Da quindici anni ogni terzo martedì del mese di marzo si festeggia la Giornata mondiale del Servizio sociale (The World Social Work Day). Una giornata che celebra il “duro e appassionato lavoro dei social worker”, come recita l’Organizzazione Internazionale dei Social Workers (IASW). In ogni parte del mondo, il glorioso “corpo professionale” delle assistenti sociali è impegnato ad affermare il rispetto dei diritti umani e della giustizia sociale non, come è più facile fare, in maniera astratta, limitandosi ad esprimere altisonanti affermazioni di principio nei dibattiti o nei convegni. Lo fanno spendendosi ogni giorno a contrastare le concrete e spesso drammatiche manifestazioni della sofferenza esistenziale. Mai come quest’anno la tradizionale celebrazione del Social Work assume sostanza e senso.
Dopo la sfibrante esperienza della pandemia, la tradizionale festa nel 2021 assume un carattere speciale. Ogni incrostazione di inevitabile retorica che sempre segna ogni celebrazione, deve lasciare spazio solo a riflessioni e sentimenti autentici. La ricorrenza dovrebbe essere un momento in cui la società intera riconosce agli assistenti sociali i giusti meriti e si mostra finalmente, dopo i pesanti e stucchevoli attacchi nati a seguito della vicenda di Bibbiano, “orgogliosa” di loro.
È arrivato a mio avviso il momento in cui tutti noi – Istituzioni e cittadini – ci fermiamo per qualche ora a rendere omaggio sincero agli operatori del servizio sociale per tutto ciò che silenziosamente hanno fatto e per tutte le pezze che hanno dovuto mettere nel vortice di una pandemia che ha sconvolto ogni logica lavorativa e ogni standard sindacale conosciuto.
Si è reso giustamente merito agli operatori dell’area sanitaria – ai medici e agli infermieri dei pronto soccorso e delle unità di riabilitazione, ai medici di base e ai volontari delle ambulanze – per lo straordinario lavoro svolto dentro e fuori gli orari di servizio, anche a rischio diretto della vita. Meno attenzione è stata invece pubblicamente rivolta a chi nei servizi sociali pubblici o nelle cooperative ha garantito un minimo di tenuta dell'assistenza sociale, a chi ha stretto i denti davanti alle voragini di bisogni (solitudini, paure, mancanza di reddito, incapacità di sfamare o accudire i figli, ecc.) quali non si sono mai viste nella storia moderna della professione.
Va detto pure che la prevalente preoccupazione sanitaria ha di fatto legato le mani agli operatori del “sociale”. I vincoli ferrei del distanziamento hanno impedito agli assistenti sociali di usare i loro classici “strumenti” professionali, tipici del “sociale”, che sono il contatto umano diretto, l’empatia e il rispetto dell’equità.
Il Social work si è visto impedito - per Decreto ministeriale – dal dar attuazione al principio relazionale dell'Ubuntu (“io sono perché noi siamo”) che da sempre lo caratterizza profondamente e che non a caso quest’anno costituisce lo slogan della giornata. Di punto in bianco gli assistenti sociali sono stati obbligati a lavorare senza poter accogliere le persone nei propri uffici, senza poter fare visite domiciliari, senza poter fare colloqui o riunioni o lavoro di gruppo a meno che, s’intende, gli utenti non avessero in casa pc o smartphone e linee di connessione efficienti, cose che i classici “utenti” dei servizi sociali in genere non possono permettersi. Molti sono stati sentiti da remoto, ma non tutti, e non sempre quando c’era reale bisogno. Gli assistenti sociali, operatori della giustizia sociale, costretti ex lege a perdere i contatti con i più bisognosi e i più poveri: un paradosso doloroso e imbarazzante per la professione, cui si è cercato in tanti modi – anche tessendo reti virtuose con il volontariato, le parrocchie e le comunità locali - di farvi fronte.
Collocata simbolicamente al principio della primavera, la Giornata mondiale del Social Work consente a noi cittadini di ringraziare i tanti professionisti e dirigenti che nell’anno appena trascorso hanno lavorato in condizioni durissime e al contempo di augurarci, tutti assieme, un imminente “rinascimento del sociale”.
Questo è l’augurio: che l’esperienza inaudita e scioccante del non potersi stringere la mano o non potersi abbracciare ci stimoli a riflettere e a sperimentare nuove pratiche di Lavoro sociale in cui le “vere” relazioni umane tornino ad essere al centro di ogni aiuto.