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I mini gialli dei dettati 2
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Ripensare il lavoro sociale con le persone in stato di povertà in base al paradigma PA-P (Powerty-Aware Social Work Paradigm)

Una studiosa di primo piano nel panorama del social work internazionale illustra i sei principi dell’approccio PA-P che dovrebbero orientare la pratica professionale dei social worker nel lavoro con le persone in povertà

Vent’anni fa, quando ero una giovane operatrice sociale, avevo la sensazione che la mia percezione ed esperienza degli uomini e donne in povertà con cui lavoravo fossero diverse rispetto a quelle dei miei colleghi. Me ne accorgevo distintamente dal linguaggio che si usava nel parlare degli utenti durante le riunioni o le chiacchierate in corridoio. Per me non era affatto piacevole sentirmi diversa dai miei colleghi. Mi rallegra notare come oggi ci siano molte più persone che la pensano e che si esprimono in modo più simile al mio. Ho avuto la fortuna di ritrovare alcune di loro come colleghi in ambito accademico e nella pratica professionale, mentre altri sono miei studenti o ex-studenti.

Nel corso di questi anni ho sviluppato il Poverty-Aware Social Work Paradigm (PA-P), che attualmente viene utilizzato nei programmi di formazione degli studenti del corso di laurea in Servizio sociale dell’Università Ben-Gurion (Israele). Ciò che vorrei presentare qui oggi sono i sei principi dell’approccio che definiscono il modo in cui parliamo della povertà.
La retorica — il modo di parlare — è importante perché il linguaggio che utilizziamo rivela i nostri preconcetti fondamentali, talvolta inconsci, riguardo agli utenti dei servizi e riguardo al nostro ruolo. Denota il nostro status sociale, la classe sociale e la posizione che assumiamo rispetto alla persona con cui stiamo parlando.

Primo principio: prendere atto del sapere delle persone in povertà, riconoscere che possiedono un sapere esperienziale legittimo e importante

Questo è un principio fondamentale, che si applica sempre.
Prendere atto del «sapere» di chi vive in povertà significa dare retta a ciò che queste persone dicono sulla propria realtà, e anche comprendere la realtà attraverso i loro occhi, per capire il loro punto di vista e la loro prospettiva.
Altrettanto importante è prendere atto della loro analisi della realtà: in altre parole, la base logica e le teorie da cui sono guidati. Ci sono sempre delle teorie a guidare le persone, indipendentemente dal livello di istruzione, ed è qualcosa che accomuna tutti, compresi coloro che non hanno l’abitudine di spiegare le proprie teorie agli altri o neppure a se stessi.

Secondo principio: riconoscere il dolore delle persone che vivono in povertà

Questo principio significa dare ascolto al dolore, ossia capire che ciò che leggiamo come un modo di comportarsi in realtà fa parte di un mondo emotivo molto più ampio. Per riconoscere il sapere esperienziale delle persone in povertà bisogna anche comprendere il dolore legato alla povertà ed essere consapevoli che il comportamento non è qualcosa di indipendente del resto, ma deriva da vissuti emotivi. In un certo senso, si tratta di guardare agli utenti come persone che portano con sé una sofferenza sociale.

Terzo principio: la sfera materiale e quella emotiva sono sempre interconnesse

Diversamente dalla classificazione gerarchica dei bisogni di Maslow, che poneva i bisogni materiali davanti a quelli emotivi, ciò che impariamo dalle persone che vivono in povertà è quanto in realtà questi bisogni siano strettamente collegati. Per illustrare questo punto: le persone a volte rinunciano ai loro bisogni primari se questi non vengono soddisfatti nel modo che vogliono, e a volte decidono di vivere per strada per protesta se il loro appartamento è eccessivamente angusto. Ciò che intendo dire è che ogni affermazione dei professionisti a proposito della sfera materiale deve tenere conto anche dell’aspetto emotivo. Occuparsi dei bisogni materiali influisce necessariamente sui bisogni emotivi e viceversa, e si dovrebbe sempre tenere conto di questa complessità in tutte le nostre relazioni d’aiuto.

Quarto principio: riconoscere che cos’è la povertà e come influisce nel ridurre le opportunità e le alternative reali

In altre parole, dobbiamo riconoscere tutto quello a cui le persone devono rinunciare a causa della povertà, o tutto ciò che la povertà infligge alle persone.
Nella situazioni di povertà, le esperienze di mancanza di riconoscimento e di rispetto sono quotidiane. Avvengono, ad esempio, quando gli utenti devono prendere due autobus per raggiungere il nostro ufficio tenendo un bambino in braccio, solo per poi scoprire che l’assistente sociale non c’è perché è in maternità, o che il modulo che stavano aspettando non è ancora stato firmato perché il nostro dirigente è in vacanza o a casa in malattia. Non c’è nessuna intenzione malevola, ma manca la consapevolezza del fatto che la povertà crea una situazione in cui le persone dipendono dagli altri per soddisfare i loro bisogni più elementari, e di conseguenza questo crea occasioni quotidiane di esperienze umilianti.

Quinto principio: non accettare la povertà e creare una pratica professionale che si opponga ad essa

La nostra pratica professionale si dovrebbe basare sulla forte convinzione che «la povertà non va bene». Da cittadini e da professionisti che vedono la povertà da vicino, sappiamo che non va bene. Non va bene che le persone non abbiano cibo da mangiare o non possano mandare i figli al doposcuola, o che debbano vivere in un appartamento sopra un covo di tossicodipendenti.
Tutto questo non va bene. Non sono le persone in povertà che non vanno bene, ma è la situazione sociale che non va bene. Chiunque a questo punto stia pensando che ciò che dico significa deresponsabilizzare le persone in povertà per la loro situazione sta iniziando a capire perché questo principio, apparentemente semplice, in realtà non è semplice.

Sesto e ultimo principio: le persone che vivono in povertà resistono costantemente ad essa

È importante notare che, anche nelle peggiori circostanze, le persone resistono alla povertà e alle avversità, e in genere sanno che stanno facendo tutto il possibile per resistere alla povertà. Solo che certe volte non lo esprimono con chiarezza. Dunque, il nostro ruolo è ascoltare attivamente le persone per comprendere le azioni che mettono in atto per resistere alla povertà.
Ascoltare attivamente significa non solo ascoltare, ma anche dire agli utenti che ciò che fanno non è una manifestazione dei loro errori o difetti. Che loro tentano di fare qualcosa per migliorare la loro situazione, anche quando magari questi tentativi non funzionano. Se sembra che non si assumano la responsabilità, è solo perché le loro azioni a volte non hanno successo. Il nostro compito non è educarli ad assumersi la responsabilità, ma aiutarli ad avere successo nelle loro azioni di resistenza.

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