IT
I mini gialli dei dettati 2
Carrello
Spedizioni veloci
Pagamenti sicuri
Totale:

Il tuo carrello è vuoto

|*** Libro Quantità:
Articoli e appuntamenti suggeriti

Il lavoro sociale è un lavoro di rel-azione

Natura e oggetto del lavoro sociale, una professione diversa da tutte le altre proprio per la “materia” che tratta

Un confronto tra professioni mediche e professioni sociali

Il lavoro sociale, oltre a essere definito analiticamente nella propria suddivisione interna, può anche essere compreso per «contrapposizione» esterna. In particolare, si definisce in contrasto all’altra importante, e forse più popolare, area di aiuto, che è quella sanitaria (o clinica). Che cosa distingue le sopracitate professioni sociali, prese nel loro insieme, dalle professioni mediche tradizionali risulta intuitivamente evidente. Ma non altrettanto chiara è la distinzione rispetto a professioni come la psicologia clinica e la psicoterapia, le quali aderiscono al modello medico ma si occupano della riparazione di disagi psicologici e comportamentali apparentemente simili, se non identici, a quelli di cui si occupa il lavoro sociale. La cura di un malato di mente può essere responsabilità di operatori sanitari (il medico psichiatra, l’infermiere, lo psicologo esperto di riabilitazione comportamentale, ecc.) oppure di operatori sociali, come l’assistente sociale o l’educatore professionale. E quindi dov’è la differenza? Volendo abbozzare un minimo di ragionamento epistemologico ci si dovrebbe chiedere: qual è il differente oggetto?

Due diverse accezioni del termine “cura”

Nel linguaggio anglosassone specializzato, il termine «cura» è espresso in due differenti accezioni, a seconda che si voglia indicare la cura sanitaria o quella sociale. Nel primo caso si usa il vocabolo curing, che significa curare con l’intenzione di guarire. Nel secondo si usa il termine caring, che significa curare con l’intenzione di migliorare la qualità di vita, a prescindere dalla persistenza o meno della patologia (o della sua stessa esistenza ab origine).
Lo sforzo di guarire implica sempre la ricerca di una precisa malattia (diagnosi) e di qui la ricerca (o la semplice attivazione) di un preciso corrispondente procedimento riparativo (trattamento). Lo schema diagnosi/trattamento caratterizza il modello medico, un filtro logico che, qualora trasferito nel sociale, semplifica in genere la complessità delle situazioni di disagio sociale talora al punto da oscurarle. Spesso le professioni sociali hanno fatto proprio tale incongruo modello per una sorta di attrazione inconscia, sostenuta in parte dalla maggiore semplicità cognitiva di tale approccio e in parte dal suo più alto status intrinseco.

Al cuore del lavoro sociale: l’azione coordinata di più soggetti per una finalità condivisa

Il lavoro sociale è un modo di guardare ai problemi sociali senza il filtro della patologia.
Non si nega che molte manifestazioni di disagio sociale siano connesse a (o causate da) qualche evidente anomalia strutturale formalmente diagnosticabile, cioè qualche malattia, come ad esempio una psicosi, o una dipendenza psicofisica, o un deficit sensoriale, ecc. Ma anche in tali casi, quando la patologia «c’è» senza dubbio — diciamo così per semplificare, chiedendo venia ai costruzionisti —, l’operatore sociale, pur tenendone conto, la «bypassa» con la mente e mette a fuoco una realtà sovrastante di altro ordine: appunto il sociale di cui parliamo.
L’operatore sociale ha il dovere di mettere a fuoco il sociale, altrimenti non si capisce perché possieda proprio quel nome preciso, e non un altro qualsiasi. Sfortunatamente si tratta di una percezione non proprio intuitiva, ma che non richiede tuttavia un’eccessiva propensione analitica, solo un minimo di attenzione in più. Il concetto che ci aiuta in tale percezione è quello di «azione intersoggettiva dotata di senso», caro ai fenomenologi.

Il sociale di cui parliamo può essere appunto descritto come azione finalizzata di più persone interconnesse nel perseguimento di scopi condivisi, considerati dagli agenti degni di essere raggiunti in vista del loro stesso benessere.

Entro questa cornice concettuale potremmo osservare situazioni correlate a malattie sanitarie anche gravi (per esempio, una malattia di Alzheimer) che tuttavia non costituiscono problema dal punto di vista specifico del lavoro sociale, qualora la capacità di azione dei soggetti coinvolti in quella specifica contingenza (il malato stesso per qualche parte, alcuni familiari o amici o alcuni specialisti professionali, ecc.) risulti adeguata a un fronteggiamento sufficiente della stessa, secondo il loro stesso giudizio. Viceversa è possibile individuare situazioni in cui non vi è alcuna malattia riscontrabile entro i parametri della sanità, e tuttavia è ben evidente anche all’occhio del profano una disfunzione sociale eclatante, attribuibile appunto alla carente capacità di azione dei soggetti coinvolti. Tutti gli agenti potrebbero essere abili, per così dire, sul piano della struttura psicofisica sottostante, rimanendo tuttavia deficitaria l’azione «sensata» emergente. È questo il caso ad esempio di situazioni di devianza, come quella di un minore non gestito dalle sue relazioni di vita che entra nel circuito penale; oppure di situazioni di conflitto relazionale all’interno della famiglia; o ancora, considerando realtà a valenza collettiva, situazioni di deprivazione socioculturale in ambienti svantaggiati, e così via.

Il lavoro dei professionisti del sociale tra empowerment e rel-azione

Il lavoro sociale come disciplina/prassi intenzionale studia e sostiene la capacità di azione tecnica dei professionisti del sociale.

Questa azione si esplica tuttavia nel sostenere e potenziare («empower») la capacità di azione naturale delle persone direttamente o indirettamente interessate allo stesso benessere di cui il professionista, per dovere d’ufficio, deve occuparsi.

Di azione si tratta quando parliamo di ciò che fa il professionista e di azione si tratta quando ci riferiamo alle persone coinvolte, sue interlocutrici. È evidente allora che il lavoro sociale, occupandosi di come un’azione possa stimolare e orientare altre azioni, sia nella sua essenza più fine rel-azione sociale. La relazione richiama l’idea della circolarità e della reciprocità degli influssi in entrambe le parti coinvolte, parti che, quando si parla di relazioni sociali, sono appunto soggetti umani agenti. Le distinzioni legate ai differenti status/ruoli in capo ai differenti soggetti non vengono del tutto superate, ma si sfumano. Questa teoria ha importanti implicazioni sul piano operativo, al punto da staccare il lavoro sociale dalla base dei mestieri tradizionali, e farne un corpus a sé. Tutte le professioni conosciute hanno una caratura tecnologica, avendo esse un oggetto statico che attira la manipolazione esterna dell’operatore esperto. Il lavoro sociale non è una tecnologia perché non ha oggetto, o meglio ha un oggetto epistemologico che è l’esatto contrario di ciò che tale termine lascia intendere.

L’oggetto del lavoro sociale è una pluralità di soggetti (una rete) e quindi di autonome fonti di azione intersecantisi. In concreto, ciò vuole dire che gli utenti «non esistono» essendo essi, quando li si vede come agenti, degli «operatori» di benessere in qualche grado (che sfortunatamente a volte è un grado basso, ma mai completamente nullo). L’utente e le persone che si trovano in relazione con lui sono coterapeuti rispetto all’operatore che ufficialmente avrebbe in mano l’aiuto. A sua volta l’operatore risulta «coutente», cioè bisognoso di integrazioni esterne rispetto alla sua capacità di azione, la quale è sempre strutturalmente inadatta a perseguire scopi o a sviluppare progetti di azione per via autoreferenziale. Quando c’è di mezzo il benessere intersoggettivo, i suddetti scopi o progetti non possono mai essere del tutto coincidenti con quelli di un singolo individuo, nemmeno se questo è in una posizione di potere tale da farlo sentire autorizzato a pensare in tal modo. Quando gli scopi non sono condivisi, quando il potere d’azione (empowerment) non è ripartito tra gli agenti, i dinamismi relazionali finalizzati al bene comune si inceppano e lasciano campo aperto ai problemi sociali di vario ordine.

Leggi anche...
  • Giornata mondiale del Social Work 2021
    Mai come quest’anno la tradizionale celebrazione del Social Work assume sostanza e senso. La riflessione di Fabio Folgheraiter, professore di Metodologia del lavoro sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore
  • I 6 principi ispiratori del Metodo Relational Social Work
    Dall’andare oltre il “senso comune” alla capacità di valorizzare tutti i saperi in gioco; dal rispetto all’empowerment: l’agire di un operatore sociale relazionale
  • Le sfide dei coordinatori nei Servizi di welfare
    Ogni giorno alle prese con questioni organizzative, metodologiche, tecniche e relazionali, coordinatori e coordinatrici svolgono una funzione cruciale per il buon funzionamento dell’Organizzazione.
Ti potrebbero interessare...