relativi ai propri compiti di sviluppo — che i bulli hanno. Se non rispondiamo infatti ai bisogni (interiori e reputazionali) che i bulli soddisfano attraverso la vittimizzazione scolastica, non basterà smontare i pregiudizi. Non basta esortare i bulli all’inclusività, se questi col bullismo omofobico cercano di affermare la propria identità maschile: sceglieranno comunque (e ciò non appare irrazionale) di prendere questa «scorciatoia», che li mette in scena davanti ai pari come maschi dominanti, adeguati al modello machista ed eteronormativo.
Si tratta allora di superare il paradigma della colpa (che spinge a schierarsi con la vittima, contro il bullo) per adottare un modello educativo che, oltre a sostenere le vittime, si occupi anche dei bisogni emotivi profondi dei bulli e delle loro strategie (peraltro efficaci) per soddisfarli. Appare insomma necessario ragionare su una educazione alla maschilità che parta dalla scuola dell’infanzia.
In un mondo che finalmente ha visto aumentare piano piano il protagonismo femminile nella società, sembrano essersi contratti rispetto al passato il potere e i privilegi maschili che erano garantiti dal modello patriarcale, con la conseguente difficoltà — in una minoranza di ragazzi — a trovare una nuova dimensione di genere. Se il modello patriarcale appare (per fortuna) in crisi, non si sono però ancora affermati altri modelli cui gli adolescenti possano ispirarsi. Alcuni si rifugiano allora nella riproposizione di un modello di maschilità basato sul dominio, sul maschilismo, sulla discriminazione omo/bi/transfobica (oltre che spesso sulla misoginia). Bisogna allora impegnarsi nell’accompagnamento educativo di tutti i ragazzi nella costruzione del proprio genere, mostrando la complessità e la poliedricità dei modelli di maschilità, evidenziando come quello machista ed egemonico non costituisca un dover-essere per tutta l’adolescenza maschile, e liberando così i ragazzi dalla trappola che per loro spesso rappresenta la maschilità.