Gli operatori sociali, nel loro gergo, parlano di «peso assistenziale», di «presa in carico», di stress dei caregiver e così via. Tale linguaggio è espressivo ma sintomatico di un sentimento ingenuo, pregno di senso comune. Voltaire definisce il senso comune come «una via di mezzo tra la stupidità e l’acume». Coglie nel segno e allo stesso tempo non coglie.
Tom Kitwood ci porta per mano a riflettere. Ci dice che la gravità oggettiva dei disagi esistenziali cui gli operatori o i familiari debbono far fronte dipende non solo dalle caratteristiche oggettive di quei disagi bensì anche, nello stesso tempo, dalle caratteristiche delle misure atte a rispondervi.
Dipende circolarmente da quale e quanta care viene agita, o non agita, nelle situazioni, dalla intrinseca sua razionalità o irrazionalità (organizzativa, tecnica, emotiva, ecc.). La «risposta» influenza la «domanda». Il «dopo» influenza il «prima». La «soluzione» crea/mantiene il «problema». Kitwood ci sta dicendo: la care non sempre... è care.
Un’assistenza magari meccanicamente efficiente ma non adeguata umanamente non solo — dice Kitwood — non risponde ai bisogni degli assistiti, lasciandoli per così dire «irrisolti». Può incistarsi nella situazione che la richiede e divenire — in misura determinante — parte di essa, un elemento della sua gravità.
Io operatore, o io Organizzazione assistenziale, dovrei sempre riflettere prima di «incolpare» questo o quel caso di essere «troppo complesso» o «intrattabile», ecc. Dovrei chiedermi: non è che forse, quando misuro quella gravità o quel peso, calco sulla bilancia, inavvertitamente, con il mio piede?