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Susan Brison e la violenza contro le donne

Al recente convegno “Affrontare la violenza sulle donne” (Trento, 18 e 19 ottobre) la filosofa statunitense si è interrogata sul concetto di consenso quando si parla di violenza sessuale

La voce di Susan Brison è una voce  importante nel dibattito sulla violenza contro le donne perché integra profonde riflessioni teoriche con l’esperienza di violenza che lei stessa ha vissuto sulla propria pelle.

Infatti, nel 1990, durante una passeggiata mattutina venne aggredita alle spalle, picchiata, violentata, strangolata, creduta morta e lasciata a terra incosciente. Nel suo libro Aftermath. Violence and the remaking of a self, Brison racconta di come questo abbia distrutto il suo mondo e la sua identità. Le sue riflessioni, oltre a toccare il suo personale percorso di recovery, forniscono un’esplorazione interdisciplinare dei concetti di trauma, di ricostruzione del sé, di autonomia, di comunità. 

E Susan Brison parte proprio dal trauma per evidenziare quanto esso tronchi passato e presente e precluda la possibilità di immaginare un futuro. Una via di uscita (seppure non risolutiva) è testimoniare quanto è accaduto, in modo da integrare la violenza subita nella propria storia. Questa testimonianza può anche aiutare a riflettere sui significati di questioni più ampie: non solo comprendere il trauma, ma anche interrogarsi su quello che si può fare e su come si vorrebbe vivere.

Susan Brison è anche protagonista di un’interessante lezione magistrale Sexual Violence, Social Meanings, and Narrative Selves disponibile su Youtube. Tra le riflessioni che la studiosa propone in questo speech è particolarmente interessante quella relativa al “consenso”, un concetto molto utilizzato in tutti i contesti in cui si affronta la violenza (da quello preventivo a quello giuridico). 

Susan Brison, pur sottolineando l’importanza di affrontare il tema del consenso, chiede fortemente di metterlo in discussione a partire da alcune domande provocatorie: quando parliamo di furto, forse diciamo che esso si definisce in base al consenso o meno da parte della persona derubata? O se parliamo di un omicidio, teniamo conto della possibilità che la vittima possa acconsentire a una sorta di “suicidio assistito”? In questi casi il consenso è una possibilità che non teniamo neppure in considerazione: semplicemente perché dovremmo porci la questione? Il furto e l’omicidio sono reati di per sé e la responsabilità è di chi li commette.

Quando invece si parla di stupro sembra tutto diverso. Spesso infatti il consenso viene proposto come l’unico elemento per distinguere tra un rapporto sessuale e una violenza. Questo però ha delle gravi implicazioni. Prima di tutto, si rinforza una visione distorta del rapporto sessuale, come se fosse in fin dei conti una “violenza autorizzata” che dipende dalla bravura dell’uomo nell’“ottenere il permesso”

Inoltre, ci si focalizza esclusivamente sulla vittima, sul suo stato mentale, sulla sua responsabilità e non sul fatto che lo stupro sia di per sé un atto disumano. In terzo luogo, focalizzarsi sul consenso porta a vedere lo stupro come un singolo accadimento distogliendo lo sguardo dal contesto sociale in cui si realizza, caratterizzato da pesanti discriminazioni di genere.

Dal pensiero di Susan Brison, così come da quello di altre studiose e professioniste, emerge ancora una volta quanto la riflessione sulle “parole” (stupro, consenso, rapporto sessuale…) non costituisca un semplice esercizio di ragionamento ma definisca in tutto e per tutto la realtà. Infatti il significato che diamo a determinati concetti e termini influenza direttamente e concretamente la vita delle donne che hanno subito violenza: pensiamo solo a quanto esso possa condizionare l’azione dei professionisti nei percorsi di aiuto sociale e psicologico, in ambito sanitario, nelle aule di Tribunale, nelle scuole e nelle comunità.

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