Più ci si addentra nella storia culturale del digitale più si intuisce come, fin dalle sue origini, non sia mai stato concepito come alternativo alla presenza (fisica), o comunque come strumento anzitutto funzionale a gestire la distanza. Né le condizioni estreme in cui docenti e studenti sono stati costretti a lavorare — a distanza, appunto — possono essere associate, se non in quella eccezionale contingenza, all’approccio metodologico che meglio potrebbe interpretare la cultura partecipativa, cooperativa e dialettica (tipica della comunità scientifica) all’interno della quale le tecnologie digitali si sono rese, come si diceva più sopra, al contempo possibili e necessarie.
È dunque sulla base di queste considerazioni che pare auspicabile — proprio per smarcarsi dalla rigida ed equivoca contrapposizione tra didattica «in presenza» e «a distanza» — che (ci) si propone di provare a immaginare e a disegnare lo spazio-tempo di un ecosistema degli apprendimenti digitalmente aumentato.
Un’impresa non banale in cui ci si potrebbe però avventurare facendosi le giuste domande, del tipo:
-
Quali attività didattiche esigono assolutamente la presenza fisica e quali no?
-
Quali altre, invece, (sincrone o asincrone, individuali o cooperative) si rivelano comunque efficaci a un diverso grado di prossimità rispetto al docente o ai compagni?
-
Quali impongono la distanza quale conditio sine qua non della loro fattibilità?
Altrove condividerò la mia personale risposta ai tre quesiti; qui e ora, invece, li propongo a chi legge come una call for ideas, nella convinzione che ci attende una sfida da affrontare insieme.
L’articolo completo “Una sfida, tre quesiti” è disponibile sul numero di maggio 2021 della rivista Erickson “DIDA”