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I mini gialli dei dettati 2
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Oltre al saper fare, il saper essere è fondamentale nelle relazioni di cura

Per chi opera in ambito socio-sanitario, padroneggiare competenze trasversali come l’empatia, l’ascolto attivo, l’autoconsapevolezza e l’autoefficacia è importante per rispondere con efficacia ai bisogni di utenti e caregiver

In ambito socio-sanitario vi è un bisogno diffuso di accrescere le capacità dell’individuo in un’ottica di empowerment che si rifletta anche in ambito professionale. Capacità come il saper comunicare con efficacia, l’affrontare con armonia le relazioni interpersonali, l’esprimersi con chiarezza, il saper ascoltare le altre persone, il saper trovare un punto di incontro tra le proprie e le altrui esigenze fanno parte del saper essere e saper stare nella relazione.

L’operatore del socio-sanitario entra sempre in rapporto con l’utente per fornirgli prestazioni e informazioni senza pensare che le informazioni, spesso più importanti delle prestazioni, devono essere fornite in modo attento perché altrimenti le prestazioni divengono un episodio slegato dal resto o acquistano un significato diverso, alle volte vuoto.
La tecnica (il saper fare) e come si fornisce la tecnica (il saper essere) sono strettamente correlate. Quando si fa una iniezione o si cambia il letto, si assiste la persona durante il pasto, la si cambia, o si fornisce una informazione di carattere clinico — ossia anche quando l’operatore socio-sanitario ritiene di dover svolgere un ruolo esclusivamente esecutivo —, persino in quel caso si tratta di qualcosa che va ben oltre la mera esecuzione di un compito, anche per lo «sguardo» dell’utente su come svolgiamo quelle azioni e come gliele trasferiamo: uno sguardo distratto, un modo freddo e distaccato, un modo direttivo, impersonale, standardizzato promuovono reazioni diverse. Per questo l’analisi della relazione e la conseguente proposta di azione diventano fondamentali.

Le tecniche di counseling come l’empatia, la congruenza, l’autenticità, la consapevolezza dei propri valori, sensazioni, opinioni e pensieri, la disponibilità verso l’altro, la curiosità, la conoscenza, l’interesse divengono i tasselli fondamentali di costruzione della relazione senza i quali lo scambio si svuota e tecnicizza.

In questo senso, la terapia rogersiana centrata sul cliente estesa all’azione educativa della scuola credo sia un importante spunto per comprendere come dovrebbe essere l’approccio dell’operatore in ambito socio-sanitario nel suo rapporto centrato sull’utente per promuovere il suo saper stare.
Nell’azione educativa la terapia rogersiana diviene pedagogia della non-direttività centrata sullo studente. La «lezione» in senso lato — o meglio la tipica «sequenza didattica» di Rogers — segue questo sviluppo: l’insegnante presenta la tematica di un determinato corso; si mostra il materiale di lettura e si suggeriscono opportune tecniche di studio; gli studenti svolgono attività di ricerca sulla traccia del materiale preparato per loro, procedono all’autovalutazione del lavoro compiuto ed esaminano le reazioni personali. In sostanza, l’accento viene posto non più sull’insegnamento ma sull’apprendimento, non deve essere il maestro a cambiare l’alunno ma è l’individuo che si cambia mentre apprende. La nondirettività non è quindi il lasciar fare nello spontaneismo disordinato, ma è al contrario un’autorità volta a lasciar esprimere le potenzialità degli alunni che cerca di superare non l’autorità, ma il potere della funzione docente. Trasponendo questo processo nel rapporto operatore/utente, l’aspetto da cui si dovrebbe partire è quello di mettere quest’ultimo nella condizione di apprendere dalla situazione che sta vivendo. L’operatore si fa facilitatore, fornendo indicazioni e predisponendo il contesto e l’utente, sulla base del suo bagaglio conoscitivo, del suo tempo e della sua necessità, si muove ed elabora gradualmente l’apprendimento su di sé e sul suo bisogno.

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