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Nel tempo della pandemia, la conoscenza  - Erickson.it 1

Nel tempo della pandemia, la conoscenza

Nel lavoro sociale il bisogno di capire può portare a nuove conoscenze la cui produzione è una filiera – trasparente e tracciabile – fatta di tanti contributi diversi che vanno valorizzati.

La conoscenza in generale dovrebbe avere il suo avvio dall’ignoranza. «Dobbiamo augurarci tutti di essere analfabeti. Quell’analfabetismo che non ci fa mai sentire arrivati, chiusi in illusorie certezze, ma disponibili allo stupore da cui nasce prepotente il bisogno di capire», come scrive Luigi Ciotti in La speranza non è in vendita (Giunti/Gruppo Abele, 2011).

In particolare, nel lavoro sociale, il bisogno di capire può portare a nuove conoscenze. La pandemia potrebbe averci fatto capire l’importanza della produzione di conoscenze.

Un processo in continua evoluzione

«La conoscenza, quindi, appare come un processo in continuo dispiegamento e consiste proprio nella progressiva strutturazione di schemi rappresentativi del mondo. Questi diventano a mano a mano più complessi e sempre più in grado di rendere decodificabile e prevedibile il fluire multiforme delle esperienze, essendo la decodificabilità e la prevedibilità gli strumenti indispensabili per un’efficace sopravvivenza», scriveva lo psichiatra Vittorio Guidano nel libro La complessità del Sé (Bollati-Boringhieri, 1988). Le conoscenze che nascono dal contatto con un essere umano con disabilità diventano patrimonio esclusivo dello specialista o sono filiera e quindi tracciabili e trasparenti? Raggiungono unicamente chi ha condizioni analoghe? Come riconoscere il contributo della persona “speciale” per provenienza culturale o con disabilità?

Un lavoro invisibile

La produzione di conoscenze è una filiera, produttiva appunto di conoscenze. Una filiera, per essere tale, dovrebbe avere le caratteristiche della trasparenza e della tracciabilità. Che comportano il riconoscimento dell’operato di tutti gli operatori della filiera stessa. I contributi del lavoro sociale per conoscere le condizioni abitative di chi vive il confinamento per il Coronavirus possono essere importanti nel sistema cura. Pascale Molinier nota nell’opera CARE: prendersi cura (Moretti&Vitali) come molte volte il lavoro sociale, se fatto bene, diventa invisibile. Trasparenza, tracciabilità, visibilità, credibilità. Quest’ultima sembrerebbe dipendere dalla visibilità. È un errore ed è un problema che può inquinare la filiera delle conoscenze. È banale: l’albero che cade è più visibile e fa più rumore dell’erba che cresce. I mezzi di comunicazione di massa, giornali, televisioni, social, danno risalto ed evidenza soprattutto a quello che non va, a contrasti, protagonismi smodati. Gli esibizionisti sembrano essere premiati. Rischia di essere la corruzione del lavoro sociale. La conseguenza può essere l’esibizione della vittima per dare così visibilità all’operato di chi è attivo nel lavoro sociale. Temiamo che in questo, però, modo svapori l’essenza del lavoro sociale.

Chi ci mette la faccia

Nelle filiere, come ad esempio in quella dell’agroalimentare, vi sono quelli che, come si dice, ci mettono la faccia garantendo tracciabilità e trasparenza. Altri rimangono invisibili se non nelle loro operosità produttive. Nel lavoro sociale, chi ci mette la faccia? C’è il rischio che la faccia cambi secondo l’esito, il successo o l’insuccesso, delle operazioni. Una faccia per le cose che vanno bene, e un’altra faccia, o altre facce, per quelle che vanno male. È il tema dei Dirigenti. Dirigenti. Se le parole hanno un significato, vorremmo renderlo esplicito: guidano un servizio per dirigersi, insieme, ma verso dove? Chi è dirigente dovrebbe essere responsabile di un progetto verso il futuro. In che senso e in che modo? Vorremmo affermare che è responsabile dello sviluppo della democrazia delle conoscenze. Della filiera.

Il segreto della reciprocità

Un’esperienza ospedaliera permette di esprimere la gratitudine più autentica nei confronti di un gruppo di infermieri e di infermiere e del Primario. Vediamo nel Primario quel maestro/dirigente attento che non ha la presunzione di pensare che la sua presenza sostituisca quegli autentici depositi culturali che sono gli altri. In ospedale, infermiere e infermieri rappresentano quotidianamente una capacità di aiuto importante. Chi è Primario in quel caso è come un dirigente che ci mette la propria competenza e la propria faccia: il suo servizio – chi opera in trincea – sono infermiere e infermieri, degenti e familiari dei degenti. Il Primario che abbiamo incontrato ha avuto il buon senso di non collocarsi come se fosse possibile sostituire con quello che lui può dare – la formazione formalizzata –, facendo a meno del deposito culturale. Il deposito culturale è una cosa straordinaria, importante; dovremo preoccuparci di non esaurirlo, di salvaguardarlo. E anche la nostra formazione universitaria non deve avere la presunzione di poter fare quello che le culture e i tempi hanno creato. Non dilapidare, non sacrificare, rispettare, essere capaci di aggiungere poco per non sciupare, e imparare a valorizzare.

E questo è nel rapporto così segreto, da tener nascosto, celato che è la reciprocità: io ti posso insegnare perché tu mi insegni qualcosa. Ed è lì il segreto dell’insegnamento e anche quello dell’apprendimento ma deve essere un implicito che non si esplicita. Si vive.

Esplicitarlo rischierebbe di tradire sé stesso e l’immagine sociale. Come molte cose che riguardano quello che alcuni studiosi hanno chiamato “il corpo vissuto” non può essere compreso unicamente con l’intelletto. Deve essere appunto vissuto senza visibilità.

Stare al mondo

Bisogna rifarsi a studiosi che hanno contribuito non poco alla comprensione di quello che può essere la nostra propria oggettività. Proponiamo di soffermarci su Merleau Ponty e sul suo “corpo vissuto”. L’interazione è importante. «[…] il senso dei nostri atti è nelle intenzioni o negli effetti che producono all’esterno? Più ancora: può mai succedere che tali effetti ci siano del tutto ignoti e che non siano voluti anch’essi?» scrive in Senso e non senso (Il Saggiatore, 1948).

E in Fenomenologia della percezione (Il Saggiatore, 1945) sottolinea che «la verità non abita soltanto l’uomo interiore o meglio non v’è l’uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce. Quando ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo». E ancora nella stessa opera. «Il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema. Quando cammino nel mio appartamento, i diversi aspetti sotto i quali esso mi si offre non potrebbero apparirmi come i profili di una medesima cosa, se io non sapessi che ciascuno di essi rappresenta l’appartamento visto da qui o da lì, se non avessi coscienza del mio proprio movimento, e del mio corpo come identico attraversale fasi di questo movimento».

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