Sono uno dei tanti operatori del sociale e del sanitario che in questo periodo di emergenza coronavirus stanno lavorando, perché molti dei nostri servizi non possono chiudere. Ci sono persone che stanno passando una parte della loro esistenza nei nostri servizi e quando sentono lo slogan #iorestoacasa pensano a come trascorreranno questo tempo lì: casa per loro è proprio il nostro posto di lavoro.
Provo a cogliere l’invito di Fabio Folgheraiter, che chiama tutti noi che ci occupiamo di social work al dovere scientifico e morale di riflettere in questo momento particolare. Per farlo provo a proporre 5 ri-scoperte di lavoro sociale, pensate in questo tempo “sospeso”.
Riscoprire la squadra nella nostra vita da mediano.
Ogni giorno abbiamo negli occhi le immagini degli operatori della sanità con i segni delle mascherine, con i segni di una giornata in cui sono stati emotivamente violentati: sono le nostre prime linee, sono quelli che il mondo dei social arriva velocemente a chiamare “eroi” o “angeli”. Qualcuno di noi operatori sociosanitari sta provando timidamente ad alzare la mano dicendo “ehi ci siamo anche noi”, le seconde linee, quelle nelle comunità per disabili, quelli nelle RSA, quelli che devono convincere i minori a stare in casa.
Vorrei che ri-scoprissimo di far parte della stessa squadra di un sistema sanitario e sociale con diversi servizi, professionisti con ruoli e funzioni che si integrano.
Lo stiamo vedendo che siamo nella stessa squadra quando le mascherine si esauriscono in ospedale come nelle comunità, lo vediamo quando gli operatori si contagiano in ospedale come in RSA. Ne usciremo, ne siamo certi, un po’ malconci, ma con la convinzione che abbiamo e dobbiamo avere un sistema, una squadra di professionisti sociali e sanitari che sanno rispondere ai bisogni delle persone. Da oggi in poi la narrazione dovrà essere quella di far parte di una grande squadra.
Riscoprire le nostre radici in Don Milani: “Sortirne tutti assieme, non uno di meno”.
Ci ha fatto “rabbrividire” la prima posizione del premier britannico Boris Johnson: “abituatevi a perdere i vostri cari’. Abbiamo riscoperto in maniera chiara, forse ancora di più quando lottavamo qualche mese fa con chi tentava di definire chi può accedere ai servizi e chi no (ricordate la lotta contro i 10 anni di residenza per accedere ai servizi?).
Il valore è e rimane l’universalità dei servizi alla persona: se un essere umano sta male, ha bisogno, si aiuta senza “se” e senza “ma”.
Questo stiamo vedendo succedere negli ospedali, questo abbiamo visto succedere in mare, questo vediamo succedere nei nostri servizi. Mi è piaciuto molto il post di Mauro Berruto, allenatore di pallavolo, che vi consiglio di leggere: rimanda al signor Boris Johnson l’immagine della scultura Enea, Anchise e Ascanio di Gian Lorenzo Bernini. Quella scultura rappresenta “non uno di meno”.
Riscoprire che siamo intelligenti, noi operatori e anche i nostri utenti.
Per intelligenza intendo la capacità di adattarsi in maniera funzionale ai cambiamenti. Per anni abbiamo sostenuto l’importanza del setting, del non cambiare le routine, altrimenti i nostri utenti si sarebbero scompensati, dell’importanza della quotidianità scandita. Tutti temi che conosco bene e che credo fortemente siano fondati, ma tendo a chiedermi se non siano resistenze al cambiamento.
La situazione che stiamo vivendo, certo intrinsecamente destrutturante, ci ha fatto riscoprire la capacità degli operatori di re-inventarsi servizi in meno di una settimana, con risultati eccellenti.
Anche le persone che accogliamo hanno dato risposte di adattamento che non ci saremmo aspettati. Certo non tutte, ma c’è anche chi ha percepito la storicità del momento, aiutando ad accompagnare se stesso e gli operatori nelle nuove situazioni, avvertendo e trasmettendo fiducia e sviluppando un senso di autoefficacia.
Riscoprire i confini delle nostre comunità.
In questi giorni si è parlato molto di tempo: tempo “sospeso”, il prima e il dopo, l’attesa. I decreti governativi hanno però inciso molto anche sullo spazio, sui nostri spazi vitali: le comunità residenziali hanno visto restringere i propri confini. Sento che in questi giorni le persone che vivono la comunità dove lavoro si sentono private della libertà: non possono scegliere. Dal punto di vista contingente questo creerà inevitabilmente dei problemi da gestire (ad esempio, legati al convivere in spazi ristretti).
Ma se guardiamo un po’ più da lontano, possiamo misurare da quello che succede in questi giorni quanto il nostro lavoro sia effettivamente orientato alla libertà delle persone, di quanto ampi siano i nostri confini quando diciamo che i nostri utenti debbano essere attivi e partecipi nella comunità.
Riscoprire i nostri colleghi.
Lavorare in questo periodo ci fa scoprire parti nostre e parti dei nostri colleghi che non conoscevamo. Citando Stefano Benni in Saltatempo, ho “scoperto una cosa molto semplice: che ci sono responsabilità che uno accetta con coraggio e decisione e altre che ti cadono addosso, pesanti e incomprensibili, e tu devi affrontare le seconde proprio come le prime”. Sto conoscendo molti copioni diversi miei e dei miei colleghi e vorrei descriverne alcuni prendendo spunto da Enzo Jannacci con la sua Quelli che, scritta nel 1975 ma sempre attualissima, per proporre la nostra personale Quegli operatori che...
Quelli che speriamo non succeda niente agli utenti
Quelli che vengo al lavoro, tutto il tempo a casa non resisto
Quelli che di mestiere ti spengono il cero
Quelli che il virus non ci risulta
Quelli che l’animazione a mille
Quelli che fanno la videochiamata con l’utente
Quelli che da tre anni fanno un lavoro d'equipe convinti d'essere stati assunti da un'altra ditta
Quelli che ci credono senza “se” e senza “ma”
Quelli che ma siamo in ferie, in cassa integrazione, in permesso, o lavoriamo?
Quelli che per principio non per i soldi
Quelli che stanno in malattia fino a metà aprile
Quelli che non abbandonano la nave
Quelli che è tutta un’esagerazione
Quelli che organizzano tutto
Quelli che organizzeranno quando sarà tutto finito
Quelli che fanno un mestiere come un altro
Quelli che aspettano la fine ridendo e scherzando
Quelli che Venezia sott’acqua, il Virus, e l’anno bisesto
Quelli che nell’imprevedibile si realizza un senso profondo di verità e anche, persino, di “utilità” professionale
Quelli che andrà tutto bene.