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I mini gialli dei dettati 2
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Ripensare l’inclusione lavorativa e sociale delle persone fragili

Le persone fragili sono quelle con maggiori difficoltà occupazionali, in particolar modo nei periodi di crisi. Com’è opportuno impostare l’accompagnamento lavorativo per loro?

Per una persona con disabilità, fragile, vulnerabile, svantaggiata, che dir si voglia, a occupabilità complessa, l’inclusione lavorativa e sociale in un ambiente ordinario di lavoro, in azienda profit, in una cooperativa, o in un ente pubblico, è un obiettivo auspicabile ma sempre più difficile da raggiungere. Tra il 70 e l’80% delle persone inoccupate/disoccupate, anche dopo ripetute azioni orientative, formative, di tirocinio e accompagnamento al lavoro non viene assunto e per chi ottiene una occupazione il più delle volte è un part-time, a tempo determinato, per periodi brevi. Il problema si aggrava in periodi di crisi, come il precedente dal 2008 ad oggi e come l’attuale, per emergenza pandemica e concomitante/successiva crisi economica e occupazionale generalizzata, che ci accompagnerà per un lungo arco temporale.

In queste critiche circostanze, chi rischia di più, con una permanente estromissione dal mercato del lavoro, sono le situazioni liminali/marginali, ovvero le persone che già in periodi ordinari hanno difficoltà occupazionali per mancanza dei requisiti richiesti dalle aziende. Inoltre, con il cambiamento tecnologico, informatico, robotico dei processi produttivi progressivamente caleranno in quantità e qualità i lavori compatibili per queste persone, verranno generate nuove professioni a più elevata specializzazione, raggiungibili solo da una qualificata minoranza, con un incremento delle persone disoccupate e una maggiore competizione tra coloro che si dovranno contendere decrescenti opportunità e impieghi sempre più degradati, precari, mal retribuiti.
Se aumentano i disoccupati e con lo sviluppo tecnologico progressivamente andranno a calare sia il tempo sia le possibilità di lavoro, soprattutto per chi ha una occupabilità complessa, non può essere che sia il vuoto esistenziale, anomico, di perdita di identità, di dignità, di sussistenza del «non lavoro», nella sua accezione negativa, a prevalere.

Va allora rivisto e cambiato il «paradigma della centralità del lavoro», risignificando quello che adesso viene considerato «non lavoro».

«Risignificare il tempo di non lavoro» per queste persone può volere dire consentire loro di avere una base economica sulla quale fare affidamento per una esistenza dignitosa, promuovendo le stesse persone a coltivare la propria crescita culturale, la propria capacitazione (anche con l’istruzione e la formazione, informale non formale-formale), stimolandole a coinvolgersi in azioni di pubblica utilità, in modo non obbligato, per soggettivo, motivato interesse e impegno socialmente riconosciuto.

L’ambito nel quale può avvenire tale conversione di senso, di utilità e di rinascimento sociale, non è il «mercato» né il «profit», che hanno logiche prestazionali, di scambio economico e strumentale, indifferenti alle, quando non espulsive delle, risorse umane non efficienti e convenienti. Non è il «pubblico» che, al di là delle lodevoli «intenzioni equitarie» e di presidio del bene collettivo, non riesce ad accogliere le specificità soggettive con modalità inedite, innovative, personalizzate/individualizzate e si trova in contrazione di risorse, spesso appesantito da logiche burocratiche. Fondamentale invece potrebbe essere la collaborazione del pubblico con il terzo settore. Il terzo settore, infatti, solidale con i più svantaggiati, è l’ambito elettivo più promettente per la conversione auspicata, perché agisce secondo reciprocità, investimento fiduciario, scambio simbolico, nella produzione di beni relazionali e, in prospettiva, con possibilità di impiego retribuito delle persone meno occupabili nel profit tramite l’imprenditoria sociale della economia cosiddetta civile, rappresentata ad esempio dalle cooperative sociali di tipo B (di inserimento lavorativo).

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