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Autismo: il ruolo delle parole nella percezione sociale e individuale - Erickson.it 1

Autismo: il ruolo delle parole nella percezione sociale e individuale

Perché è importante riflettere sull’utilizzo dei termini adeguati quando parliamo di autismo

Le parole sono i mattoni attraverso i quali strutturiamo l’identità. La consapevolezza in merito a esigenze neurologiche, diritti e struttura di pensiero ed emozioni che determinano utilizzo di schemi relazionali, di interazione sociale e di comportamento è fondamentale affinché questi si possano leggere correttamente o se ne possa fornire adeguata interpretazione.

A partire dall’ambito diagnostico e clinico, si continua a parlare e scrivere dell’autismo in termini di negatività, mancanza, deficit, disfunzione. In presenza di limite cognitivo anche severo, su base autistica, si attribuisce l’intero quadro patologico all’autismo, come se importanti condizioni di severa compromissione cognitiva non coinvolgessero specularmente anche sistemi su base neurotipica, e soprattutto come se non esistessero caratteristiche autistiche associabili ad aspetti di risorsa e vantaggio. Il movimento Identity First, raccomanda il riferimento all’essere autistici piuttosto che all’ “avere” l’autismo, esattamente come per il genere, l’orientamento o l’etnia. Eppure, a partire dalle diagnosi, la pletora di “con autismo”, “Affetti da autismo”, “disturbo autistico” che affolla la comunicazione è destabilizzante.

Il termine Condizione non esclude quelle patologiche, presenti nell’autismo come pure nella condizione non autistica. Al contrario il termine Disfunzione esclude tutte le condizioni funzionali o potenzialmente funzionali, eppure il tema della “sostituzione” della “D” con la “C” è ancora oggetto di discussioni accese.

Il DSM è come una mappa geografica: uno strumento in evoluzione

Guardando le mappe realizzate dai cartografi mezzo millennio fa riconosciamo a stento le forme dei continenti che ormai ci sono familiari. Con gli strumenti dell’epoca, la percezione che l’Uomo aveva di quelle terre era distorta, quasi una caricatura, eppure quei documenti sono non solo testimonianza preziosa di un passato affascinante, ma tappa fondamentale, condicio sine qua non, per il raggiungimento della conoscenza attuale. La riproduzione fedele delle aree geografiche di oggi si deve anche alle distorsioni percettive del passato. Il DSM è uno strumento esattamente come lo sono le mappe: strumenti in evoluzione, organizzati dall’uomo per l’uomo. Ed evolvendo si trasformano. Come è stato per l’omosessualità finalmente riconosciuta come condizione fisiologica in tempi scandalosamente recenti, è necessario che tale adattamento sia riferito alla percezione dell’autismo, perché gli effetti reali su persone vere, nella realtà concreta, sono incalcolabili.

Conoscere l’autismo per capire cosa significa davvero essere autistici

“Più conosciamo l’autismo, più lo riconosciamo”, afferma Francesca Happè, ricercatrice presso il King’s College di Londra.

In effetti negli ultimi anni la raffinatezza degli strumenti di indagine e la raccolta di dati e dettagli sulla condizione ha permesso, in un percorso ancora in evoluzione, di poter individuare le dinamiche percettive alla base del comportamento delle persone neurodiverse con una puntualità e precisione sempre maggiori.

Valutando profili e pattern di tratti attraverso chiavi di lettura sempre più adeguate e supportate dalla letteratura, sono sempre di più le persone i cui schemi di pensiero e interazione con ambiente e società aderiscono ai criteri diagnostici dell’autismo.

L’insieme dei profili identificati come autistici si discosta sempre più e sempre più in fretta da quelli che sono i criteri di patologia o disfunzione medicalmente intesi. Piuttosto che adeguare rapidamente tali criteri, e rinunciare alla percezione dell’autismo tutto come patologia, il sistema tende a riconsiderare il profilo funzionale come patologico perché aderente ai parametri dell’autismo. Essere riconosciuti come autistici oggi non solo non garantisce diritti, ma li nega.

La diagnosi è motivo di rifiuto del visto in numerosi paesi, i criteri legali cambiano per gli autistici e tutte le dinamiche di sostegno e assistenza associabili a relazioni di abuso, violenza di genere, violenza domestica, mobbing, non includono nessuno dei dati presenti in letteratura o nelle ormai innumerevoli testimonianze autorevoli. Ma anche l’assistenza legale e l’atteggiamento dei magistrati e dei servizi sociali non solo non tiene conto di tali caratteristiche ma ha piuttosto un atteggiamento accusatorio e colpevolizzante. Alla base di tutto questo fenomeno, che appare come sintomo disfunzionale di tutto l’insieme delle dinamiche socio-relazionali all’interno delle quali la persona autistica è inserita, si colloca l’attribuzione di valore associato all’autismo e la percezione stessa di identità della neurodiversità.

Vivere, crescere sentendosi costantemente inadeguati, disconfermati, in errore, non favorisce egosintonia ed evoluzione per nessuno, men che meno per adulti, bambini e ragazzi inseriti in ambienti che non aderiscono a esigenze relazionali, ma anche sensoriali e neurologiche ormai piuttosto note. Alimentare aspettative di normalizzazione, con attribuzione di “correttezza” a tutto ciò che è normale, determina aspettative insostenibili e investimenti inadeguati e sproporzionati per famiglie e genitori il cui obiettivo resta quello di annullare l’autismo e ogni sua manifestazione. Il professionista che orienta il proprio lavoro in questa direzione, con l’autorevolezza del ruolo, favorirà dinamiche di grande sofferenza e frustrazione, arrivando, come troppo spesso accade, a fissare obiettivi di forma a scapito dei preziosi processi cognitivi che caratterizzano ogni Persona per ciò che è.

È ormai diventato urgente, anche e non solo in considerazione dei dati relativi al tasso di suicidi nella popolazione autistica, a quello della ricerca di compensazione attraverso uso di sostanze, a quello degli abusi sessuali, dell’emarginazione dal tessuto lavorativo, dell'accessibilità alle cure e all’indipendenza economica, che si estingua, anche in ambito clinico e di ricerca, l’utilizzo di termini negativi associati all’autismo.

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