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Nel tempo della pandemia, non tirare a campare  - Erickson.it 1

Nel tempo della pandemia, non tirare a campare

Cosa insegna il Covid-19 agli operatori sociali? A non chiudersi in un modello predefinito dei propri compiti, ma sconfinare e innovare

L’espressione “tirare a campare” solitamente è impiegata per indicare chi fa venir sera cercando di non muovere un dito. Nel tempo del Coronavirus il lavoro sociale non tira a campare. Essendo sociale, svolge un’azione di contaminazione di questa attitudine. La coevoluzione è contaminazione. E quindi può spaventare e creare resistenze su immaginari identitari accompagnati dal timore di scomparire. Vi può essere la difficoltà di vivere le tappe di transizione verso un risultato che è in gran parte sconosciuto. Un risultato che viene immaginato con una ricompensa, un premio che viene sempre raffigurato in un confronto con il premio dell’altro che evolve con me (coevolve): se è un antagonista, dovrà avere un premio minore; se è un congiunto, dovrà essere maggiore e risarcire della fatica del percorso coevolutivo.

Coevoluzione e riflessività

Sembra quindi che si esca da una reciprocità istintiva per giungere, forse (questa è l’incertezza che può paralizzare, ma anche la scommessa che può appassionare), a una nuova reciprocità che contiene la coevoluzione ed esige da tutti i soggetti la riflessività. Questa dinamica è più facile per chi viene da un mondo – quello contadino – che pratica costantemente la contaminazione e avvia coevoluzione. E che ha incorporato quel parametro che Martha Nussbaum nel libro Le nuove frontiere della giustizia (Il Mulino, 2006) illustra parlando di capacità che non sono da interpretare come qualità innate, ma come frutto di cure attente e personalizzate.

Essere responsabili

Daniele Callini ci offre la possibilità di collegare questa prospettiva alla responsabilità. «La responsabilità è la capacità di rispondere alle diverse situazioni della vita, senza sprecare energia incolpandosi o incolpando gli altri degli errori commessi» scrive in Arcani al lavoro. Metafisica della vita organizzativa (FrancoAngeli 2008). E prosegue. «É importante udirsi. Ascoltare ciò che si dice, le parole che si usano, il proprio linguaggio. Dunque non si può essere profondamente responsabili seguendo un rigido e costante impegno, ma serve una rilassatezza autentica, una riconciliazione con la vita. Serve pace col proprio destino. La responsabilità più profonda non è “essere ciò che si vuole essere”, ma è “accettare ciò che si è”».

Intercettare necessità e bisogni emergenti

Il tempo della pandemia attraversa diverse fasi. Ci accorgiamo che è decisamente più facile la tolleranza zero rispetto alla tolleranza giusta. Nella fase delle chiusure totali e dei confinamenti – tolleranza zero – l’assunzione di responsabilità è esclusivamente esecutiva: l’ordine è perentorio e chiaro, e bisogna soltanto eseguirlo. Le fasi successive richiedono un’esecuzione ragionata, ragionevole e responsabile. Non si può tirare a campare. È il lavoro sociale che approfitta di ogni occasione per intercettare necessità e bisogni emergenti. Non limitarsi all’ordine apparente, ma affrontare i disordini delle vite che escono dai confinamenti. In questo senso, quindi, non chiudersi in un modello predefinito dei propri compiti, ma, accettando le sfide, sconfinare e innovare. Con l’ambizione di costruire futuro. E di coltivare speranze. È la responsabilità diffusa.

L’operosità diffusa

Bisognerebbe che il lavoro sociale facesse la sua parte, nelle fasi successive a quella della chiusura totale. Il lavoro sociale è l’erosione, la riduzione del tirare a campare, tendendo alla sua scomparsa. È l’operosità diffusa. Il benessere della persona non è legato alla sua potenza quanto a quello che qualcuno oggi chiama capitale sociale, ovvero a quella capacità di organizzarsi e di adattarsi grazie ad elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, con i contesti. Questo vale per chi opera nel lavoro sociale ma se si limita agli operatori di servizi, perde il suo senso. Che, ripetiamolo, è contaminazione di responsabilità dei singoli ed erosione del tirare a campare.

La capacità di ascoltare gli altri

La conoscenza certamente può essere un atto d'affermazione di sé che permette di inorgoglirsi, di avere delle grandi aspirazioni, ma può essere che orgoglio e grandi aspirazioni si leghino all’assunzione di responsabilità insieme. Questo tema “responsabilità” ha una sua etimologia molto chiara: significa rispondere, ascoltare. Quasi una banalità. É quindi possibilità di intendere le voci, e anche di aspettare che arrivino. La tendenza è quella di inventarsi le voci o di riempire i silenzi con la nostra voce che interpreta la condizione degli altri. La posizione d'attesa e di ascolto è invece legata alla possibilità che ci sia un’apertura di credito all’altro che parla o che parlerà, e non la chiusura del tempo: il tempo è scaduto e io ho capito quello che tu non mi hai detto.

Una responsabilità insieme

L’assunzione di responsabilità è un educarci a vivere nella dimensione dell’accoglienza, nelle situazioni diverse, per scoprirne gli elementi inquietanti ma anche di crescita. Ed è quindi un elemento fondamentalmente educativo. Crescita che non si ferma solo alla crescita di una certa fase e una certa fascia anagrafica ma che può continuare. Se ci si scopre incompiuti. Se invece ci si compiace di una compiutezza, allora non abbiamo più la possibilità di usare la parola “educare”, che in qualche modo esclude. Il lavoro sociale fa parte del sistema cura. Il Covid-19 dovrebbe farci capire che, se anche il medico fa benissimo il suo lavoro, questo risulterebbe limitato negli effetti se il singolo non diventa responsabile del proprio stile di vita. Il lavoro sociale esce dal confinamento del tirare a campare per espandersi nell’intera società composta da esseri umani sociali e quindi responsabili per loro stessi e per gli altri. Tutte e tutti.

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