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Accogliere nel rispetto della diversità 1

Accogliere nel rispetto della diversità

Perché accogliere è importante, la distanza tra teoria e pratica e la teoria sociale del benessere spiegati da Fabio Folgheraiter, docente ed esperto di lavoro sociale

Come ogni anno, la Giornata Internazionale del Servizio Sociale propone un tema importante di riflessione: “Contro ogni barriera o privilegio, insieme” recita il suggestivo titolo scelto che ci ricorda la nostra collettiva responsabilità di accogliere la diversità. Il senso di comunità e solidarietà, l’apertura fiduciosa all’Altro e l’accoglienza degli estranei entro i confini o gli spazi della propria vita sono infatti valori primari da perseguire sempre.

Anche di fronte agli ultimi tragici naufragi avvenuti nel Mediterraneo – gli ennesimi – che purtroppo provano ancora una volta che tante vite umane avrebbero potuto essere salvate, è impensabile chiudere gli occhi e non scrivere e discutere dell’importanza dell’accoglienza.

Accoglienza significa aver fiducia, confidare che il Mondo nonostante tutto sia buono. Significa disponibilità ad aprirsi in un sorriso, un abbraccio, una telefonata.
L’accoglienza ci fa aprire la porta della nostra casa – e i nostri porti – a chi suona al campanello, quand’anche pure non sia atteso, o gradito.

Significa essere ecologici nel profondo, avere un animo che ci rende interessati all’ambiente tutto: alla salute di ogni cosa che ci circondi, che siano esseri viventi – umani e non umani – o esseri inorganici come l’aria, l’acqua, i ghiacciai, persino i rifiuti plastici riciclati del nostro consumismo, ecc., perché l’ambiente ci sostiene, ci nutre, ci protegge, ci fa da medico (ci cura), ma ad una condizione: che anche noi, a nostra volta, lo sosteniamo, lo nutriamo, lo proteggiamo, gli facciamo da medico (lo curiamo). “Non fare all’ambiente ciò che non vorresti che l’ambiente facesse a te” – potrebbe suonare ora, ai nostri tempi, la famosa massima biblica.

Se una “teoria” deve insistere a predicare bene, è facile che la “pratica” razzoli male. Le persone ascoltano, ma l’animo non s’inzuppa. Ecco perché è necessario allora ripetere all’infinito le cose. Gli stessi teorici a volte, dopo aver parlato a favore di qualcosa, istintivamente fanno diversamente. Che cosa dice, ad esempio, la teoria sociale a proposito del nostro benessere?Il benessere – dicono i sociologi – emerge dalla disponibilità alle relazioni sociali. In altre parole, tale godimento interiore dipende da una “sana” interazione con l’ambiente, dove per ambiente si intenda la comunità degli esseri umani. Il cosiddetto “sociale”. Non solo al benessere dei prati, dei boschi e degli animali che li abitano noi dobbiamo guardare per star bene, bensì allo star bene delle altre persone – dei tanti nostri simili che ci vivono attorno. 

Sul piano astratto non ci sono dubbi: è così. Sul piano pratico invece: non ci siamo. Lo vediamo ad ogni tornata elettorale: il sentimento di tante persone – forse maggioritario – esprime l’idea contraria. L’istinto porta tanti di noi a chiudere le porte di fronte alla diversità, a difenderci impauriti, a rivendicare il nostro stile di vita come “migliore” e a disprezzare quello degli altri, togliendoci il gusto di andare a conoscerli e apprezzarli, se non proprio a farseli amici.

La teoria dell’accoglienza, essendo così dura da digerire, è dunque falsa? No. Significa che la questione è più complessa

Innanzitutto, va da sé che ogni apertura fiduciosa dovrebbe sempre essere eseguita con prudenza: non l’apertura a tutto e a tutti porta benessere; qualche volta può essere il contrario, come dare totale fiducia a un truffatore. L’apertura e la chiusura, in sé, sono manovre entrambe al contempo giuste e sbagliate.

Purtroppo, molte volte è il nostro inconscio, più che la capacità di giudizio, a dettare la linea.

L’istinto di chiusura di fronte alla diversità è forzato spesso da paure irragionevoli o nevrotiche, cioè da una patologica sottovalutazione della propria forza. Un anziano che chiudendosi in casa non vuole aprire a nessuno (nemmeno a un volontario di Caritas che viene a vedere come sta) è convinto di essere una povera preda in balìa di chiunque, anche dei propri benefattori. Teme solo il male che può arrivare dal contatto. Mette fuori le unghie e si rinserra. 

Un’altra fonte di chiusura è al contrario l’arroganza di sentirsi superiori. Spesso aggravata da futili motivi, come percepire un senso di sicurezza perché il colore della propria pelle è conforme a quello prevalente. Talvolta il senso di superiorità invece è scaturito da convinzioni pseudo-morali, ad esempio, pensare che l’altro non si meriti la mia attenzione perché l’ho visto comportarsi, secondo il mio giudizio, da sciocco o da irresponsabile. 

Impulsi di superiorità scattano anche per motivi “funzionali”, vale a dire perché qualcosa nell’altro “non funziona” (ha una disabilità, è malato, menomato, demente, senza fissa dimora, malvestito, ecc.).

Il disprezzo per l’altro può nascondersi anche sotto le buone intenzioni. Chi accoglie con grande generosità a volte può partire, senza accorgersene, dal micidiale presupposto della pietà. L’altro è uno che merita di essere aiutato e “accolto” perché … è un povero disgraziato. “Ma niente paura” – sembra dire quel buono – “ecco che ci sono io!”. Come Donna Prassede, egli sente davvero di essere moralmente superiore. E qui casca tutto. Ogni “accoglienza” che svaluti l’accolto, che dietro il sorriso e le moine nasconda l’inconscio piacere di sentirsi migliori, è l’altra faccia (quella “buona”) della mancanza di rispetto.

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